Alessandro Manzoni - Opera Omnia >>  Osservazioni sulla morale cattolica




 

ilmanzoni testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia #


Unum gestit interdum ne ignorata damnetur.
TERTULL., Apol., cap. I.



AVVERTIMENTO


La seguente operetta fu pubblicata la prima volta col titolo di Prima Parte, credendo allora l'autore di poterle far tener dietro alcune dissertazioni relative a diversi punti toccati in essa. Ma, alla prova, dovette deporre un tal pensiero, venendogli meno, sia l'importanza o l'opportunità che gli era parso di vedere nelle materie che s'era proposte, sia la capacità di trattarle passabilmente, nemmeno al suo proprio giudizio. Ha però creduto di poter aggiungere a questa seconda sua edizione, col titolo d'Appendice, un discorso scritto da ultimo, intorno a'sistemi che si studiano di fondar la morale sul così detto principio d'utilità: argomento al quale non manca, di certo, nè la prima nè la seconda di quelle condizioni.




AL LETTORE


Questo scritto è destinato a difendere la morale della Chiesa cattolica dall'accuse che le sono fatte nel Cap. CXXVII della Storia delle Repubbliche Italiane del medio evo.

In un luogo di quel capitolo s'intende di provare che questa morale è una cagione di corruttela per l'Italia. Io sono convinto che essa è la sola morale santa e ragionata in ogni sua parte; che ogni corruttela viene anzi dal trasgredirla, dal non conoscerla, o dall'interpretarla alla rovescia; che è impossibile trovare contro di essa un argomento valido: e ho qui esposte le ragioni per le quali ho creduto di poter dimostrare che non lo è alcuno di quelli addotti dall'illustre autore di quella Storia.

Debole, ma sincero apologista d'una morale il di cui fine è l'amore; persuaso che nella benevolenza del fatuo, c'è qualcosa di più nobile e di più eccellente che nell'acutezza d'un gran pensatore; persuaso che il trovare nell'opinioni d'alcuno disparità dalle nostre deve avvertirci di ravvivare per lui i sentimenti di stima e d'affezione, appunto perchè la corrotta nostra inclinazione potrebbe ingiustamente strascinarci ai contrari; se non avrò osservati in quest'opericciola i più scrupolosi riguardi verso l'autore che prendo a confutare, sarà avvenuto certamente contro la mia intenzione. Spero però che non sarà avvenuto; e rifiuto anticipatamente ogni interpretazione meno gentile d'ogni mia parola.

Con tutto ciò, sento che a ogni lavoro di questa sorta s'attacca un non so che d'odioso, che è troppo difficile di levarne affatto. Prendere in mano il libro d'uno scrittore vivente e, a giusta ragione, stimato; ripetere alcune sue proposizioni, esaminarle punto per punto, trovare in tutto che dire, fargli per dir così, il dottore a ogni passo, è una cosa che, a lungo andare, è quasi impossibile che non lasci una certa impressione di presunzione, e di basso e insistente litigio. Per prevenire questa impressione, non dirò al lettore: vedete se non ho ragione ogni volta che prendo qui a contradire: so e sento che l'aver ragione non basta sempre a giustificare una critica, e soprattutto a nobilitarla. Ma dirò: considerate la natura dell'argomento. Non è questa una discussione speculativa; è una deliberazione: deve condurre, non a ricevere piuttosto alcune nozioni che alcune altre, ma a scegliere un partito; poichè, se la morale che la Chiesa insegna, portasse alla corruttela, converrebbe rigettarla. Questa è la conseguenza che gl'Italiani dovrebbero cavare da quel complesso di ragionamenti. Io credo che un tale effetto sarebbe per i miei connazionali la più grande sventura: quando si sente d'avere sopra una questione di questa sorte un parere ragionato, l'esporlo può essere un dovere: non ci sono doveri ignobili.

Il lettore troverà qualche volta che la confutazione abbraccia più cose che l'articolo confutato: in questo caso, lo prego d'osservare che non intendo d'attribuire all'illustre autore più di quello che abbia espressamente detto; ma ho creduto che l'unica maniera d'arrivare a un resultato utile, fosse di trattare la questione più in generale; e in vece di difendere in un articolo di morale la sola parte controversa, indagare la ragione del tutto; poichè è questo che importa di conoscere è questo che bisogna interamente ricevere o rifiutare. Ho tenuto tanto più volentieri questo metodo, perchè si veda meglio, che il mio scopo è di stabilire delle verità importanti e che la confutazione è tutta subordinata a questo.

Notare in un'opera di gran mole e di grand'importanza quello che si crede errore, e non far cenno dei pregi che ci si trovano, non sarà forse ingiustizia, ma mi pare almeno scortesia: è rappresentare una cosa che ha molti aspetti, da uno solo, e sfavorevole. Non dovendo citare la Storia delle Repubbliche Italiane se non per contradire a una parte di essa, prendo qui l'occasione d'attestare brevemente la mia stima per tant'altre parti d'un'opera, il più piccolo merito della quale sono le laboriose e esatte ricerche, che formano il principale di tant'altre di simil genere; d'un'opera originale sopra una materia già tanto trattata; e originale appunto perchè è trattata come dovrebbero essere tutte le storie, e come pochissime lo sono. Accade troppo spesso di leggere, presso i più lodati storici, descrizioni di lunghi periodi di tempi, e successioni di fatti vari e importanti, senza trovarci quasi altro che la mutazione che questi produssero negl'interessi e nella miserabile politica di pochi uomini: le nazioni erano quasi escluse dalla storia. L'intento di rappresentare, per quanto si può, in una storia lo stato dell'intera società di cui porta il nome, intento, si direbbe quasi, novo, è stato in questa applicato a una materia vasta e, pur troppo, complicatissima, ma d'una bella e felice proporzione: i fatti sono in essa vicini di tempo e di natura tanto da poterli con chiarezza e senza stento confrontare con le teorie che gli abbracciano tutti; e queste teorie sono assai estese, senza arrivare a quell'indeterminato, che mette bensì lo storico al coperto delle critiche particolari, perchè rende quasi impossibile il trovare gli errori, ma che lascia il lettore in dubbio se quella che gli è presentata sia un'osservazione vera e importante; o un'ipotesi ingegnosa. Senza ricevere tutte le opinioni dell'illustre autore, e rifiutando espressamente quelle che dissentono dalla fede e dalla morale cattolica, non si può non riconoscere quante parti della politica, della giurisprudenza, dell'economia e della letteratura siano state da lui osservate da un lato spesso novo e interessante, e, ciò che più importa, nobile e generoso; quante verità siano state da lui, per dir così, rimesse in possesso, ch'erano cadute sotto una specie di prescrizione, per l'indolenza o per la bassa connivenza d'altri storici, che discesero troppo spesso a giustificare l'ingiustizia potente, e adularono perfino i sepolcri. Egli ha voluto quasi sempre trasportare la stima pubblica dal bon successo alla giustizia: lo scopo è tanto bello, che è dovere d'ogn'uomo, per quanto poco possa valere il suo suffragio, di darglielo, per far numero, se non altro, in una causa che n'ha sempre avuto, e n'ha più che mai, gran bisogno.

Chi ha fatti studi seri e lunghi sulle Sacre Scritture, fonti inesauste di morale divina, e ha letti con attenzione i gran moralisti cattolici, e ha meditato, con riflessione spassionata, sopra di sè e sopra gli altri, troverà superficiali queste Osservazioni; e sono ben lontano dall'appellarmi dal suo giudizio. Le discussioni parziali possono bensì mettere in chiaro qualche punto staccato di verità; ma l'evidenza e la bellezza e la profondità della morale cattolica non si manifestano se non nell'opere, dove si considera in grande la legge divina e l'uomo per cui è fatta. Ivi l'intelletto passa di verità in verità: l'unità della rivelazione è tale che ogni piccola parte diventa una nova conferma del tutto, per la maravigliosa subordinazione che ci si scopre; le cose difficili si spiegano a vicenda, e da molti paradossi resulta un sistema evidente. Ciò che è, e ciò che dovrebb'essere; la miseria e la concupiscenza, e l'idea sempre viva di perfezione e d'ordine che troviamo ugualmente in noi; il bene e il male; le parole della sapienza divina, e i vani discorsi degli uomini; la gioia vigilante del giusto, i dolori e le consolazioni del pentito, e lo spavento o l'imperturbabilità del malvagio; i trionfi della giustizia, e quelli dell'iniquità; i disegni degli uomini condotti a termine tra mille ostacoli, o fatti andare a voto da un ostacolo impreveduto; la fede che aspetta la promessa, e che sente la vanità di ciò che passa, l'incredulità stessa; tutto si spiega col Vangelo, tutto conferma il Vangelo. La rivelazione d'un passato, di cui l'uomo porta in sè le triste testimonianze, senza averne da sè la tradizione e il segreto, e d'un avvenire, di cui ci restavano solo idee confuse di terrore e di desiderio, è quella che ci rende chiaro il presente che abbiamo sotto gli occhi; i misteri conciliano le contradizioni, e le cose visibili si intendono per la notizia delle cose invisibili. E più s'esamina questa religione, più si vede che è essa che ha rivelato l'uomo all'uomo, che essa suppone nel suo Fondatore la cognizione la più universale, la più intima, la più profetica d'ogni nostro sentimento. Rileggendo l'opere de'gran moralisti cattolici, e segnatamente i sermoni del Massillon e del Bourdaloue, i Pensieri del Pascal, e i Saggi del Nicole, io sento la piccolezza dell'osservazioni contenute in questo scritto; e sento che vantaggio dava ai due primi l'autorità del sacerdozio, e a tutti il modo generale di trattare la morale, un grand'ingegno, de'lunghi studi, e una vita sempre cristiana.

S'usa una strana ingiustizia con gli apologisti della religione cattolica. Si sarà prestato un orecchio favorevole a ciò che vien detto contro di essa; e quando questi si presentano per rispondere, si sentono dire che la loro causa non è abbastanza interessante, che il mondo ha altro a pensare, che il tempo delle discussioni teologiche è passato. La nostra causa non è interessante! Ah! noi abbiamo la prova del contrario nell'avidità con cui sono sempre state ricevute l'obiezioni che le sono state fatte. Non è interessante! e in tutte le questioni che toccano ciò che l'uomo ha di più serio e di più intimo, essa si presenta così naturalmente, che è più facile respingerla che dimenticarla. Non è interessante! e non c'è secolo in cui essa non abbia monumenti d'una venerazione profonda, d'un amore prodigioso, e d'un odio ardente e infaticabile. Non è interessante! e il voto che lascerebbe nel mondo il levarnela, è tanto immenso e orribile, che i più di quelli che non la vogliono per loro, dicono che conviene lasciarla al popolo, cioè ai nove decimi del genere umano. La nostra causa non è interessante! e si tratta di decidere se una morale professata da milioni d'uomini, e proposta a tutti gli uomini, deva essere abbandonata, o conosciuta meglio, e seguita più e più fedelmente.

Si crede da molti che questa noncuranza sia il frutto d'una lunga discussione, e d'una civilizzazione avanzata; che sia per la religione l'ultimo e più terribile nemico, venuto, nella pienezza de'tempi, a compire la sua sconfitta, e a godere del trionfo preparato da tante battaglie; e in vece questo nemico è il primo ch'essa incontrò nella sua meravigliosa carriera.

Al suo apparire, fu accolta dagli scherni del mondo; si principiò dal crederla indegna d'esame. Gli apostoli, nell'estasi tranquilla dello Spirito, rivelano quelle verità che diverranno la meditazione, la consolazione e la luce de'più alti intelletti, gettano i fondamenti d'una civilizzazione che diventerà europea, che diventerà universale; e sono chiamati ubbriachi. (1) San Paolo fa sentire nell'Areopago le parole di quella sapienza, che ha rese tanto superiori le donnicciole cristiane ai saggi del gentilesimo; e i saggi gli rispondono che lo sentiranno un'altra volta. (2) Credevano d'avere per allora cose più importanti da meditare, che Dio e l'uomo, il peccato e la redenzione. Se questo antico nemico sussiste tuttora, è perchè non fu promesso alla Chiesa che distruggerebbe tutti i suoi nemici, ma che non sarebbe distrutta da alcuno.

Parlare di dommi, di riti, di sacramenti, per combattere la fede, si chiama filosofia; parlarne per difenderla, si chiama entrare in teologia, voler fare l'ascetico, il predicatore; si pretende che la discussione prenda allora un carattere meschino e pedantesco. Eppure non si può difendere la religione, senza discutere le questioni poste da chi l'accusa, senza mostrare l'importanza e la ragionevolezza di ciò che forma la sua essenza. Volendo parlare di cristianesimo, bisogna pur risolversi a non lasciar da parte i dommi, i riti, i sacramenti. Che dico? perchè ci vergogneremo di confessare quelle cose in cui è riposta la nostra speranza? perchè non renderemo testimonianza, nel tempo d'una gioventù che passa, e d'un vigore che ci abbandona, a ciò che invocheremo nel momento della separazione e del terrore?

Ma ecco che, senza avvedermene, entravo a difender me stesso contro delle censure avvenire, e che forse non verranno. Cadrei in un orgoglio ridicolo, se cercassi di trasportare a quest'opericciola l'interesse che si deve alla causa per cui è intrapresa.

Spero d'averla scritta con rette intenzioni, e la pubblico con la tranquillità di chi è persuaso che l'uomo può aver qualche volta il dovere di parlare per la verità, ma non mai quello di farla trionfare.


AVVERTENZA

Si riportano nel testo originale tanto, i passi della Storia delle Repubbliche Italiane al cap. CXXVII, vol. XVI, ai quali si riferiscono l'osservazioni, quanto l'altre citazioni francesi; non avendo oramai questa lingua più bisogno di traduzione in Italia. I passi delle Scritture, o d'opere latine si citano tradotti, mettendo i testi a piè di pagina.




CAPITOLO I

SULLA UNITÀ DI FEDE

L'unité de foi, qui ne peut résulter que d'un asservissement absolu de la raison à la croyance, et qui en conséquence ne se trouve dans aucune autre religion au même degré que dans la catholique, lie bien tous les membres de cette Église à recevoir les mêmes dogmes, à se soumettre aux mêmes décisions, à se former par les mêmes enseignemens.

Hist. des Répub. It., t. XVI, Pag. 410.

Che l'unità della fede si trovi nel più alto grado, o piuttosto assolutamente, nella Chiesa cattolica, è questo un carattere evangelico di cui essa si vanta; poichè non ha inventata quest'unità, ma l'ha ricevuta; e, tralasciando tanti luoghi delle Scritture dov'essa è insegnata, ne riporterò due, in cui si trova non solo la cosa, ma la parola. San Paolo nell'Epistola agli Efesi, dice espressamente: Una è la fede; (3) e dopo avere enumerati vari doni e ufizi che sono nella Chiesa, stabilisce per fine di essi l'unità della fede, e della cognizione del Figliuolo di Dio. (4)

L'illustre autore non adduce gli argomenti per cui l'unità della fede non deva poter resultare che dalla schiavitù assoluta della ragione alla credenza. Se la cosa fosse così, non si potrebbero conciliare i passi citati dianzi, con quell'altre parole del medesimo apostolo: il razionale vostro culto. (5) Ma non solo si conciliano; si spiegano anzi, e si confermano a vicenda.

Certo, la fede include la sommissione della ragione: questa sommissione è voluta dalla ragione stessa, la quale riconoscendo incontrastabili certi princìpi, è posta nell'alternativa, o di credere alcune conseguenze necessarie, che non comprende, o di rinunziare ai princìpi. Avendo riconosciuto che la Religione Cristiana è rivelata da Dio, non può più mettere in dubbio alcuna parte della rivelazione; il dubbio sarebbe non solo irreligioso, ma assurdo. Supponendo, per un momento, che l'unità della fede non fosse espressa nelle Scritture, la ragione che ha ricevuta la fede deve adottarne l'unità: non ha più bisogno per questo di sottomettersi alla credenza; ci deve arrivare per una necessità logica.

La fede sta nell'assentimento dato alle cose rivelate, come rivelate da Dio. Suppongo che l'autore scrivendo questa parola fede,le ha applicata quest'idea, perchè è impossibile applicargliene un'altra. Ora, repugna alla ragione che Dio riveli cose contrarie tra di loro; se la verità è una, la fede dev'esserlo ugualmente, perchè sia fondata sulla verità. La connessione di quest'idee è chiaramente accennata nel testo già citato in parte: Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Dall'unità di Dio resulta necessariamente l'unità della fede, e da questa l'unità del culto essenziale. Bacone mostrò di tenere questa per una verità fondamentale, dove disse: Tra gli attributi del vero Dio si pone che è un Dio geloso onde il suo culto non soffre nè mescolanza, nè compagnia. (6)

L'idee di fede e di pluralità sono così contradittorie, che il linguaggio stesso pare che repugni a significare la loro unione; poichè si dirà bene le diverse religioni, opinioni, credenze religiose, ma non già le diverse fedi. Per religione s'intende un corpo di tradizioni, di precetti, di riti; e si vede assai bene come ce ne possa essere più d'una. Così nelle opinioni si considera piuttosto la persuasione di chi crede, che la verità delle cose credute. Ma per fede s'intende persuasione fondata sulla rivelazione divina; e benchè popoli di vario culto credano che l'opinione loro abbia questo fondamento, il linguaggio ricusa l'espressione che significherebbe la coesistenza di rivelazioni diverse, perchè la ragione la riconosce impossibile. Molti di diversa religione possono credere di posseder la fede; ma un uomo non può ammettere che questi molti la possiedano. Se questa fosse una sofisticheria grammaticale, vaglia per tale, bastando l'argomento semplicissimo col quale s'è provato che l'unità della fede non suppone altro assoggettamento della ragione, che alle leggi del raziocinio.

Non voglio certamente dire con ciò, che la fede stessa consista in una semplice persuasione della mente: essa è anche un'adesione dell'animo; e perciò dalla Chiesa è chiamata virtù. Questa qualità le è contrastata dal Voltaire, (7) in un breve dialogo dove la bassa e iraconda scurrilità del titolo stesso indica tutt'altro che quella tranquillità d'animo con cui si devono pure esaminare le questioni filosofiche. Un honnéte homme sostiene, contro un excrément de théologie che la fede non è punto una virtù, con questo argomento: Est-ce vertu de croire? ou ce que tu crois te semble vrai, et en ce cas il n'y a nul mérite à le croire; ou il te semble faux, et alors il est impossible que tu le croyes.

È difficile d'osservare più superficialmente di quello che abbia qui fatto il Voltaire. Per escludere dalla fede ogni cooperazione della volontà, egli non considera nel credere se non l'operazione della mente, che riconosce vera o non vera una cosa; riguarda quest'operazione come necessitata dalle prove, non ammettendo altro a determinarla, che le prove stesse; considera insomma la mente come un istrumento, per così dire, passivo, su di cui le probabilità operano la persuasione o la non credenza come se la Chiesa dicesse che la fede è una virtù dell'intelletto. È una virtù nell'uomo; e per vedere come sia tale, bisogna osservare la parte che hanno tutte le facoltà dell'uomo nel riceverla o nel rigettarla. Il Voltaire lascia fuori due elementi importantissimi: l'atto della volontà, che determina la mente all'esame, e la disposizione del core, che influisce tanto nell'ammettere o nel rigettare i motivi di credibilità, e quindi nel credere. In quanto al primo, le verità della fede sono in tante parti così opposte all'orgoglio e agli appetiti sensuali, che l'animo sente un certo timore e una certa avversione per esse, e cerca di distrarsene; tende insomma ad allontanarsi da quelle ricerche che lo condurrebbero a scoperte che non desidera. Ognuno può riconoscere in sè questa disposizione, riflettendo all'estrema attività della mente nell'andare in cerca d'oggetti diversi, per occupare l'attenzione, quando un'idea tormentosa se ne sia impadronita. La volontà di metter l'animo in uno stato piacevole influisce su queste operazioni in una maniera così manifesta, che quando ci si presenta un'idea che riconosciamo importante, ma sulla quale non ci piace di fermarci, ci accade spesso di dire a noi stessi: non ci voglio pensare; e lo diciamo, quantunque convinti che questo non pensarci ci potrà cagionar de' guai nell'avvenire; tanto è allora in noi il desiderio di schivare un sentimento penoso nel momento presente. Questa mi pare una delle ragioni della voga che hanno avuta, e hanno in parte ancora, gli scritti che combattono la religione col ridicolo. Secondano una disposizione comune degli uomini, associando a idee gravi e importune una serie d'idee opposte e svaganti. Posta quest'inclinazione dell'animo, la volontà esercita un atto difficile di virtù, applicandolo all'esame delle verità religiose; e il solo determinarsi a un tale esame suppone non solo un'impressione ricevuta di probabilità, ma un timore santo de' giudizi divini, e un amore di quelle verità, il quale superi o combatta almeno l'inclinazioni terrestri.

Che poi l'amore o l'avversione alle cose proposte da credersi influisca potentemente sulla maniera d'esaminarle, sull'ammetterne o sul rigettarne le prove, è una verità attestata dall'esperienza più comune. Si sparga una notizia in una città che abbia la disgrazia d'esser divisa in partiti; essa è creduta da alcuni, discreduta da altri, a norma degl'interessi e delle passioni. Il timore opera, al pari del desiderio, sulla credenza, portando talvolta a negar fede alle cose minacciate, e talvolta a prestargliene più di quello che si meritino; la qual cosa avviene spesso quando si presenti un mezzo di sfuggirle. (8) Quindi sono così comuni quell'espressioni: esaminare di bona fede, giudicare senza prevenzione, spassionatamente, non farsi illusione, e altre simili, le quali significano la libertà del giudizio dalle passioni. La forza d'animo, che mantiene questa libertà, è senza dubbio una disposizione virtuosa: essa nasce da un amore della verità, independente dal piacere, o dal dispiacere che ne può venire al senso. Si vede quindi quanto sapientemente alla fede sia dato il nome di virtù. Siccome poi la mente umana non sarebbe arrivata da sè a scoprire molte verità della religione, se Dio non le avesse rivelate; e siccome la nostra volontà corrotta non ha da sè quella forza di cui s'è parlato; così la fede è chiamata dalla Chiesa e una virtù e un dono di Dio.

Tornando da questa lunga digressione al passo che stiamo esaminando, confesso di non intendere chiaramente il senso di quella proposizione che l'unità di fede non si trova in alcun'altra religione allo stesso grado che nella cattolica. Come ci possono essere diversi gradi nell'unità di fede, il più e il meno in un'unità qualunque? O quest'altre religioni propongono come vera la loro fede, e devono insegnare che è vera essa sola; o ammettono che qualche altra lo possa essere; e come possono chiamar fede la loro, che in fatto è un vero dubbio? Ogni volta che una di queste religioni s'avvicina al principio dell'unità, cioè quando esclude ogni dottrina opposta alla sua, ciò accade perchè in quella religione si sente allora vivamente che è assurdo il dir vera una proposizione, e non rigettare ciò che la contradice. E ogni volta che s'allontana da quel principio, ciò accade perchè, non sentendosi certi della propria fede, s'accorda agli altri ciò che si chiede per sè, la facoltà di chiamar fede ciò che non importa la condizione del credere. È la transazione della falsa madre del giudizio di Salomone: Non sia nè tuo, nè mio; ma si divida. (9) Ma non ci sono mezze fedi vere, più di quello che ci siano mezzi bambini vivi.

Infatti, nè l'illustre autore indica quale sia il grado dell'unità di fede, fino al quale la ragione deva arrivare; nè è possibile l'indicarlo, giacchè l'assunto sarebbe contradittorio. Dire che la ragione deva assoggettarsi alla fede, ma in un certo grado, qualunque sia, è dichiarare la fede infallibile insieme, e bugiarda. Infallibile, in quanto, per sé, e come fede, può legittimamente richiedere un assoggettamento qualunque della ragione: bugiarda, in quanto, richiedendo un assoggettamento che la ragione può legittimamente limitare, ridurre a un certo grado, e fargli, dirò così, la tara, afferma più di quello che gli si deva credere.

Il non essere la Chiesa cattolica soggetta alle fluttuazioni accennate sopra; il trovarsi in essa, non un maggiore o minor grado d'unità di fede, ma l'unità della fede; questo dirsi e poter essere immutabile, è un carattere doppiamente essenziale della verità de' suoi insegnamenti. È la condizione necessaria della ragione, come della fede; due doni d'un solo e stesso Dio; la distinzione e la concordia de' quali è divinamente espressa nelle parole già citate dell'Apostolo: il razionale vostro culto.




CAPITOLO II

SULLA DIVERSA INFLUENZA DELLA RELIGIONE CATTOLICA, SECONDO I LUOGHI E I TEMPI

Toutefois l'influence de la religion catholique n'est point la même en tout tems et en tout lieu; elle a opéré fort différemment en Françe et en Allemagne de ce quelle a fait en Italie et en Espagne.... Les observations que nous serons appelés à faire sur la religion de l'Italie ou de l'Espagne pendant les trois derniers siécles, ne doivent point s'appliquer à toute l'Église catholique... Pag. 410.

Per dilucidare questo punto, il quale, come si vedrà, non è qui d'una importanza meramente storica, è necessario rammentare il disegno del cap. CXXVII, del quale osserviamo una parte. Esso è espresso nell'intitolazione del capitolo medesimo: Quelles sont les causes qui ont changé le caractère des Italiens, depuis l'asservissement de leur républiques. E se ne assegnano quattro: la prima, e la sola di cui mi propongo di ragionare, è la religione. L'autore, entrando a spiegare la parte che questa ebbe, secondo lui, nel produrre un tal cambiamento, si fa un'obiezione dell'unità della fede; poichè, vincolando essa, come dice benissimo, tutti i membri della religione cattolica a ricevere gli stessi dommi, a sottomettersi alle stesse decisioni, a formarsi con gli stessi insegnamenti, pare che questa religione deva essere piuttosto una cagione d'uniformità tra i vari popoli che la professano, che di differenze. Ciò non ostante, soggiunge, l'influenza della religione cattolica non è la stessa in ogni tempo e in ogni luogo; essa ha operato diversamente in Francia e in Germania, che in Italia e in Spagna.

Per indurre una diversità d'influenza, non ostante l'unità della fede mantenuta da tutti i cattolici, io credo che non si possano trovare cagioni che di tre sorte.

I. Leggi o consuetudini disciplinari, le quali non sono parte della fede.

II. Alterazioni insensibili e parziali della dottrina, o inesecuzioni e violazioni della disciplina essenziale e universale, le quali, lasciando intatto in teoria il principio dell'unità, possono portare una nazione o una frazione di essa, per lungo tempo o per intervalli, con maliziosa cognizione di causa o ignorantemente, a operare e parlare in fatto, come se avesse rinunziato all'unità.

III. Circostanze particolari di storia, di coltura, d'interessi, di clima, non legate direttamente con la religione, ma così legate con gli uomini che la professano, che l'influenza della religione resta da esse o bilanciata o elisa o impedita o facilitata, più presso gli uni che presso gli altri.

Se l'illustre autore avesse cercate in queste tre classi le cause particolari degli effetti diversi e speciali, che asserisce aver la religione prodotti in Italia, io mi sarei guardato bene d'entrare in una tale questione; perchè, o le sue ragioni mi sarebbero parse concludenti, e avrei goduto d'imparare, come m'è accaduto in tant'altre parti di questa Storia; o non m'avrebbero persuaso, e sarebbe stato uno di que' casi ne' quali avrei creduto che il silenzio fosse migliore della dimostrazione. Ma siccome quelle cose che s'assegnano da lui come cagioni di dannosa influenza sugl'Italiani, sono la più parte, non usi nè opinioni particolari a loro, ma massime morali, o prescrizioni ecclesiastiche venerate e tenute da tutti i cattolici, in Francia e in Germania non meno che in Italia e in Spagna; così chi le condannasse verrebbe a condannare la fede cattolica: conseguenza che troppo importa di prevenire.

L'autore stesso, nominando a varie riprese, nel corso delle sue riflessioni, semplicemente la Chiesa, lascia dubitare se intenda d'attribuire ad essa le dottrine che censura, o se voglia dire: la Chiesa in Italia. Verificare il preciso senso delle sue parole in questo caso, non è cosa possibile, nè utile; onde io mi restringerò a dimostrare l'universalità e la ragionevolezza di quelle massime e di quelle prescrizioni censurate da lui, che sono cattoliche.

Citerò spesso scrittori francesi, non solo per la loro decisa superiorità in queste materie, ma perchè la loro autorità serve mirabilmente a far vedere che queste non sono dottrine particolari all'Italia; e che la Francia non differisce da essa in ciò, fuor che nell'avere avuto uomini che le hanno più eloquentemente, cioè più ragionatamente, sostenute e difese.

La più splendida prova poi dell'universalità di queste massime morali sarà tratta dalle Scritture, dove sono per lo più letteralmente; dimanierachè si può affermar francamente, che non sono, nè possono essere controverse da de' cattolici di nessuna nazione.

Le prescrizioni della Chiesa riguardanti la morale si possono dividere in due classi, cioè:

Decisioni di punti di morale, con le quali la Chiesa attesta che la morale confidatale da Cristo è quella, e non un'altra che si voglia fare adottare decisioni, alle quali i fedeli hanno obbligo d'aderire; ovvero:

Leggi per regolare, nelle parti essenziali, l'uso dell'autorità conferita ugualmente alla Chiesa dal suo Fondatore, d'applicare gli aiuti e i rimedi spirituali, che hanno tutti origine da Lui.

Per l'une e per l'altre si può chiamare in testimonio qualunque cattolico di Francia e di Germania, con la certezza di sentirlo rispondere che sono in vigore sia nell'una, sia nell'altra nazione. Si citerà, dove occorra, il Concilio di Trento, come il più recente e il più parlante testimonio di questa uniformità di dottrina: uniformità legata, dommaticamente e logicamente, come dev'essere, con la perpetuità di essa.

Le Concile de Trente, dice l'illustre autore, travailla avec autant d'ardeur, à réformer la discipline de l'Église qu'à empécher toute réforme dans ses croyances et ses enseignemens. (10) Nessun cattolico potrà esprimere con più precisione e con più forza la fermezza de' Padri di quel concilio nel rigettare ogni riforma nella fede. Cosa (giova ripeterlo) contradittoria, e quindi impossibile, non meno che empia; poichè equivale a rinnegare la stessa identica autorità di cui si fa uso; equivale a dire credete a me, che non credo a me: v'insegno una verità, riservandomi ad avvertirvi, a miglior tempo, che è un errore, come fo, in questo momento, con quella che v'ho data altre volte per verità.

Ora, a Trento sedettero vescovi di quelle quattro nazioni; e come c'erano andati con la testimonianza delle loro chiese sui punti controversi di fede e di morale, ne partirono con la testimonianza della Chiesa universale. D'allora in poi il concilio di Trento fu specialmente il punto a cui ricorsero tutti i cattolici; e, per provare la fede di tutti i secoli, consegnata e sparsa in tanti concili, non ebbero, in moltissime questioni, a far altro che citare quel concilio che l'aveva riprodotta, e per così dire riepilogata. Il gran Bossuet lo pose per fondamento alla sua Esposizione della fede cattolica, per attestare i punti di morale e di disciplina essenziale, alcuni dei quali, censurati nel Capitolo sul quale sono fatte le presenti osservazioni, lo erano pure a suoi tempi, benchè con argomenti affatto diversi.

E nella sua corrispondenza col Leibnitz, lo stesso Bossuet rigetta sempre come non ammissibile la proposizione di riesaminare le decisioni del concilio di Trento. Je voudrois bien seulement vous supplier de me dire.... si vous pouvez douter que les décrets du Concile de Trente soient autant reçus en France et en Allemagne parmi les catholiques, qu'en Espagne et en Italie, en ce qui regarde la Foi; et si vous avez jamais ouï un seul catholique, qui se crût libre à recevoir, ou à ne pas recevoir la Foi de ce Concile. (11) Ora, i decreti del Concilio di Trento riguardanti la morale, che saranno citati in queste osservazioni, sono sopra punti che, per consenso di tutti i cattolici, fanno parte della fede.

In quanto agli abusi e agli errori popolari, importa d'accennare, una volta per sempre, che non sono imputabili alla Chiesa, la quale non gli ha nè sanciti, nè approvati. Ho fiducia di provare, che non sono conseguenze legittime nè del domma nè della morale della Chiesa. Se alcuni le hanno dedotte da essa, la Chiesa non può prevenire tutti i paralogismi, nè distruggere la logica delle passioni. Quando però mi parrà che questi mali siano minori in realtà che in pittura, io non lascerò di farlo osservare; ma solamente per la giustificazione della Chiesa, sulla quale se ne vuol far ricadere il biasimo. Se alcuno vorrà credere che questi inconvenienti siano particolari all'Italia, io non m'affaticherò per levargli una tale opinione. S'avverta però che le citazioni degli scrittori francesi verranno in molte parti a provare incidentemente il fatto contrario; poichè si vedrà che, nello stabilire le verità cattoliche, hanno combattuti quegli errori e quelle illusioni, come esistenti in Francia. Così non fosse! perchè può mai per un cristiano diventare una consolazione dell'orgoglio nazionale il vedere la Chiesa meno bella in qualunque parte del mondo?

Dovunque sono i fedeli retti, illuminati, irreprensibili, sono la nostra gloria: dobbiamo farne i nostri esemplari, se non vogliamo che siano un giorno la nostra condanna.




CAPITOLO III

SULLA DISTINZIONE DI FILOSOFIA MORALE E DI TEOLOGIA

Il y à sans doute une liaison intime entre la religion et la morale, et tout honnéte homme doit reconnoître que le plus noble hommage que la créature puisse rendre à son Créateur, c'est de s'élever à lui par ses vertus. Cependant la philosophie morale est une science absolument distincte de la théologie; elle a ses bases dans la raison et dans la conscience, elle porte avec elle sa propre conviction; et après avoir développé l'esprit par la recherche de ses principes, elle satisfait le coeur par la découverte de ce qui est vraiment beau, juste et convenable. L'Église s'empara de la morale, comme étant purement de son domaine... Pag. 413.

Quando Gesù Cristo disse agli Apostoli: Istruite tutte le genti... insegnando loro d'osservare tutto quello che v'ho comandato, (12) ingiunse espressamente alla Chiesa d'impadronirsi della morale.

Certo gli uomini hanno, indipendentemente dalla religione, dell'idee intorno al giusto e all'ingiusto, le quali costituiscono una scienza morale. Ma questa scienza è completa? È cosa ragionevole il contentarsene? L'essere distinta dalla teologia è una condizione della morale, o un'imperfezione di essa? Ecco la questione: enunciarla è lo stesso che scioglierla. Perchè, finalmente, è appunto questa scienza imperfetta, varia, in tante parti oscura, mancante di cognizioni importantissime intorno a Dio e, per conseguenza, intorno all'uomo e all'estensione della legge morale; intorno alla cagione della repugnanza che l'uomo prova troppo spesso nell'osservare anche la parte di essa, che pur conosce e riconosce; intorno agli aiuti che gli sono necessari per adempirla interamente; è questa scienza, che Gesù Cristo pretese di riformare, quando prescrisse l'azioni e i motivi, quando regolò i sentimenti, le parole e i desidèri; quando ridusse ogni amore e ogni odio a de' princìpi che dichiarò eterni, infallibili, unici e universali. Egli unì allora la filosofia morale alla teologia; toccava alla Chiesa a separarle?

Di che tratta la filosofia morale? Del dovere in genere e de' vari doveri in particolare; della virtù e del vizio; della relazione dell'una e dell'altro con la felicità o l'infelicità; vuole insomma dirigere la nostra volontà e negl'intenti e, conseguentemente, nelle deliberazioni. E la morale teologica ha forse un altro scopo? può averlo? Se dunque hanno per oggetto lo stesso ordine di verità, per applicarle, nella pratica, allo stesso ordine di fatti, come saranno due scienze diverse? Non è egli vero che dove discordano, una dev'essere falsa? e che dove dicono lo stesso, sono una scienza sola? È evidente che non si può prescindere dal Vangelo nelle questioni morali: bisogna o rigettarlo, o metterlo per fondamento. Non possiamo fare un passo, che non ci si pari davanti: si può far le viste di non accorgersene, si può schivarlo senza urtarlo di fronte; non essere con lui, senza essere contro di lui; si può, dico, in parole, ma non in fatto.

Io so che questa distinzione o, per parlare più esattamente, quest'antitesi di filosofia morale e di teologia è ricevuta comunemente; che con essa si sciolgono tante difficoltà, e si conciliano tanti dispareri; ma senza cercare se essa medesima si concilii con la logica. So anche che altri uomini distinti l'hanno adottata, anzi ci hanno fondata sopra una parte de' loro sistemi. Ne prenderò un esempio da un uomo e da un libro tutt'altro che volgari: Comme dans cet ouvrage je ne suis point théologien, mais écrivain politique, il pourroit y avoir des choses qui ne seroient entièrement vraies que dans une façon de penser humaine, n'ayant point été considerées dans le rapport avec des vérités plus sublimes. (13) Ma per essere del Montesquieu, questa frase non è meno priva di senso. Poichè, se queste cose saranno interamente vere in un modo di pensare umano, saranno vere in qualunque modo di pensare. Questa contradizione che si suppone possibile con delle verità più sublimi, o non esisterà, o, se esiste, farà che quelle cose non siano interamente vere. Se hanno una relazione con delle verità più sublimi, questa relazione è la prima cosa da esaminarsi; poichè qual è il criterio della verità che si cerca, se non la verità nota? O forse che le verità perdono la loro attitudine e il loro diritto, quando sono sublimi? Il sofisma sul quale è fondata questa protesta, come tant'altre simili, era già stato svelato, mezzo secolo prima, da un osservatore profondo e sottile del cuore umano, il Nicole. Esaminando il valore di quelle parole tanto frequentemente usate: umanamente parlando, egli dice: Il semble, à nous entendre parler, qu'il y ait comme trois classes de sentimens, les uns justes, les autres injustes, et les autres humains; et trois classes de jugemens, les uns vrais, les autres faux, et les autres humains... Cependant il n'en est pas ainsi. Tout jugement est ou vrai ou faux, tout sentiment est ou juste ou injuste; et il faut nécessairement que ceux que nous appellons jugemens et sentimens humains se réduisent à l'une ou à l'autre de ces classes. (14) Il Nicole ha poi egregiamente messo in chiaro il motivo per cui si ragiona in quella strana maniera. Si dice che una massima è umanamente vera, perchè non si può, come si vorrebbe, chiamarla vera semplicemente. Non le si attribuisce che una verità relativa; ma per dedurne delle conseguenze che non convengono se non alla verità assoluta. Quest'espressione significa dunque: io sento che la massima di cui ho bisogno, è opposta alla religione: contradire alla religione, non voglio; abbandonare la massima, nemmeno: non potendo farle concordare logicamente, mi servo d'un termine che lascia intatta la questione in astratto, per scioglierla in fatto secondo i miei desidèri. Perchè non si dice mai: secondo il sistema tolemaico, secondo la chimica antica? Perchè in queste cose nessuno si crea il bisogno d'ingannar sè medesimo.

Ma, senza arrogarsi di fare un giudizio sopra Montesquieu, si può credere che l'uso di queste espressioni, comune, in quel tempo, a tanti scrittori, non sia venuto da un errore d'intelletto.

La religione cattolica era allora in Francia sostenuta dalla forza. Ora per una legge, che durerà quanto il mondo lontana, la forza fa nascere l'astuzia per combatterla; (15) e quegli scrittori che desideravano abbattere la religione senza compromettersi, non dicevano che fosse falsa, ma cercavano di stabilire de' princìpi incompatibili con essa, e sostenevano che questi princìpi ne erano indipendenti. Non s'arrischiando di demolire pubblicamente l'edifizio del Cristianesimo, gl'innalzavano accanto un altro edifizio, che, secondo loro, doveva farlo cadere. (16)

Ma questa filosofia morale ha le sue basi nella ragione e nella coscienza; porta con sè il suo proprio convincimento; e dopo avere sviluppato lo spirito con la ricerca de' princìpi, appaga il core con la scoperta di ciò che è veramente bello, giusto e conveniente.

E cos'ha fondato, da sè, su queste basi? Ha prodotto un convincimento unanime e perpetuo? La sua ricerca de' princìpi è riuscita a un solo e inconcusso ritrovato? Le sue scoperte del bello, del giusto e del conveniente sono anch'esse concordi? E appagano il core davvero? Se è così, può essere distinta dalla teologia: non ne ha più bisogno; o, per dir meglio, sarà la teologia stessa.

Ma se ha variato e varia secondo i luoghi e i tempi, non si potrà opporla alla morale cattolica, che è una. Sarà lecito domandare, prima di tutto, quale sia questa filosofia morale, di cui s'intende parlare; giacchè è indubitato che ce ne sono molte.

Ci sono due cose principali nella morale, il principio, e le regole delle azioni, che ne sono l'applicazione: la storia della morale, sia come dottrina popolare, sia come scienza, presenta, e nell'uno e nell'altre, la più mostruosa varietà.

In quanto alle regole basta, per convincersene, rammentarsi gli assurdi sistemi di morale pratica che sono stati tenuti da nazioni intere. Il Locke, volendo provare che non ci sono regole di morale innate, e impresse naturalmente nell'anima degli uomini, ne ha citati esempi in gran quantità. (17) Egli è andato a cercarne la maggior parte tra i popoli rozzi e vicini allo stato selvaggio; ma non gliene sarebbe mancati tra le nazioni più conosciute, e che hanno più fama di civili e illuminate. Trovavano essi nel loro core e nella loro mente la vera misura del giusto e dell'ingiusto i gentili? Que' Romani i quali sentivano con raccapriccio che un loro cittadino fosse stato battuto di verghe, e ai quali pareva un atto di giustizia ordinaria il dar vivo alle fiere uno schiavo, fuggito per non poter resistere ai trattamenti d'un padrone crudele? Di tale iniquità di fatti e di giudizi, gli storici e i moralisti antichi ci hanno trasmesse non poche testimonianze, e, per lo più, senza avvedersene. (18) Quale è dunque questo convincimento morale, se non nasce in tutti gli uomini? Potrà purtroppo essere tanto compito, da determinare un uomo a commettere un'azione pessima, con la persuasione d'operar bene; tanto costante, da impedire che nasca in lui il rimorso dopo averla commessa; si potrà estendere a nazioni intere; ma sarà un convincimento falso. E per chiarirlo tale, non sarà nemmeno necessario il testimonio della religione; basterà che cessino alcune circostanze, che si cambi un interesse, che s'abolisca una costumanza.

In quanto al principio della morale, le differenze non sono più tra i Mingreliani, i Peruviani e i Topinambi: è questione di tempi e di paesi colti, e di pochi uomini che pretendono di fare astrazione da ogni interesse, da ogni autorità, e da ogni abitudine per trovare il vero. Pochi, dico, riguardo al rimanente degli uomini; ma autori di scole che si possono chiamar molte, anche in paragone di ciò che accade in tant'altre scienze, nelle quali il dissenso non è, a gran pezzo, nè così umiliante, nè così dannoso. I nomi soli delle più universalmente celebri tra quelle scole, nomi che corrono alla mente d'ognuno, senza bisogno di citarli, bastano per dare un concetto pur troppo vasto d'una tale varietà, e dispensare da ogni prova. E s'osservi che non sono di quelle discussioni che hanno, per dir così, un moto progressivo, facendo ognuna delle parti un qualche passo verso un centro comune, e tornando così in aumento stabile della scienza ciò che, da principio, era stato opinione particolare d'una scola. Qui in vece i diversi sistemi cadono e risorgono, conservando sempre le loro differenze essenziali; si disputa, ripetendo ognuno sempre i suoi argomenti come perentori, e ripetendoli per quanto si sia dovuto vedere che non riescono ad abbattere quelli degli avversari: è il gran carattere delle questioni inconciliabili. (19)

Ora, se ciò che l'illustre autore ha nominalmente riunito sotto il titolo di filosofia morale, si risolve in fatto e si disperde in una moltiplicità eterogenea; se delle premesse diverse e opposte, e delle diverse e opposte conclusioni, intorno al bello, al giusto, al conveniente, sono tutt'altro che la scoperta di ciò che è veramente bello, giusto e conveniente; è superfluo l'aggiungere che da quelle non potrà mai resultare l'appagamento del core, asserito da lui come effetto d'una tale scoperta, e neppure, s'intende; quello della mente. Gioverà piuttosto l'osservare come il non essere alcuni di que' tanti sistemi rimasto mai vittorioso, in una guerra così antica, e sempre viva o rinascente, venga dall'essere tutti ugualmente inetti a produrre quel duplice e corrispondente appagamento.

Ci sono in qualunque sistema di morale assolutamente distinta dalla teologia (sia per ignoranza involontaria della rivelazione, sia per volontaria esclusione di essa), due vizi innati e irremediabili: mancanza di bellezza, ossia di perfezione, e mancanza di motivi. Perchè una morale sia compita, deve riunire queste due condizioni al massimo grado; deve cioè non escludere, anzi proporre i sentimenti e l'azioni più belle, e dare dei motivi per preferirle. Ora, nessuno di questi sistemi può farlo: ognuno di essi è, per dir così, obbligato a scegliere; e tutto ciò che acquista da una parte, lo perde dall'altra. Se, per evitare la difficoltà, si ricorre a un sistema medio, questo tempererà i due difetti, ma conservando e l'uno e l'altro. Mi sia lecito d'entrare in un esame più esteso, per mettere in chiaro questa proposizione.

Quanto più un sistema di filosofia morale cerca d'adattarsi al sentimento universale, consacrando alcune massime che gli uomini hanno sempre lodate e ammirate, la preferenza data alle cose giuste sulle piacevoli, il sacrifizio di sè stesso, il dovere adempito e il bene fatto senza speranza di ricompensa nè di gloria, tanto più riesce inabile a dare, de' suoi precetti e de' suoi consigli, una ragione adequata, prevalente a ogni argomento e a ogni interesse contrario. Infatti, se noi esaminiamo quale sia  in una bella azione la qualità che eccita l'ammirazione, e che le fa dare un tal titolo, vedremo non esser altro che la difficoltà (intendo, non la difficoltà d'eseguire che nasce dagli ostacoli esterni, ma quella di determinarsi): la giustizia, l'utilità saranno condizioni senza le quali essa non sarebbe bella, ma non sono quelle che la rendono tale. Se, mentre si sta ammirando la risoluzione presa da un uomo in una data circostanza, si viene a sapere che gli tornava conto di prenderla, l'ammirazione cessa; quella risoluzione si chiamerà bona, utile, giusta, saggia, ma non più ammirabile nè bella; si dirà che quell'uomo è stato fortunato, onesto, avveduto: nessuno lo chiamerà grande. E perciò l'invidia, la quale, quanto è sciocca riguardo all'intento, altrettanto è acuta nella scelta de' mezzi, mette tanto studio a trovar qualche motivo d'interesse in ogni bella azione, che non possa negare; cioè un motivo per cui sia stato facile il risolversi a farla: le cose facili non sono ammirate. Ma perchè mai le più belle azioni compariscono difficili al più degli uomini, se non perchè essi non trovano nella ragione de' motivi sufficienti per intraprenderle risolutamente, anzi trovano nell'amore di sè de' motivi contrari?

Ma se, per evitare l'inconveniente e la vergogna di dar precetti e consigli, senza poter proporre de' motivi proporzionati, un sistema di morale vuol limitarsi a prescrivere e a raccomandare l'azioni che s'accordino con l'utile temporale di chi le fa, non solo non soddisfa, ma offende un'altra tendenza di tutti gli uomini, i quali non vogliono rinunziare alla stima di ciò che è bello senza essere utile temporalmente; anzi è bello appunto per questo. Io so che, nel sistema della morale fondata sull'interesse, si spiegano tutte l'azioni più magnanime e più indipendenti da ciò che comunemente si chiama utile: si spiegano col dire che gli uomini di gran core ci trovano la loro soddisfazione. Ma, perchè una teoria morale sia completa, non basta che spieghi come alcuni possano aver fatto ciò che essa medesima è costretta a lodare bisogna che dia ragioni e motivi generali per farlo. Altrimenti la parte più perfetta della morale diventa un'eccezione alla regola, una pratica che non ha la sua ragione nella teoria, ma ha solamente una cagione di fatto in certe disposizioni individuali; è quasi una stravaganza di gusto. (20) C'è negli uomini una potenza che gli sforza a disapprovare tutto ciò che non par loro fondato sulla verità; e siccome non possono disapprovare le virtù disinteressate, così vogliono un sistema nel quale esse entrino come ragionevoli. Io credo che, quanto più si osservi, sempre più si vedrà che le morali umane si agitano tra questi due termini, cercando invano di ravvicinarli. Ognuno di que' sistemi ha una parte di fondamento nell'una o nell'altra tendenza della natura umana, cioè o nella stima della virtù, o nel desiderio della felicità (tendenze indistruttibili come il vero, che è l'oggetto dell'una, e il bene, che è il termine dell'altra); ognuno tiene da quella su cui si fonda, un' imperfetta ragione d'essere, e una forza per combattere; come dal trascurar l'altra gli viene l'impotenza di vincere. La difficoltà consiste nel soddisfarle ugualmente, nel trovare un punto dove la bellezza e la ragionevolezza dell'azioni, de' voleri, dell'inclinazioni, si riuniscano necessariamente, in ogni caso e con piena evidenza.

Questo punto è la morale teologica. Qui l'anima umana ritrova, per dir così, la sua unità nel riconoscimento dell'unità eterna e suprema del vero e del bene.

S'immagini qualunque sentimento di perfezione: esso si trova nel Vangelo; si sublimino i desidèri dell'anima la più pura da passioni personali fino al sommo ideale del bello morale: essi non oltrepasseranno la regione del Vangelo. E nello stesso tempo non si troverà alcun sentimento di perfezione, al quale col Vangelo non si possa assegnare una ragione assoluta e un motivo preponderante, legati ugualmente con tutta la rivelazione.

È egli bello il perdonare l'offese, l'avere un core inalterabile, placido e fraterno per chi ci odia? Chi ne dubita? Ma per qual ragione dovrò io impormi questi sentimenti, quando tutto mi trascina agli opposti? Perchè tu non puoi odiare il tuo fratello se non come cagione del tuo male; se non lo è, il tuo odio diventa irragionevole e ingiusto: ora egli non t'ha fatto male; la tua volontà sola può nocerti realmente: egli non ha fatto male, che a sè stesso, e da te merita compassione. Se l'offesa ti punge, è perchè dai alle cose temporali un valore che non hanno; perchè non senti abitualmente che Dio è il tuo solo bene, e che nessun uomo, nessuna cosa può impedirti di possederlo. Il tuo odio viene dunque dalla corruttela del tuo core, dal traviamento del tuo intelletto: purifica l'uno e correggi l'altro, e non potrai odiare. Di più tu riconosci come il più sacro dovere quello d'amare Dio sopra ogni cosa: devi dunque desiderare che sia glorificato e ubbidito: oseresti tu volere che alcuna creatura ragionevole gli negasse il suo omaggio, si ribellasse alla sua legge? Questo pensiero ti fa orrore; tu desidererai dunque che ogni uomo serva Dio e sia nell'ordine; se lo fai, desideri a ogn'uomo la perfezione, la somma felicità: ami ogn'uomo, senza alcuna possibile eccezione, come te stesso.

È bello il dare la propria vita per la verità e per la giustizia? il darla senza testimoni che t'ammirino, senza un compianto, nella certezza che gli uomini ingannati t'accompagneranno con l'esecrazioni, che il sentimento della santità della tua causa non troverà fuori di te dove appoggiarsi, dove diffondersi? Non c'è uomo che non pianga di ammirazione al sentire che un altr'uomo abbia abbandonata la terra così. Ma chi proverà che sia ragionevole il farlo? Quale è il motivo per cui si deva rinunziare a quel sentimento così forte nel core d'ogn'uomo, al desiderio di far consentire dell'anime immortali come la nostra al nostro più alto e profondo sentire? Perchè quando a seguire la giustizia non c'è altra strada che la morte, è certo per noi che Dio ci ha segnata quella per arrivare a Lui; perchè il secolo presente non ha il suo compimento in sè; perché il bisogno che abbiamo d'essere approvati non sarà soddisfatto se non quando vedremo che Dio ci approva; perchè ogni nostro sacrifizio è leggiero in paragone dell'ineffabile sacrifizio dell'Uomo.Dio, al quale dobbiamo esser somiglianti, se vogliamo entrare a parte del suo regno.

Ecco i motivi per cui milioni di deboli creature, con quell'aiuto divino che rende facili tutti i doveri, hanno trovato che la determinazione la più ammirabile e la più difficile, quella di morire tra i tormenti per la verità, era la più ragionevole, la sola ragionevole; e l'hanno abbracciata. Prodigiosa storia della religione! nella quale l'atto di virtù il più superiore alle forze dell'uomo, é forse quello di cui gli esempi sono più comuni.

Non se ne potrà immaginare alcuno, per cui il Vangelo non dia motivi: non si potrà immaginare un sentimento vizioso, che secondo il Vangelo, non supponga un falso giudizio. Si domandi a un cristiano quale sia in ogni caso la risoluzione più ragionevole e più utile; dovrà rispondere: la più onesta e la più generosa.

Troviamo qui l'occasione d'osservar di passaggio quanto sia inconsistente la distinzione che alcuni credono di poter fare tra la morale del Vangelo, per la quale professano ammirazione, non che stima, e i dommi del Vangelo, che dicono opposti alla ragione; come se queste fossero nel Vangelo due dottrine estranee l'una all'altra. E ci sono in vece essenzialmente e perpetuamente connesse; a segno che non ci si trova quasi un insegnamento morale del Redentore, che non sia confermato da Lui con un insegnamento morale del Redentore, che non sia confermato da Lui con un insegnamento dommatico, dal suo primo discorso alle turbe, nel quale chiama beati i poveri di spirito, perchè di questi è il regno de' cieli, (21) fino a quello che precedette di due giorni la celebrazione della sua ultima pasqua, e nel quale fonda il precetto dell'opere della misericordia sulla rivelazione della sua futura venuta a giudicar tutti gli uomini. (22) È quindi facile il vedere che quella distinzione implica una supposizione affatto assurda, come è quella d'una dottrina, nella quale la verità sia, non già mescolata accidentalmente col falso, ma fondata interamente sul falso. E non già una qualche verità sparsa, staccata, secondaria; ma un complesso compito e perfettamente consentaneo di verità regolatrici di tutti gli affetti dell'animo, di tutte le determinazioni della volontà, in qualunque condizione della vita umana. Supposizione, ripeto, assurda non meno che empia, d'un maestro sempre sapiente ne' precetti, e sempre fallace ne' motivi, il quale, in una norma del credere, indegna dell'assentimento della ragione, abbia ritrovata una norma del volere e dell'operare, che la ragione medesima deva poi riconoscere superiore a qualunque sua speculazione, come fa quando l'ammira, senza poterla rivendicar come sua, col darle, di suo, un diverso fondamento.

Infatti dond'è, donde poteva essere ricavata l'idea di perfezione proposta agli uomini nel Vangelo, se non dall'esemplare del Dio perfetto, che nessuno ha mai veduto, e che fu rivelato dal Figlio unigenito, che è nel seno del Padre? (23) Chi poteva dir loro: Siate perfetti, se non Quello che poteva aggiungere: come è perfetto il vostro Padre che è ne' cieli? (24) Qual maestro avrebbe insegnato a' suoi discepoli, a tutti quelli che fossero per credere in lui fino alla fine de' secoli, a esser tutti una sola cosa, se non Quello che all'inaudito insegnamento poteva aggiungere quell'ineffabile esempio: come, o Padre, una sola cosa siamo noi? (25) E i mezzi d'eseguire una tal legge, donde potevano venire se non dall'onnipotenza del Legislatore medesimo? Chi poteva esigere dall'uomo la forza di superare tutte le tendenze contrarie, se non Chi gliela poteva promettere, dicendo: Chiedete e vi sarà dato? (26) Chi la forza di sostenere per la giustizia tutte le violenze di cui è capace il mondo, se non Chi poteva dire: Io ho vinto il mondo? Chi la forza più mirabile ancora, di sostenerle in pace, se non Chi poteva dire: Quella pace l'avrete in me? (27) E donde finalmente poteva aspettarsi una ricompensa perfetta come questa legge medesima? Chi poteva prometterne una, non solo alla virtù, ma al segreto della virtù, se non Chi parlava in nome del Padre che vede nel segreto? (28) Chi prometterla abbondante in paragone di qualunque sforzo più eroico, di qualunque sacrifizio più doloroso, se non chi poteva prometterla ne' cieli? (29) Chi nobile al pari del precetto d'aver fame e sete della giustizia, anzi perfettamente connaturale ad esso, se non Chi poteva dire: La vostra beatitudine starà nell'essere satollati? (30) Si può egli non vedere in questi esempi (e sarebbe facile il moltiplicarli, se ce ne fosse bisogno) una connessione unica, una relazione necessaria, tra i precetti e i motivi? Quando dunque la ragione ammira la morale del Vangelo, alla quale non si sarebbe potuta sollevare da sè, fa rettamente il suo nobile ufizio: ma quando ne sconosce l'unità divina; quando in ciò che il Vangelo prescrive e in ciò che annunzia non vuol vedere una sola e medesima rivelazione; quando ricusa d'ammettere motivi soprannaturali di precetti ugualmente soprannaturali, che confessa eccellenti (che non vuol dir altro se non conformi a delle verità d'un ordine eccellente), allora non può più chiamarsi ragione, perchè discorda da sè medesima.

Sicchè, quand'anche per quelle parole « filosofia morale », come sono adoprate dall'illustre autore e da lui opposte alla teologia, si potesse intendere, in vece d'una confusa e discorde moltiplicità di dottrine, una sola dottrina; quand'anche si potesse intendere una dottrina tutta vera, cioè il complesso delle nozioni rette intorno alla morale, che si trovano, dirò così, sparse nell'umanità, e queste nozioni nettate dai tanti falsi concetti che ci sono mescolati, accresciute di ciò che l'osservazione e il ragionamento partitolare possono aggiungere alla cognizione comune, e ordinate in forma di vera scienza; quand'anche, finalmente, si potesse per quelle parole intendere una scienza universalmente nota, e esclusivamente ricevuta, si dovrebbe ancora dirla inadeguata all'intento, perchè in essa non ritroverebbe un principio col quale a ogni grado della moralità (e non solo della moralità intera e perfetta che c'è manifestata dalla Fede, ma di quella medesima a cui arriva la cognizione naturale) si possa assegnare una ragione assoluta, legata con una sanzione preponderante; perchè, in altri termini, le sue speculazioni non pareggiano, nè potrebbero mai pareggiare l'idea del bene morale, sia come regola, sia come termine della volontà, cioè e come virtù e come felicità: idea che ai più sinceri e potenti sforzi di quelle speculazioni, non solo rimane inesaurita, ma sempre più comparisce inesauribile. Dal che viene di conseguenza che non si potrebbe da quella filosofia ricavare un criterio applicabile a ogni azione e a ogni sentimento. Anzi, per esser vera scienza, dovrà essa medesima riconoscere questa sua mancanza; giacchè come mai potrà esser vera scienza una la quale sconosca la natura del suo oggetto, e la misura necessaria delle sue speculazioni, a segno di non avvedersi d'una sproporzione necessaria che ci sia tra queste e quello? e, per restringere il bene morale ne' limiti di quelle speculazioni, lo mutili e lo snaturi? neghi il carattere di verità a tutto ciò che le oltrepassa, o riconoscendo al di là da quelle qualcosa (e quanto!) a cui non può negare il carattere di verità, e di cui non sa render ragione, si dichiari nondimeno scienza compita? (31)

Ai precetti poi che essa sola poteva promulgare, e ai motivi che essa sola poteva rilevare, la religione aggiunge (ciò che ugualmente poteva essa sola) la cognizione di ciò che può darci la forza d'adempire i primi, e d'adempirli per riguardo e secondo lo spirito de' secondi: cioè quella grazia che non è mai dovuta, ma che non è mai negata a chi la chiede con sincero desiderio, e con umile fiducia. (32) Certo, non era necessaria la rivelazione per farci conoscere che troppo spesso troviamo in noi medesimi non solo una miserabile fiacchezza, ma una indegna repugnanza a seguire i dettami della legge morale. E l'apostolo de' gentili, dicendo: Non fo il bene che voglio, ma quel male che non voglio, quello io fo, (33) ripeteva una verità ovvia anche per loro. Ovidio aveva detto prima di lui: Il core e la mente mi danno opposti consigli: vedo il meglio, l'approvo; e vo dietro al peggio. (34) E quando l'apostolo medesimo esclama: Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte? (35) si direbbe quasi che non faccia altro, che ripetere il lamento di Socrate. (36) Ma da qual uomo non istruito nella scola di cui Paolo fu così gran discepolo e così gran maestro, poteva uscire quella divina risposta alla desolata domanda, allo sterile lamento: La grazia di Dio per Gesù Cristo Signor nostro? (37)

Principio d'irrecusabile autorità; regole alle quali si riduce ogni atto e ogni pensiero; spirito di perfezione che in ogni cosa dubbia rivolge l'animo al meglio; promesse superiori a ogni immaginabile interesse temporale; modello di santità, proposto nell'Uomo.Dio; mezzi efficaci per aiutarci a imitarlo, e ne' sacramenti istituiti da Lui (e ne' quali anche chi ha la disgrazia di non riconoscere l'azione divina, non può non vedere azioni che dispongono a ogni virtù), e nella preghiera, a disposizione della quale, per dir così, è messa la potenza divina da quel: Chiedete, e vi sarà dato; tale è la morale della Chiesa cattolica: quella morale che sola potè farci conoscere quali noi siamo, che sola, dalla cognizione di mali umanamente irremediabili, potè far nascere la speranza; quella morale che tutti vorrebbero praticata dagli altri, che praticata da tutti condurrebbe l'umana società al più alto grado di perfezione e di felicità che si possa conseguire su questa terra; quella morale a cui il mondo stesso non potè negare una perpetua testimonianza d'ammirazione e d'applauso.

Che, anche dopo il Cristianesimo, alcuni filosofi si siano affaticati per sostituirgliene un'altra, è un fatto pur troppo vero. Simili a chi, trovandosi con una moltitudine assetata, e sapendo d'esser vicino a un gran fiume, si fermasse a fare con de' processi chimici qualche gocciola di quell'acqua che non disseta, hanno consumate le loro cure nel cercare una ragione suprema e una teoria completa della morale, assolutamente distinta dalla teologia: quando si sono abbattuti in qualche importante verità morale, non si sono ricordati ch'era stata loro insegnata, ch'era un frammento o una conseguenza del catechismo; non si sono avvisti che avevano soltanto allungata la strada per arrivare ad essa, e che invece d'avere scoperta una legge nova, spogliavano della sanzione una legge già promulgata. (38) La Chiesa non ignora i loro sforzi, e i loro ritrovati; ma è forse questo un esempio per lei? Non ha potuto altro che compiangerli e ammonirli: perchè avrebbe dovuto imitarli? La Chiesa, a cui Gesù Cristo ha consegnata una dottrina morale perfetta, non dovrà mantenersene padrona? dovrà cessare di dirgli con Pietro: Da chi anderemo? tu hai le parole di vita eterna? (39) dovrà cessare di ripetere che disperde chi non raccoglie con lui? (40) Potrà supporre un momento che ci siano due vie, due verità, due vite? Le sono stati affidati de' precetti; e depositaria infedele, ministra diffidente, dispenserà de' dubbi? Lascerà da una parte la parola eterna, e s'avvilupperà ne' discorsi dell'uomo, per riuscire a trovare forse che la virtù è più ragionevole del vizio, forse che Dio dev'essere adorato e ubbidito, forse che bisogna amare i suoi fratelli? Il Verbo avrà assunta questa carne mortale, e attraversate l'angosce ineffabili della redenzione, per meritare alla società fondata da Lui un posto tra l'accademie filosofiche? La Chiesa che, co' suoi primi insegnamenti, può innalzare il semplice, il quale ignora perfino che ci sia una filosofia morale, al più alto punto, non di questa filosofia, ma della morale medesima; a quel punto a cui si trova un Bossuet dopo aver percorso un vasto circolo di meditazioni sublimi; l'abbandonerà a sè stesso, affinchè prenda, se può, la strada del ragionamento, che può condurre a cento mete diverse? Stanco e smarrito, l'uomo si rifuggirà alla città collocata sul monte, (41) e questa non gli darà asilo? Affamato di giustizia e di certezza, d'autorità e di speranza, ricorrerà alla Chiesa, e la Chiesa non gli spezzerà quel pane che si moltiplica nelle sue mani? No: la Chiesa non tradisce così i suoi figli: noi non possiamo temere d'essere abbandonati da lei: non ci resta che il timore salutare che possiamo abbandonarla noi: un tal timore non deve che accrescere la nostra fiducia in Chi ci può tenere attaccati a questa colonna e fondamento della verità. (42) Dimentichiamo diciotto secoli di esistenza, di successione di pastori e di sommi pastori, di continuazione nella stessa dottrina: diciotto secoli ne' quali si contano tante persecuzioni e tanti trionfi, tante separazioni dolorose e non una sola transazione: che abbiamo noi bisogno d'esperienza? I primi fedeli non l'avevano, e hanno creduto: bastò loro la parola di quel Dio per cui mille anni sono come il giorno di ieri che è passato. (43)

A rischio di cadere in qualche ripetizione, chiedo il permesso d'insistere un poco ancora sopra un argomento così importante.

La scienza morale puramente umana, appunto perché scienza umana, è naturalmente defettiva e incompleta. Perciò il Creatore, che abbandonò l'altre alle dispute de' figliuoli degli uomini, (44) volle per questa, non dirò eminente tra tutte, ma unica; per questa che, avendo per fine, non solo d'accrescere cognizione all'intelletto, ma di dirigere la volontà in ogni suo atto, riguarda tutto l'uomo; (45) volle, dico, aggiungere al lume della ragione con cui l'aveva distinto da tutte le creature terrestri, un soprannaturale e positivo insegnamento; e se, riguardo all'altre scienze, gli aveva dato con la ragione medesima un mezzo di discernere, di raccogliere e d'ordinare un certo numero di verità, volle, riguardo a questa, rivelare al mondo tutta la verità. (46) Quindi la morale religiosa, chi non voglia negarla, non si può concepire altrimenti che come il perfezionamento della morale naturale. E appunto perchè l'illustre autore, lungo dal negare la relazione di questa con la religione, la pone espressamente, quella conseguenza viene necessariamente dalle sue parole.

Infatti, il dire che c'è un nesso intimo tra la religione e la morale, è dire (per quanto la formola sia astratta) in primo luogo, che tra di esse non c'è opposizione, giacchè nella proposizione stessa sono date implicitamente come vere tutt'e due; è dire in secondo luogo, che una di esse ha qualcosa che manca all'altra; giacchè, se comprendessero tutt'e due un ugual complesso di cognizioni morali, non sarebbe nesso, ma identità. Dicendo poi: «una di esse,» bisogna intendere una sola di esse, la quale e abbia qualcosa che l'altra non ha, e abbia tutto ciò che l'altra ha; o, in altri termini, la comprenda in sè tutta quanta; giacché, se si volesse intendere che ognuna delle due abbia qualcosa di proprio e di speciale, che manchi all'altra, s'avrebbe a supporre, o che dipendano da due diversi princìpi, il che è evidentemente falso, quando hanno lo stesso oggetto; o che non fossero se non due parti diverse, due applicazioni parziali e circoscritte e, per dir così, due diversi frammenti d'una scienza che contenesse il principio supremo della morale, e fosse insomma la vera e universale scienza della morale: supposizione, anche questa, che non si può enunciare, se non per escluderla. Per conseguenza, ciò che una di quelle due, alle quali si dà ugualmente il nome di morale, deve avere più dell'altra, è niente meno che l'integrità, l'essere completo di scienza morale: l'altra non può essere appunto, che una parte e come un frammento di questa. Il dar poi a tutt'e due ugualmente il nome di morale può essere senza errore e senza inconveniente, quando non gli si attribuisca un valore uguale ne' due casi tanto disuguali: quando, cioè, per l'una s'intenda la collezione ordinata, ma implicitamente subordinata, d'alcune verità morali; per l'altra, la scienza perfetta e assoluta, che ne comprende l'ordine intiero. Posto ciò, che, come dicevo, discende per necessità logica da quella proposizione: c'è un nesso intimo tra la religione e la morale; a quale di queste due si dovrà egli attribuire quell'integrità, quel contener tutta l'altra, e, per conseguenza, la facoltà di darle il compimento che le manca nella cognizione umana? La risposta è troppo ovvia; poichè, independentemente da ogni esame e da ogni paragone, sarebbe assurdo a priori il supporre che Dio, con l'aggiungere all'uomo delle cognizioni soprannaturali, non gli abbia dato che una parte di ciò che gli avesse già dato interamente per mezzo della ragione, o di ciò che con questo mezzo, l'uomo potesse acquistar da sè.

Dunque una religione rivelata da Dio, impadronendosi della morale, non leva nulla alla ragione data all'uomo da quel Dio medesimo, i doni del quale non sono soggetti a pentimento. (47) Non fa altro che darle, darle abbondantemente, darle il tutto, darle, in una certa maniera, anche quel tanto che essa aveva già, col renderlo compito e inconcusso. Di quelle sante e solenni parole che sono come la parte essenziale del vocabolario morale di tutti i tempi e di tutti i luoghi = giustizia, dovere, virtù, benevolenza, diritto, coscienza, premio, pena, bene, felicità, (48) = quale, Dio bono! è stata cancellata o lasciata fuori dalla Chiesa? La Chiesa non fa altro, che aggiunger loro la pienezza e, con questo, la chiarezza e la stabilità del significato. Il mondo le ripeteva a una a una come piene di verità, con una fiducia più fondata di quello che intendesse lui medesimo; ma, troppo spesso, in vece della naturale concordia tra le verità che quelle parole esprimono, gli pareva di vedere un contrasto doloroso, un escludersi a vicenda, e la luce d'una eclissare quella d'un'altra, o annebbiarsi scambievolmente. La scienza poi, non che comporre il dissidio e dissipare l'oscurità, l'accresceva per lo più, cambiando in altrettanti sistemi quelle triste oscillazioni delle menti, e sacrificando a una verità arbitrariamente prediletta dell'altre verità, e qualche volta impiegando tutto lo sforzo della riflessione, e l'apparato del ragionamento a negare le più nobili e le più sante. La dottrina evangelica, compimento della legge data a un popolo eletto; (49) questa dottrina affidata dal Messia alla Chiesa, per essere da lei conservata e predicata fino alla consumazione de' secoli, ha rinfrancate e messe d'accordo tutte le verità morali, rivelando l'ordine intero dove appariscono, come sono, indivisibili: dimanierachè ciò ch'era un problema insolubile per i dotti, è diventata una cognizione evidente anche per gl'idioti. Dottrina, per possedere la quale, tutti coloro a cui, per inestimabile grazia è annunziata, non hanno a far altro che credere e amare. E questa credenza sia pure da alcuni chiamata cieca e materiale. Cieca e materiale credenza davvero, l'aderire con un assenso risoluto e fermo a tutte le diverse verità morali, non per quella sola luce, dirò così, parziale, con cui si presentano alla mente ciascheduna da sè, ma per la loro relazione con una verità suprema, nella quale tutte si riuniscono! Cieca e materiale credenza l'intendere che il vero male per l'uomo non è quello che soffre, ma quello che fa; e intenderlo per la cognizione d'un ordine universale, in cui tra la vera giustizia e la vera e finale felicità non ci può esser contrasto, per esser quest'ordine prestabilito dall'Essere infinitamente giusto, sapiente e potente; e il saper quindi che c'è un'armonia dove il ragionamento che si separa dalla fede non sa spesso far altro che accusare una contradizione! (50) Cieca e materiale credenza l'intendere che i piaceri temporali non sono veri beni; e intenderlo non solo per quella sproporzione col nostro desiderio di godere, e per quella instabilità e caducità che l'esperienza ci sforza, per dir così, a riconoscere volta per volta in ciascheduno di essi; ma per la nozione e per il paragone d'un bene perfetto e inamissibile: nozione che ha istruito l'uomo intorno alla sua intima natura più di quello che nessuna speculazione scientifica potesse mai fare; poichè, concepita l'essenza d'un tal bene, l'uomo potè intendere e, dirò così, avvedersi che solo un bene di quel genere, o piuttosto quel solo bene fuori d'ogni genere, era capace di soddisfare un essere dotato, come lui, d'intelligenza e di volontà; nozione, la quale sola può render ragione di quell'esperienza medesima, appunto perchè la trascende infinitamente! Cieca e materiale credenza quella che, facendo intendere che i beni temporali non sono il fine dell'uomo, li fa con ciò stesso conoscere come mezzi; e nella quale trovano per conseguenza una ragione evidente del pari e il giusto disprezzo e la giusta stima di essi; il procurarli agli altri, e il trascurarli per sè, quando il trascurarli sia un mezzo più conducente al fine, che il possederli; e la pazienza senza avvilimento, e l'attività senza inquietudine!

Dunque ancora, l'essere la filosofia morale distinta dalla teologia (la quale non è altro che la scienza della religione), non è punto una condizione appartenente all'essenza della morale: è solamente un fatto possibile, e troppo spesso reale. E il voler convertire un tal fatto in un principio, il volere cioè che la scienza morale deva rimanere assolutamente distinta dalla teologia, sarebbe, non dico un condannarla a rimanere in uno stato d'imperfezione, ma un costituirla nell'errore; perchè, quantunque sia possibile (giova ripeterlo) il formare coi soli elementi somministrati dalla cognizione naturale, una scienza morale mancante bensì di verità importantissime, ma immune da errori; pure l'escludere scientemente e di proposito tali verità, è già per sè un errore capitale, e è insieme una cagione perenne d'errori. Sarebbe un voler perpetuare, in mezzo alla luce del Vangelo, l'oscurità e l'incertezza del gentilesimo; e con tanto più tristo effetto, quanto il rifiutare la verità allontana da essa più che l'ignorarla.

Dunque finalmente, anche secondo i soli argomenti della ragione, la Chiesa, impadronendosi della morale, (51) non ha fatto altro che adempire una condizione essenziale alla vera religione. A una che si desse per tale, e non asserisse di possedere l'intera e perfetta morale, la ragione medesima potrebbe, anzi dovrebbe dire: -- Quando protesti di non essere la custode perpetua, la maestra suprema della morale, non posso non crederti; perchè il non riconoscere in sè una tale autorità e il non averla, è una stessa cosa. Ma per ciò appunto non posso crederti quando pretendi d'esser la vera religione. Non posso nemmeno ammettere la possibilità di trovarti tale, quando avessi esaminati i tuoi argomenti. Per ammettere una tale possibilità, dovrei supporre dimostrabile una di due cose ugualmente assurde: o una religione priva d'una dottrina morale; o una morale rivelata da Dio, e inferiore (uguale, sarebbe assurdo in un'altra maniera) alle cognizioni e ai ritrovati degli uomini. --

Dobbiamo in ultimo render conto d'un'omissione che sarà facilmente notata da' lettori più riflessivi. Avendo in questo troppo lungo capitolo avuto a considerare la morale sotto diversi aspetti, e in diverse sue applicazioni, non abbiamo però mai fatta menzione de' doveri dell'uomo verso Dio, i quali sono certamente una parte (lasciamo star quanta) della morale. chi non voglia dire, o che l'uomo non abbia alcun dovere verso Dio, o che ci siano de' doveri estranei alla morale. Non occorre avvertire che non abbiamo inteso con questo d'aderire all'opinione, o piuttosto alla consuetudine non ragionata e puramente negativa, di quelli che restringono la morale alle relazioni degli uomini tra di loro. Solamente abbiamo creduto che, anche rimanendo, in quest'ordine di fatti e d'applicazioni, si potesse trattare la questione senza mutilarla; giacchè una verità, per quanto le si restringa arbitrariamente il campo, si manifesta tutt'intera all'osservazione, anche in quel piccolo spazio che le è lasciato; appunto perchè è tutta in ogni sua parte; e, se ciò non fosse, non sarebbe possibile il fare di essa la minima applicazione. Il dimostrare che le relazioni degli uomini tra di loro sono ben lontane dall'esaurire e dall'adeguare il concetto intero della moralità, avrebbe senza dubbio somministrati degli argomenti più immediati contro la proposta separazione della morale dalla teologia; ma ci avrebbe condotti ancora più in lungo, e non si sarebbe potuto fare senza ripetere cose già dette molto bene da altri. Abbiamo dunque presa la questione dov'è confinata da molti, e dove, del rimanente, era stata lasciata dall'illustre autore; e abbiamo procurato, per quanto lo permettevano le nostre forze, di far vedere come, anche nella parte che riguarda le sole relazioni degli uomini tra di loro, la morale puramente filosofica sia naturalmente defettiva; come ogni volta che cerca d'arrivare col ragionamento quella perfezione che pure la ragione intravvede, il ragionamento, dopo inutili sforzi, vada, per dir così, a morire in un desiderio, e come questo giusto e nobile desiderio sia appagato dalla morale rivelata, e non lo possa essere che da questa; come il concetto della più eminente virtù dell'uomo verso gli uomini trovi la sua desiderata e manifesta ragione nel regno di Dio e nella sua giustizia. (52) Perfino il nome non l'ha se non in questa dottrina quella virtù medesima, quand'è eminente davvero. Non già un nome tutto suo, fatto per essa, e proprio esclusivamente di essa. Sarebbe poca cosa, e non potrebbe significar nulla d'eminente; poichè il suo concetto, non riferendosi che agli uomini, rimarrebbe necessariamente circoscritto ne' limiti di quest'oggetto medesimo, e non anderebbe al di là di ciò che agli uomini può esser dovuto per la loro natura. Quello che una tal virtù riceve dalla dottrina evangelica è il nome sovrumano di Carità, il quale, unendo con l'amor di Dio l'amor degli uomini, lo fa in qualche maniera partecipare della ragione infinita di quello; nome che contempla in essi, non la sola natura quale si può riconoscere per mezzo della ragione: ma l'origine, che li fa essere figlioli di Dio; ma l'umanità assunta dal Verbo, che li fa essere fratelli di Gesù Cristo; ma la natura medesima quale è interamente manifestata dalla fede, e che li fa essere a immagine e similitudine dell'ineffabile Trinità. L'Uomo Dio ha detto: Ogni volta che avete fatto qualche cosa per uno de' più piccoli di questi miei fratelli, l'avete fatta a me. (53) Quale filosofia avrebbe mai potuto scoprire nel bene fatto agli uomini un tal valore, promettergli una tale riconoscenza?




CAPITOLO IV

SUI DECRETI DELLA CHIESA -- SULLE DECISIONI DEI PADRI -- E SUI CASISTI

Elle (l'Église) substitua l'autorité de ses décrets, et les décisions des Péres aux lumières de la raison et de la conscience, l'étude des casuistes à celle de la philosophie morale... Pag. 413-14.

La Chiesa fonda la sua autorità sulla parola di Gesù Cristo: essa pretende d'essere depositaria e interprete delle Scritture e della Tradizione; e protesta, non solo di non aver mai insegnato nulla che non derivi da Gesù Cristo, ma d'essersi sempre opposta, e di volersi sempre opporre a ogni novità che tentasse introdursi; d'esser pronta a cancellare, appena scritto, ogni iota che una mano profana osasse aggiungere alle carte divine. Non ha mai preteso d'avere l'autorità d'inventare princìpi di morale essenziale; anzi la sua gloria è di non averla; di poter dire che ogni verità le è stata insegnata fino dalla sua origine, che ha sempre avuti gli insegnamenti e i mezzi necessari per salvare i suoi figli; d'avere un'autorità che non può crescere, perchè non è mai stata mancante. Afferma, in conseguenza, che i suoi decreti sono conformi al Vangelo, e che non riceve le decisioni de' Padri, se non in quanto gli sono pure conformi, e sono una testimonianza della continuazione della stessa fede e della stessa morale. Se la Chiesa afferma il vero, non si potrà dire che sostituisca questi decreti e queste decisioni ai lumi della ragione e della coscienza; come non si può dire sostituita alla legge una sentenza che ne spieghi lo spirito, e che ne determini l'esecuzione. Si dovrà anzi confessare ch'essa regola l'una e l'altra con una norma infallibile, come è quella del Vangelo. Che se non si vuol credere a questa asserzione della Chiesa, si dovrà dire quali siano le massime di morale proposte dalla Chiesa, che non vengano dal Vangelo, che siano contrarie, o anche solamente indifferenti al suo spirito. Questa ricerca non farà altro che mettere sempre più in chiaro la maravigliosa immutabilità della Chiesa nella sua morale perpetuamente evangelica, e l'infinita distanza che passa tra essa e tutte le scole filosofiche, o anteriori alla Chiesa, o che si dichiarano independenti da essa; nelle quali non s'è fatto altro che edificare e distruggere, affermare e disdirsi; nelle quali i più savi sono stati stimati quelli che più hanno confessato di dubitare.

In quanto ai casisti, principio dal confessare di non averli letti, non dico tutti, che dev'essere l'occupazione d'una vita intera, ma neppur uno; e di non averne altra idea, e d'alcuni solamente, se non per le confutazioni di altri scrittori, e per le censure inflitte da autorità ecclesiastiche a varie loro proposizioni. Ma la cognizione delle loro opere non è necessaria per stabilire il punto che interessa la Chiesa a loro riguardo; ed è, che alla Chiesa non si possono attribuire le dottrine de' casisti: essa non si fa mallevadrice dell'opinioni de' privati, nè pretende che alcuno de' suoi figli non possa errare: questa pretesa contradirebbe alle predizioni del suo Fondatore divino. Essa non ha mai proposto i casisti come norma di morale: era anzi impossibile il farlo, perchè le decisioni loro devono essere un ammasso d'opinioni non di rado opposte.

La storia della Casistica può dar luogo a due osservazioni importanti. L'una, che le proposizioni inique fino alla stravaganza, che sono state messe fuori da qualche casista, sono motivate sopra sistemi arbitrari e independenti dalla religione. Alcuni di loro s'erano costituiti e divisi in scole di filosofi moralisti profani, e si perdevano a consultare e citare Aristotele e Seneca dove aveva parlato Gesù Cristo. Questo è lo spirito che il Fleury notò ne' loro scritti: Il s'est à la fin trouvé des casuistes qui ont fondé leur morale plutôt sur le raisonnement humain, que sur l'Écriture et la Tradition. Comme si Jésus-Christ ne nous avoit pas enseigné toute vérité aussi bien pour les moeurs que pour la foi: comme si nous en etions encore a cherchez avec les anciens philosophes. (54) L'altra osservazione è che gli scrittori e le autorità che nella Chiesa combatterono o condannarono quelle proposizioni, opposero ad esse costantemente le Scritture e la Tradizione. Gli eccessi d'una parte de' casisti vennero dunque dall'essersi essi allontanati dalle norme che la Chiesa segue e propone; e a queste si dovette ricorrere per mantenere la morale ne' suoi veri princìpi.




CAPITOLO V

SULLA CORRISPONDENZA DELLA MORALE CATTOLICA COI SENTIMENTI NATURALI RETTI

La morale fut absolument dénaturée entre les mains des casuistes; elle devint étrangère au coeur comme à la raison: elle perdit de vue la souffrance que chacune de nos fautes pouvoit causer à quelqu'une des créatures, pour n'avoir d'autres lois que les volontés supposées du Créateur: elle repoussa la base que lui avoit donnée la nature dans le coeur de tous les hommes pour s'en former une toute arbitraire... Pag. 414.

Benchè non abbiamo nè il desiderio di difendere i casisti in monte, come sono presentati nel testo che esaminiamo, nè le cognizioni per difenderne neppur uno, crediamo di potere appellar francamente da una condanna che li comprende tutti. Una tal condanna è evidentemente, non solo altrettanto arbitraria, ma meno ragionevole di quello che sarebbe una giustificazione ugualmente generale. Independentemente da ogni altra considerazione, e secondo le sole probabilità umane, come pensare che, tra tanti scrittori di quella materia, alcuni de' quali noti per sapere e per santità di vita, non ce ne siano di quelli che abbiano rettamente e utilmente applicata la morale cristiana ai casi particolari di cui trattavano?

Ma siccome la Chiesa è poco sopra accusata d'aver sostituito lo studio de' casisti alla filosofia morale; e siccome il non tenere altra norma, che le volontà (non supposte ma rivelate) del Creatore non è una massima privata de' casisti, ma universale della Chiesa, così queste censure vengono a ricadere sopra di essa. A ogni modo, credo bene d'esporre lo spirito della Chiesa su questo punto, per mostrare che ciò che viene da lei è sapientissimo, e per impedire che le si attribuisca ciò che non è suo. Che se l'intenzione dell'illustre autore non è stata di censurare la Chiesa, tanto meglio: io avrò avuto il campo di renderle omaggio, senza contradire a nessuno.

La Chiesa non ha poste le basi della morale, ma le ha trovate nella parola di Dio: Io sono il Signore Dio tuo: (55) questo è il fondamento e la ragione della legge divina, e per conseguenza della morale della Chiesa. Il principio della sapienza è il timor di Dio. (56) Ecco le basi sulle quali sole la Chiesa doveva edificare.

Ma col far questo ha essa potuto distruggere le basi naturali della morale, cioè i sentimenti retti, ai quali tutti gli uomini hanno una disposizione? Tutt'altro, giacchè questi sentimenti non possono mai essere in contradizione con la legge di Dio, dal Quale vengono anch'essi. La legge è fatta anzi per dar loro una nova autorità e una nova luce, onde l'uomo possa discernere nel suo core ciò che Dio ci ha messo da ciò che il peccato ci ha introdotto. Perchè, queste due voci parlano in noi; e troppo spesso, tendendo l'orecchio interiore, l'uomo non sente una risposta distinta e sicura, ma il suono confuso d'una trista contesa. Di più (e quanto di più!) la legge divina ha estesi que' sentimenti al di là della natura; gli ha sollevati di novo al loro oggetto infinito, dal quale il peccato gli aveva sviati. Conformare la morale a questa legge, è dunque un farla essere conforme al core retto e alla ragione perfezionata. E questo ha fatto la Chiesa; e essa sola può farlo, come interprete infallibile e perpetua di questa legge.

Perchè, cosa giova che il regolo sia perfetto, se a chi lo tiene trema la mano? A che varrebbe la santità della legge, se l'interpretazione ne fosse abbandonata al giudizio appassionato di chi ci si deve assoggettare? se Dio non l'avesse resa independente dalle fluttuazioni della mente umana, affidandola a quella Chiesa che ha promesso d'assistere?

Se dunque il riguardo al dolore degli altri, se il dovere di non contristare un'immagine di Dio, è uno di questi sentimenti stampati da Dio nel cuore dell'uomo, la Chiesa non l'avrà certamente perduto di vista nel suo insegnamento morale, perchè non l'avrà perduto di vista la legge divina. Così è infatti.

È insegnamento catechistico universale, che i peccati s'aggravano in proporzione del danno che con essi si fa volontariamente al prossimo. La Chiesa insegna esser peccati una quantità d'azioni, alle quali non si può assegnare altra reità, che il torto che con esse si fa a degli altri. L'intenzione d'affliggere un uomo è sempre un peccato: l'azione più lecita, l'esercizio del diritto più incontrastabile diventa colpevole, se sia diretto a questo orribile fine.

La Chiesa ha dunque tenuto di vista un tal sentimento; e ci ha poi aggiunta la sanzione, insegnando che il dolore fatto agli altri diventa infallibilmente un dolore per chi lo fa; il che la natura non insegna; nè la ragione potrebbe acquistarne la chiara e piena certezza, senza l'aiuto della rivelazione.

La Chiesa vuole che i suoi figli educhino l'animo a vincere il dolore, che non si perdano in deboli e diffidenti querele; e presenta loro un esemplare divino di fortezza e di calma sovrumana ne' patimenti. Vuole i suoi figli severi per loro; ma per il dolore de' loro fratelli li vuole misericordiosi e delicati; e per renderli tali, presenta loro lo stesso esemplare, quell'Uomo-Dio che pianse al pensiero dei mali che sarebbero piombati sulla città dove aveva a soffrire la morte più crudele. (57) Ah! certo, non lascia ozioso il sentimento della commiserazione quella Chiesa che, nella parola divina di carità, mantiene sempre unito e, per dir così, confuso l'amore di Dio e degli uomini: quella Chiesa che manifesta il suo orrore per il sangue, fino a dichiarare che anche quello che si sparge per la difesa della patria, contamina le mani de' suoi ministri, e le rende indegne d'offrire l'Ostia di pace. Tanto le sta a core che si veda che il suo ministero è di perfezione; che se ci sono delle circostanze dolorose, nelle quali può esser lecito all'uomo di combatter l'uomo, essa non ha istituiti dei ministri per far ciò che è lecito, ma ciò che è santo; che quando si creda di non poter rimediare ai mali se non con altri mali, essa non vuole averci parte; essa il cui solo fine è di ricondurre i voleri a Dio; essa che riguarda come santo il dolore, solamente quand'è volontario, quand'è una espiazione, quand'è offerto dall'animo che lo soffre.




CAPITOLO VI

SULLA DISTINZIONE DE' PECCATI IN MORTALI E VENIALI

La distinction des péchés mortels d'avec les péchés véniels effaça celle que nous trouvions dans notre conscience entre les offenses les plus graves et les plus pardonnables. On y vit ranger les uns a cóté des autres les crimes qui inspirent la plus profonde horreur, avec le fautes que notre foiblesse peut à peine éviter. Pag. 414.

Si può credere che l'illustre autore ammetta in sostanza, con la Chiesa cattolica, la distinzione de' peccati in mortali e veniali di loro natura; poichè divide le offese in più gravi e in più perdonabili. È noto che questa distinzione fu apertamente rigettata da Lutero e da Calvino; i quali ritennero in vece i due vocaboli, ma dandogli un tutt'altro significato, repugnante alla ragione comune, non meno che alla fede cattolica. Ecco una delle proposizioni del primo su questo punto: Perciò dissi (58) che nessun peccato è veniale di sua natura, ma che tutti meritano la dannazione; e che l'essere alcuni veniali è da attribuirsi alla grazia di Dio. (59) E, in termini non meno espliciti, il secondo: Tengono i figlioli di Dio, che ogni peccato è mortale; (60) perchè è una ribellione contro il voler di Dio, la quale provoca necessariamente la sua ira; perchè è una prevaricazione dalla legge, prevaricazione alla quale è intimato, senza eccezione, il giudizio di Dio; e che le colpe de' santi sono veniali, non di loro natura, ma perchè ottengono il perdono dalla misericordia di Dio.

La censura dell'illustre autore non cade dunque che sull'applicazione della massima, cioè sulla classificazione de' peccati, che dice opposta a quella che trovavamo nella nostra coscienza. Su di che mi fo lecito di osservare prima di tutto, che la nostra coscienza, priva della rivelazione, non può mai essere un'autorità a cui ricorrere per riformare in ciò il giudizio, non solo della Chiesa, ma qualunque giudizio: non sarebbe che appellare da una coscienza a un'altra.

Al sentire che la distinzione de' peccati mortali da' veniali cancellò quella che trovavamo nella nostra coscienza, tra l'offese più gravi e le più condonabili, parrebbe che, quando la Chiesa insegnò questa distinzione, n'abbia trovata nelle menti degli uomini una anteriore, precisa e unanimemente ricevuta, e che a questa abbia sostituita la sua. Ma il fatto sta che il principio astratto di questa distinzione era bensì universalmente ricevuto, e faceva parte del senso comune; ma che, riguardo all'applicazione, il giudizio della coscienza era (come s'è osservato più volte) vario secondo i luoghi, i tempi, e gl'individui; che ad alcuni faceva parer colpa grave ciò che per altri era colpa leggiera, o non colpa, o anche virtù; che alcuni perfino (e non erano i meno pensatori) tenevano che tutte le colpe fossero pari; e, per conseguenza, rifiutavano il principio medesimo. La Chiesa, istituita per illuminare e per regolare la coscienza, la Chiesa, fondata appunto perché questa non era nè incorrotta, nè unanime, nè infallibile, non può esser citata al suo tribunale.

Quale doveva dunque essere per la Chiesa il criterio a giudicare della gravità delle colpe? Certo, la parola di Dio.

Uno degli uomini che hanno più meditato, e scritto più profondamente su questa materia, sant'Agostino, osserva che: alcune cose si crederebbero leggerissime, se nelle Scritture non fossero dichiarate più gravi che non pare a noi; e da ciò appunto deduce che: col giudizio divino, e non con quello degli uomini si deve decidere della gravità delle colpe. (61) Non prendiamo, dice anche altrove, non prendiamo bilance false per pesare ciò che ci piace, e come ci piace, dicendo, a nostro capriccio, questo è grave, questo è leggiero; ma prendiamo la bilancia divina delle Scritture, e pesiamo in essa ciò che è colpa grave, o per dir meglio, riconosciamo il peso che Dio ha dato a ciascheduna. (62) Perchè, il vero appello è dalla coscienza alla rivelazione, cioè dall'incerto al certo, dall'errante e dal tentato all'incorruttibile e al santo.

Che se, con questa coscienza riformata e illuminata dalla rivelazione, osserviamo quello che la Chiesa c'insegna sulla gravità delle colpe, non troveremo che da ammirare la sua sapienza, e la sua fedeltà alla parola divina, della quale è interprete e depositaria. Vedremo che quelle cose che essa ascrive a peccato grave, vengono tutte da disposizioni dell'animo contrarie direttamente al sentimento predominante d'amore e d'adorazione che dobbiamo a Dio, o all'amore che dobbiamo agli uomini, tutti nostri fratelli di creazione e di riscatto; vedremo che la Chiesa non ha messo tra le colpe gravi nessun sentimento che non venga da un core superbo e corrotto, che non sia incompatibile con la giustizia cristiana, nessuna disposizione che non sia bassa, carnale o violenta, che non tenda ad avvilir l'uomo, a stornarlo dal suo nobile fine, e a oscurare nella sua anima i segni divini della somiglianza col Creatore; e sopra tutto nessuna disposizione per la quale non sia espressamente intimata nelle Scritture l'esclusione dal regno de' cieli. Ma, specificando queste disposizioni, la Chiesa ha ben di rado enumerati gli atti in cui si trovino al punto di renderli colpe gravi. Sa e insegna che Dio solo vede a qual segno il core degli uomini s'allontani da Lui; e fuorchè ne' casi in cui gli atti siano un'espressione manifesta dell'essersi il core ritirato da Lui, essa non ha che a ripetere: Chi è che conosca i delitti? (63)

Oltre le disposizioni, ci sono dell'azioni per le quali nelle Scritture è pronunziata la morte eterna: sulla gravità di queste non può cader controversia.

Oltre di queste ancora, la Chiesa ha dichiarate colpe gravi alcune trasgressioni delle leggi stabilite da essa con l'autorità datale da Gesù Cristo. Non c'è alcuna di queste leggi che tema l'osservazione d'un intelletto cristiano, spassionato e serio; alcuna che non sia, in un modo manifesto e diretto, conducente all'adempimento della legge divina. Non sarà qui fuori del caso di discuterne una brevemente.

È peccato mortale il non assistere alla Messa in giorno festivo.

Chi non sa che la sola enunciazione di questo precetto eccita le risa di molti? Ma guai a noi, se volessimo abbandonare tutto ciò che ha potuto essere soggetto di derisione! Quale è l'idea seria, quale il nobile sentimento, che abbia potuto sfuggirla? Nell'opinione di molti non può esser colpa se non l'azione che tenda direttamente al male temporale degli uomini; ma la Chiesa non ha stabilite le sue leggi secondo questa opinione sommamente frivola e improvida: la Chiesa insegna altri doveri; e quando essa regola le sue prescrizioni secondo tutta la sua dottrina, bisogna prima confessare che è consentanea a sè stessa; e se le prescrizioni non paiono ragionevoli, bisogna provare che tutta la sua dottrina è falsa; non giudicare la Chiesa con uno spirito che non è il suo, e che essa riprova.

È notissimo che la Chiesa non ripone l'adempimento del precetto nella materiale assistenza de' fedeli al Sacrifizio, ma nella volontà d'assisterci essa ne dichiara disobbligati gl'infermi e quelli che sono trattenuti da un'occupazione necessaria; e ritiene trasgressori quelli che, presenti con la persona, ne stanno lontani col core: tanto è vero che, anche nelle cose più essenziali, vuole principalmente il core de' fedeli. Posto ciò, vediamo quali disposizioni certe supponga la trasgressione di questo precetto.

La santificazione del giorno del Signore è uno di que' comandamenti che il Signore stesso ha dati all'uomo. Certo, nessun comandamento divino ha bisogno, d'apologia; ma non si può a meno di non vedere la bellezza e la convenienza di questo, che consacra specialmente un giorno al dovere più nobile e più stretto, e richiama l'uomo al suo Creatore.

Il povero, curvato verso la terra, depresso dalla fatica, e incerto se questa gli produrrà il sostentamento, costretto non di rado a misurare il suo lavoro con un tempo che gli manca; il ricco, sollecito per lo più della maniera di passarlo senza avvedersene, circondato da quelle cose in cui il mondo predica essere la felicità, e stupito ogni momento di non trovarsi felice, disingannato degli oggetti da cui sperava un pieno contento, e ansioso dietro altri oggetti de' quali si disingannerà quando gli abbia posseduti; l'uomo prostrato dalla sventura, e l'uomo inebbriato da un prospero successo; l'uomo ingolfato negli affari, e l'uomo assorto nelle astrazioni delle scienze; il potente, il privato, tutti insomma troviamo in ogni oggetto un ostacolo a sollevarci alla Divinità, una forza che tende ad attaccarci a quelle cose per cui non siamo creati, a farci dimenticare la nobiltà della nostra origine, e l'importanza del nostro fine. E risplende manifesta la sapienza di Dio in quel precetto che ci toglie alle cure mortali, per richiamarci al suo culto, ai pensieri del cielo; che impiega tanti giorni dell'uomo indotto nello studio il più alto, e il solo necessario; che santifica il riposo del corpo, e lo rende figura di quel riposo d'eterno contento a cui aneliamo, e di cui l'anima nostra sente d'esser capace: in quel precetto che ci riunisce in un tempio, dove le comuni preghiere, rammentandoci le comuni miserie e i comuni bisogni, ci fanno sentire che siamo fratelli. La Chiesa, conservatrice perpetua di questo precetto, prescrive a' suoi figli la maniera d'adempirlo più ugualmente e più degnamente. E tra i mezzi che ha scelti, poteva mai dimenticare il rito più necessario, il più essenzialmente cristiano, il Sacrifizio di Gesù Cristo, quel Sacrifizio dove sta tutta la fede, tutta la scienza, tutte le norme, tutte le speranze? Il cristiano che volontariamente s'astiene in un tal giorno da un tal Sacrifizio, può mai essere un giusto che viva della fede? (64) Può far vedere più chiaramente la noncuranza del precetto divino della santificazione? Non ha evidentemente nel core un'avversione al cristianesimo? non ha rinunziato a ciò che la fede rivela di più grande, di più sacro e di più consolante? non ha rinunziato a Gesù Cristo? Pretendere che la Chiesa non dichiari prevaricatore chi si trova in tali disposizioni, sarebbe un volere che dimenticasse il fine per cui è istituita, che ci lasciasse ricadere nell'aria mortale del gentilesimo.




CAPITOLO VII

DEGLI ODÎ RELIGIOSI

Les casuistes présentèrent a l'exécration des hommes, au premier rang entre les plus coupables, les hérétiques, les schismatiques, les blasphémateurs. Quelque fois ils réussirent à allumer contre eux la haine la plus violente... Pag. 414.

Certo, ci sono poche cose elle corrompano tanto un popolo, quanto l'abitudine dell'odio: così questo sentimento non fosse fomentato perpetuamente da quasi tutto ciò che ha qualche potere sulle menti e sugli animi. L'interesse, l'opinione, i pregiudizi, le verità stesse, tutto diventa agli uomini un'opportunità per odiarsi a vicenda: appena si trova alcuno che non porti nel core l'avversione e il disprezzo per delle classi intere de' suoi fratelli: appena può accadere ad alcuno una sventura che non sia cagione di gioia per altri; e spesso non per alcun utile che ne venga loro, ma per un interesse ancora più basso, quello dell' odio. Confesso di veder con maraviglia messi tra i pervertitori d'una nazione, in questo senso, e come in capo di lista, i casisti, ai quali finora non avevo sentito dare altro carico, che di voler giustificare quasi ogni opera e ogni persona, che d'insegnare a non odiare nemmeno il vizio.

Ma siano i casisti, o sia qualunque si voglia, che ispiri agli uomini odio contro i loro fratelli, li fa essere omicidi; (65) va direttamente contro il secondo precetto, che è simile al primo, che non ne ha alcun altro sopra di sè; (66) va direttamente contro l'insegnamento perpetuo della Chiesa, che non ha mai lasciato di predicare che il segno di vita è l'amare i fratelli. (67)

Sia però lecito d'osservare che, tra le cagioni che possono aver cambiato il carattere degli Italiani, questa, se ci fu, deve aver certamente operato assai poco; giacchè non c'è forse nazione cristiana dove i sentimenti d'antipatia col pretesto della religione abbiano avuto meno occasione di nascere e d'influire sulla condotta degli uomini. In verità, riguardando a questa parte della storia, noi troviamo piuttosto da piangere su quella Francia e su quella Germania che ci vengono opposte. Ah! tra gli orribili rancori che hanno diviso l'Italiano dall'Italiano, questo almeno non si conosce; le passioni che ci hanno resi nemici non hanno almeno potuto nascondersi dietro il velo del santuario. Pur troppo noi troviamo a ogni passo nei nostri annali le nemicizie trasmesse da una generazione all'altra per miserabili interessi, e la vendetta anteposta alla sicurezza propria; ci troviamo a ogni passo due parti della stessa nazione disputarsi accanitamente un dominio e de' vantaggi, i quali, per un grand'esempio, non sono rimasti nè all'una nè all'altra; ci troviamo la feroce ostinazione di volere a schiavi pericolosi quelli che potevano essere amici ardenti e fedeli; ci troviamo una serie spaventosa di giornate deplorabili, ma nessuna almeno simile a quelle di Cappel, (68) di Jarnac (69) e di Praga. (70) Purtroppo da questa terra infelice sorgerà un giorno gran sangue in giudizio, ma del versato col pretesto della religione, assai poco. Poco dico, in confronto di quello che lordò l'altre parti d'Europa: i furori e le sventure dell'altre nazioni ci danno questo tristo vantaggio di chiamar poco quel sangue; ma il sangue d'un uomo solo, sparso per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra.

Non si può a meno, in quest'occasione, di non riflettere sull'ingiustizia commessa da tanti scrittori nell'attribuire ai cattolici soli questi orribili sentimenti d'odio religioso, e i loro effetti: ingiustizia che appare a chiunque scorra appena le storie di quelle dissensioni. Ma questa parzialità può essere utile alla Chiesa; il grido d'orrore che i secoli alzano contro di quelle, essendo principalmente rivolto contro i cattolici, questi devono averlo sempre negli orecchi, e sentirsi richiamati alla mansuetudine e alla giustizia, non solo dalla voce della Chiesa, ma anche da quella del mondo.

Io so che è stato detto da molti, che queste avversioni e queste stragi, benchè abborrite dalla Chiesa, le possono essere imputate, perchè, insegnando a detestare l'errore, dispone l'animo de' cattolici a estendere questo sentimento agli uomini che lo professano.

A ciò si potrebbe rispondere che, non solo ogni religione, ma ogni dottrina morale, o vera o falsa, insegna a detestare gli errori contro i doveri essenziali dell'uomo, o quelli che pretende esser tali. Tutti coloro che, scindendo il Cristianesimo, fondarono delle sette separate dalla Chiesa, qual altro mezzo adoprarono, che di rappresentare come errori detestabili i suoi insegnamenti? È comune alla verità e all'errore, in tali materie, il detestare il suo contrario; e n'è la conseguenza naturale l'insegnare a detestarlo. E siccome poi l'errore non potrebbe nemmeno prendere una forma apparente, nè proporre per simbolo altro che delle negazioni, se non s'attaccasse a qualche verità; siccome, per conseguenza, ogni setta che si dice cristiana conserva qualche parte della verità cristiana; così non ce n'è alcuna che non riguardi come detestabili (e in questo caso rettamente) gli errori opposti a quel tanto di verità che conserva. Protestare, come fanno alcuni, di venerar, come sacre e rivelate da Dio, alcune verità, e di non avere altro che indifferenza per l'errore che le nega e le disprezza, è un accozzo di parole contradittorie, che contraffà una proposizione.

Ma, per giustificare la Chiesa, non è mai necessario ricorrere a degli esempi: basta esaminare le sue massime. È dottrina perpetua della Chiesa, che si devano detestare gli errori, e amare gli erranti. C'è contradizione tra questi due precetti? Non credo che alcuno voglia affermarlo. -- Ma è difficile il far distinzione tra l'errore e la persona; è difficile detestar quello, e nutrire per questa un amore non di sola apparenza, ma vero e operoso. (71) -– È difficile! ma qual è la giustizia facile all'uomo corrotto? ma donde questa difficoltà di conciliare due precetti, se sono giusti ugualmente? È cosa giusta il detestar l'errore? Sì, certo; e non c'era nemmeno bisogno di prove. È cosa giusta l'amare gli erranti? Sì, ancora; e per le ragioni stesse per cui è giusto d'amar tutti gli uomini: perchè Dio, da cui teniamo tutto, da cui speriamo tutto, Dio a cui dobbiamo tutto dirigere, gli ha amati fino a dare per essi il suo Unigenito; (72) perchè è cosa orribile il non amare quelli che Dio ha predestinati alla sua gloria; e è un giudizio della più rea e stolta temerità l'affermare d'alcun uomo vivente, che non lo sia, l'escluderne uno solo dalla speranza nelle ricchezze delle misericordie di Dio. I testimoni che stavano per scagliare le prime pietre contro Stefano, deposero le loro vesti a' piedi d'un giovinetto, il quale non si ritirò inorridito, ma, consentendo alla strage di quel giusto, rimase a custodirle. (73) Se un cristiano avesse allora accolto nel suo cuore un sentimento d'odio per quel giovinetto, di cui la tranquilla ferocia contro i seguaci del Giusto, di Quello in cui solo è la salute, (74) poteva parere un segno così manifesto di riprovazione; se avesse mormorata la maledizione che pare così giusta in bocca degli oppressi, ah! quel cristiano avrebbe maledetto il Vaso d'elezione. (75)

Donde adunque la difficoltà di conciliare questi precetti, se non dalla nostra corruttela, da cui vengono tutte le guerre tra i doveri? E questa difficoltà è appunto il trionfo della morale cattolica: poichè essa sola può vincerla; essa sola, prescrivendo con la sua piena autorità tutte le cose giuste, non lascia dubbio su alcun dovere; e, per troncare la serie di quelle false deduzioni con le quali si finisce a sacrificare un principio a un altro principio, li consacra tutti, e li mette fuori della discussione. Se, andando di ragionamento in ragionamento, s'arriva a un'ingiustizia, si può esser certi d'aver ragionato male; e l'uomo sincero è avvertito dalla religione stessa d'essere uscito di strada; perchè dove compariste il male, si trova in essa una proibizione e una minaccia. Nessun cattolico di bona fede può mai credere d'avere una giusta ragione per odiare il suo fratello: il Legislatore divino, ch'egli si vanta di seguire, sapeva certo che ci sarebbero stati degli uomini iniqui e provocatori, e degli uomini nemici della Fede; e nulladimeno gli ha detto senza fare eccezione veruna: Tu amerai il tuo prossimo come tè stesso.

È uno dei più singolari caratteri della morale cattolica, e de' più benefici effetti della sua autorità, il prevenire tutti i sofismi delle passioni con un precetto, con una dichiarazione. Così, quando si disputava per sapere se uomini di colore diverso dall'europeo dovessero essere considerati come uomini, la Chiesa, versando sulla loro fronte l'acqua rigeneratrice, aveva imposto silenzio, per quanto era in lei, a quella discussione vergognosa; li dichiarava fratelli di Gesù Cristo, e chiamati a parte della sua eredità.

Di più, la morale cattolica rimove le cagioni che rendono difficile l'adempimento di questi due doveri, odio all'errore, amore agli uomini, proscrivendo la superbia, l'attaccamento alle cose della terra, e tutto ciò che strascina a rompere la carità. E ci somministra i mezzi per essere fedeli all' uno e all'altro; e questi mezzi sono tutte quelle cose che portano la mente alla cognizione della giustizia, e il core all'amore di essa; la meditazione sui doveri, la preghiera, i sacramenti, la diffidenza di noi stessi, la confidenza in Dio. L'uomo educato sinceramente a questa scola, eleva la sua benevolenza a una sfera dove non arrivano i contrasti, gl'interessi, l'obiezioni; e questa perfezione riceve anche nel tempo una gran ricompensa. A tutte le vittorie morali succede una calma consolatrice; e amare in Dio quelli che si odierebbero secondo il mondo, è, nell'anima umana, nata ad amare, un sentimento d'inesprimibile giocondità.

Ci fu però uno scrittore, e non di poca fama certamente, il quale pretese che il conciliare la guerra all'errore e la pace con gli uomini sia una cosa non difficile, ma impossibile. La distinction entre la tolérance civile et la tolérance théologique est puérile et vaine. Ces deux tolérances sont inséparables, et l'on ne peut admettre l'une sans l'autre. Des anges même ne vivroient pas en paix avec des hommes qu'ils regarderoient comme les ennemis de Dieu. (76)

Quali conseguenze da una tale dottrina! I primi cristiani non dovevano dunque credere che adorare gli idoli e sconoscer Dio rendesse l'uomo nemico a Lui. Hanno dunque fatto male a combattere il gentilesimo; perchè è un'impresa almeno imprudente e pazza il predicare contro una religione che non rende nemici di Dio quelli che la professano. E quando san Paolo, per accrescere la riconoscenza e la fiducia de' fedeli, rammentava la misericordia usata loro da Dio, nel tempo ch'erano suoi nemici, (77) proponeva loro un'idea falsa e antisociale.

Vivere in pace con degli uomini che si hanno per nemici di Dio, non sarà possibile a quelli che credono che Dio stesso glielo comanda? a quelli che non sanno se siano essi medesimi degni d'amore o d'odio, (78) a che sanno di certo che diverrebbero nemici di Dio essi medesimi, rompendo la pace? a quelli i quali pensano che un giorno si chiederebbe loro se la fede gli era stata data per dispensarli dalla carità, e con che diritto aspettano la misericordia, se, per quanto era in loro, l'hanno negata agli altri? a quelli che devono riconoscere nella fede un dono, e tremare dell'uso che ne fanno?

Queste e altre ragioni si sarebbero potute addurre a chi avesse fatta una tale obiezione al cristianesimo, quando apparve; ma, ai tempi del Rousseau, essa riesce stranissima, poichè impugna la possibilità d'un fatto di cui la storia del cristianesimo è una lunga e non interrotta testimonianza.

Quello che ne diede il primo esempio era, certo, al di sopra degli angeli; ma era anche un uomo; ma, ne' disegni della sua misericordia, volle che la sua condotta fosse un modello che ognuno de' suoi seguaci potesse imitare; e pregò morendo per i suoi uccisori. Quella generazione durava ancora, quando Stefano entrò il primo nella carriera di sangue che l'Uomo.Dio aveva aperta. Stefano che, con sapienza divina, cerca d'illuminare i giudici e il popolo, e di richiamarli a un pentimento salutare; quando poi è oppresso, quando sta per compirsi sulla terra l'atto, sanguinoso della sua testimonianza, dopo aver raccomandato il suo spirito al Signore, non pensa a quelli che l'uccidono, se non per dire: Signore, non imputar loro questa cosa a peccato. E detto questo, s'addormentò nel Signore. (79)

Tale fu, per tutti que' secoli in cui gli uomini persistettero nella così cieca perversità di venerare gli idoli fatti da loro, e di far morire i giusti, tale fu sempre la condotta de' cristiani: la pace orribile del gentilesimo non fu mai disturbata nemmeno da' loro gemiti. Cosa si può fare di più per conservarla con gli uomini, che amarli e morire? convien dire che questa dottrina sia ben concorde con sè stessa, e ben chiara agl'intelletti cristiani, poichè i fanciulli stessi la trovavano intelligibile: fedeli agli ammaestramenti delle madri, sorridevano ai carnefici; quelli che sorgevano imitavano quelli ch'erano caduti prima di loro; primizie de' santi, fiori rinascenti sotto la falce del mietitore.

Ma la storia del cristianesimo non ha forse esempi d'odî e di guerre? Ne ha pur troppo; ma bisogna chieder conto a una dottrina delle conseguenze legittime che si cavano da essa, e non di quelle che le passioni ne possono dedurre. Questo principio, vero in tutti i tempi, si può ai nostri giorni allegarlo con maggior fiducia d'essere ascoltati, dacchè molti di quelli che lo contrastavano alla religione sono stati costretti a invocarlo per altre dottrine. La memorabile epoca storica nella quale ci troviamo ancora, si distingue per il ritrovamento, per la diffusione e per la ricapitolazione d'alcuni principi politici, e per gli sforzi fatti affine di metterli in esecuzione; da ciò sono venuti dei mali gravissimi; i nemici di que princìpi pretendono che i princìpi ne siano stati la cagione, e che siano, per conseguenza, da rigettarsi. A questo i loro sostenitori vanno rispondendo che è cosa assurda e ingiusta proscrivere le verità, per l'abuso che gli uomini ne hanno potuto fare; che, lasciando di promulgarle e di stabilirle, non si leveranno però dal mondo le passioni; che, mantenendo gli uomini in errori, si lascia viva una cagione ben più certa e diretta di calamità e d'ingiustizie; che gli uomini non diventano migliori, nè più umani, con l'avere opinioni false. La Saint-Barthélemy n'a pas fait proscrire le catholicisme, ha detto a questo proposito un celebrato ingegno; (80) e certo nessuna conseguenza sarebbe stata più stolta e ingiusta. La memoria di quell'atrocissima notte dovrebbe servire a far proscrivere l'ambizione e lo spirito fazioso, l'abuso del potere e l'insubordinazione alle leggi, l'orribile e stolta politica che insegna a violare a ogni passo la giustizia per ottenere qualche vantaggio, e quando poi queste violazioni accumulate abbiano condotto un gravissimo pericolo, insegna che tutto è lecito per salvar tutto; a far proscrivere l'insidie e le frodi, le provocazioni e i rancori, l'avidità della potenza che fa tutto tramare e tutto osare, e l'ingiusto amore della vita che fa sorpassare ogni legge per conservarla; perchè queste e altre simili furono le vere cagioni della strage; per cui quella notte è infame.

Quando, all'opposto, ci trovano nella storia esempi d'influenza benefica e misericordiosa della dottrina cattolica, non c'è bisogno di ricercare come mai, per quali giri di ragionamenti, per quali singolari disposizioni degli animi, i suoi seguaci siano arrivati a trovare in essa tali consigli, a riceverne tali impulsi. È evidentemente una causa che produce il suo effetto proprio. In tempi di violente provocazioni e di feroci vendette, s'alza una voce a proclamare la tregua di Dio: è la voce del Vangelo; e sona per la bocca de' vescovi e de' preti. Sant'Ambrogio spezza e vende i vasi sacri per riscattare gli schiavi illirici, la più parte Ariani: san Martino di Tours intercede per i Priscillianisti presso Massimo imperatore in una parte dell'occidente; e considera come scomunicato Itacio e gli altri vescovi che l'avevano mosso a infierire contro di quelli: sant'Agostino supplica il proconsole d'Africa per i Donatisti, dai quali ognuno sa che travaglio avesse la Chiesa. Non avere a sdegno, dice, che imploriamo da te la vita di quelli, de' quali imploriamo da Dio il ravvedimento. (81) E lasciando stare tanti altri fatti simili, di cui abbonda la storia ecclesiastica di tutti i tempi, giova rammentarne uno tra i meno antichi, anche perchè è stato tentato (e pur troppo, non senza effetto presso di molti), non solo di rapirne la gloria alla Chiesa, ma di cambiarla in ignominia: ed è la condotta del clero cattolico in America. L'ira contro ogni resistenza, l'avarizia resa incontentabile dalle promesse di fantasie riscaldate, il timore che nasce anche negli animi più determinati e li rende crudeli, quando non sono fortificati dall'idea d'un dovere, e quando gli offesi sono molti, tutte in somma le passioni più inesorabili della conquista, avevano snaturati affatto gli animi degli Spagnoli; e gli Americani non ebbero quasi altri avvocati che gli ecclesiastici; e questi non ebbero altri argomenti in favor loro che quelli del Vangelo e della Chiesa. Citiamo qui il giudizio del Robertson, giudizio importantissimo, e per l'imparzialità certa dello storico, e per la quantità e l'accuratezza delle ricerche sulle quali è fondato.

« Con ingiustizia ancor maggiore è stato da molti autori rappresentato l'intollerante spirito della Romana Cattolica Religione come la cagione dell'esterminio degli Americani, ed hanno accusati gli ecclesiastici spagnoli d'aver animati i loro compatriotti alla strage di quell'innocente popolo come idolatra ed inimico di Dio. Ma i primi missionari che visitarono l'America, benchè deboli ed ignoranti, erano uomini pii. Essi presero di buon'ora la difesa dei nazionali, e li giustificarono dalle calunnie dei vincitori, i quali descrivendoli come incapaci d'essere istruiti negli uffici della vita civile, e di comprendere le dottrine della Religione, sostenevano esser quelli una razza subordinata d'uomini, e sopra cui la mano della natura aveva posto il segno della schiavitù. Dalle relazioni che ho già date dell'umano e perseverante zelo dei missionari spagnoli nel proteggere l'inerme greggia a loro commessa, eglino compariscono in una luce che aggiunge lustro alla loro funzione. Eran ministri di pace che procuravano di strappare la verga dalle mani degli oppressori. Alla potente loro interposizione doverono gli Americani ogni regolamento diretto a mitigare il rigore del loro destino. Negli stabilimenti spagnoli il clero sì regolare che secolare è ancor dagli Indiani considerato come il suo natural protettore, a cui ricorrono nei travagli e nelle esazioni, alle quali troppo frequentemente sono essi esposti. » (82)

Qual è questa religione, in cui i deboli, quando sono pii, resistono alla forza in favore de' loro fratelli! in cui gli ignoranti svelano i sofismi che le passioni oppongono alla giustizia! In una spedizione, dove non si parlava che di conquiste e d'oro, quelli non parlavano che di pietà e di doveri; citavano al tribunale di Dio i vincitori, dichiaravano empia e irreligiosa l'oppressione. Il mondo, con tutte le sue passioni, aveva mandato agl'indiani de' nemici che essi non avevano offesi; la religione mandava loro degli amici che non avevano mai conosciuti. Questi furono odiati e perseguitati; furono costretti qualche volta a nascondersi; ma almeno raddolcirono la sorte de vinti; ma, co' loro sforzi e coi loro patimenti, prepararono alla religione un testimonio, che essa non è stata nemmeno un pretesto di crudeltà; che queste furono commesse malgrado le sue proteste. Ah! gli avari crudeli avrebbero voluto passare per zelanti, ma i ministri della religione non gli hanno permesso di mettersi al viso questa maschera; gli hanno costretti a cercare i loro sofismi in ogni altro principio, che in quello della religione; gli hanno costretti a ricorrere alle ragioni di convenienza, d'utilità politica, d'impossibilità di stare esattamente alla legge divina; gli hanno costretti a parlare de' gran mali che sarebbero venuti, se gli uomini fossero stati giusti, a dire ch'era necessario opprimer gli uomini crudelmente, perchè altrimenti diveniva impossibile l'opprimerli.

Un solo ecclesiastico disonorò il suo ministero, eccitando i suoi concittadini al sangue; e fu il troppo noto Valverde. Ma, esaminando la sua condotta, come è descritta dal Robertson, si vede chiaro al mio parere, che costui era mosso da tutt'altro che dal fanatismo religioso. Pizarro aveva formato il perfido disegno d'impadronirsi dell'Inca Atahualpa, per dominare nel Perù, e per saziarsi d'oro. Adescato con pretesti di amicizia l'Inca a un abboccamento, questo si risolvette in un'allocuzione del Valverde, nella quale i misteri e la storia della santa e pura religione di Cristo non erano esposti che per venire all'assurda conseguenza, che l'Inca doveva sottomettersi al re di Castiglia, come a suo legittimo sovrano. La risposta e il contegno di Atahualpa servirono di pretesto al Valverde per chiamare gli Spagnoli contro i Peruviani. « Il Pizarro » cito ancora il Robertson, « che nel corso di questa lunga conferenza aveva con difficoltà trattenuti i soldati impazienti d'impadronirsi delle ricche spoglie ch'essi vedevano allora sì da vicino, diede il segno all'assalto. » Il Pizarro stesso, ch'era venuto a quel fine, fece prigioniero l'Inca; il quale poi, con un processo atrocemente stolto, fu condannato a morte; e il Valverde commise anche il delitto d'autorizzare la sentenza con la sua firma. Ora, chi non vede che a degli uomini deliberati a un'azione ingiusta, a degli uomini forti contro uomini ricchi, ogni pretesto era bono? che il Valverde stesso fu istrumento orribile, ma non motore dell'ingiustizia? che la sua condotta svela piuttosto la bassa connivenza all'ambizione e all'avarizia di Pizarro, che il fanatismo religioso? Il solo bon senso fa vedere che non è nella natura, dell'uomo, per quanto sia fanatico, il concepire un odio violento contro degli uomini che non professano il cristianesimo, perchè l'ignorano. Di fatti, se la disposizione degli ecclesiastici spagnoli era tale che dalla religione dovessero ricevere impulsi di questa sorte, perché tutti gli altri parlarono e operarono non solo diversamente, ma all'opposto? E se la condotta del Valverde era conforme al modo di sentire de' suoi concittadini in fatto di religione, perchè è stata censurata da tutti i loro storici, come osserva il Robertson?

Del resto, la religione oltraggiata dal Valverde è stata ben vendicata, non solo da quasi tutti gli ecclasiastici delle diverso spedizioni, ma anche da quelle migliaia di missionari che, portando la fede ai selvaggi e agl'infedeli d'ogni sorte, ci andarono e ci vanno senza soldati, senz'armi, come agnelli tra i lupi, (83) e col core diviso tra due sole passioni, quella di condurre molti alla salute, e quella del martirio.

Se il rappresentare l'intolleranza persecutrice come una conseguenza dello spirito del cristianesimo, è una calunnia smentita dalla dottrina della Chiesa, è una singolare ingiustizia il rappresentarla come un vizio particolare ai cristiani. Erano le verità cristiane che rendevano intolleranti gli imperatori gentili? Sano esse che hanno creata quella crudeltà senza contrasto e senza rimorso, che sparse il sangue di tanti milioni, non dirò di innocenti, ma d'uomini che portavano la virtù al più alto grado di perfezione? Sono esse che hanno scatenato il mondo contro quelli di cui il mondo non era degno? (84)

Sul principio del secondo secolo, un vecchio fu condotto in Antiochia davanti l'imperatore. Questo, dopo avergli fatte alcune interrogazioni, l'interpellò finalmente se persisteva a dichiarare di portar Gesù Cristo in core. Al che avendo il vecchio risposto di sì, l'imperatore comandò che fosse legato e condotto a Roma, per essere dato vivo alle fiere. Il vecchio fu caricato di catene; e, dopo un lungo tragitto, arrivato in Roma, fu condotto all'anfiteatro, dove fu sbranato e divorato, per divertimento del popolo romano. (85)

Il vecchio era sant'Ignazio, vescovo d'Antiochia. Discepolo degli Apostoli, la sua vita era stata degna d'una tale scola. Il coraggio che mostrò al sentire la sua sentenza, l'accompagnò per tutta la strada del supplizio; e fu un coraggio sempre tranquillo, e come uno di que' sentimenti ultimi che vengono dalla più ponderata e ferma deliberazione, in cui ogni ostacolo è stato preveduto e pesato. Al sentire il ruggito delle fiere, si rallegrò: il supplizio, quella morte senza combattimento e senza incertezza, la presenza della quale è una rivelazione di terrore per gli animi i più preparati, che dico? un tal supplizio non aveva nulla d'inaspettato per lui: tanto lo Spirito Santo aveva rinforzato quel core, tanto egli amava! L'imperatore era Traiano.

Ah! quando alla memoria d'un cristiano si può rimproverare che, per uno zelo ingiusto e erroneo, abbia usurpato il diritto sulla vita altrui, sia pure stato, in tutto il resto, pio, irreprensibile, operoso nel bene; a ogni sua virtù si contrappone il sangue ingiustamente sparso: una vita intera di meriti non basta a coprire una violenza. E perchè nel giudizio tanto favorevole di Traiano non si conta il sangue d'Ignazio e de' tanti altri innocenti, che pesa sopra di lui? perchè si propone come un esemplare? perchè si mantiene a' suoi tempi quella lode che dava loro Tacito, che in essi fosse lecito sentire ciò che si voleva, e dire ciò che si sentiva? (86) Perchè noi riceviamo per lo più l'opinione fatta dagli altri; e i gentili, che stabilirono quella di Traiano, non credevano che spargere il sangue cristiano togliesse nulla all'umanità e alla giustizia d'un principe. È la religione che ci ha resi difficili a concedere il titolo d'umano e di giusto; è essa che ci ha rivelato che nel dolore d'un'anima immortale c'è qualche cosa d'ineffabile; è essa che ci ha istruiti a riconoscere e a rispettare in ogni uomo l'immagine di Dio, e il prezzo della Redenzione. Quando si ricordano gli uomini condannati alle fiamme col pretesto della religione, se alcuno, per attenuare l'atrocità di que' giudizi, allega che i giudici erano fanatici, il mondo risponde che non si deve esserlo; se alcuno allega ch'erano ingannati, il mondo risponde che non bisogna ingannarsi quando si pretende disporre della vita d'un uomo; se alcuno allega che credevano di rendere omaggio alla religione, il mondo risponde che una tale opinione è una bestemmia. Ah! chi ha insegnato al mondo, che Dio non s'onora che con la mansuetudine e con l'amore, col dar la vita per gli altri e non col levargliela, che la volontà libera dell'uomo è la sola di cui Dio si degna ricevere gli omaggi?

Per spiegare le persecuzioni contro i cristiani, si sarebbe quasi indotti a supporre che il rispetto alla vita dell'uomo fosse ignoto ai gentili, che sia un altro mistero rivelato dal Vangelo. In quelle si vedono crudeltà incredibili commesse senza un forte impulso; si vedono principi senza fanatismo secondare il trasporto del popolo per i supplizi, non per timore, non per ira, ma direi quasi per indifferenza; perchè la morte crudele di migliaia d'uomini non era forse un oggetto che meritasse un lungo esame. Non si fa torto a supporre quest'animo a quelli che facevano scannare migliaia di schiavi per una festa.

La famosa lettera di Plinio a Traiano, e la risposta di questo, sono un esempio notabile d'un tale spirito del gentilesimo. Plinio, legato propretore in Bitinia, consulta l'imperatore sulla causa de' cristiani, espone la sua condotta antecedente, parla d'una lettera cieca, per mezzo della quale n'ha scoperti alcuni, e chiede istruzioni. L'imperatore approva la condotta del legato, proibisce di far ricerca de' cristiani, e prescrive di punirli se sono denunziati e convinti; a quelli che neghino d'esserlo, e diano di ciò la prova di fatto, adorando gli dei, vuole che si perdoni, in grazia del pentimento. Finalmente ordina che, delle accuse anonime, non si faccia caso per nessun delitto; essendo, dice, cosa di pessimo esempio, e indegna del nostro secolo. (87) Ma, in fatto di barbarie, qual cosa mai poteva esser indegna d'un secolo in cui un magistrato, celebre per coltura d'ingegno e per dolcezza di carattere, domanda per sua regola, se è il nome solo di cristiano che s'abbia a punire, quantunque senza alcun delitto, o i delitti che porta con sè questo nome; se si deva far distinzione d'età, o trattare ugualmente i fanciulli, per quanto teneri siano, e gli adulti? d'un secolo in cui quest'uomo racconta d'aver fatti condurre al supplizio quelli che, denunziati a lui come cristiani, erano stati duri per tre volte nel confessarsi tali; non dubitando, dice, che, qualunque fosse la cosa che confessavano, la loro inflessibile ostinazione dovesse esser punita? E raccontando poi che altri, i quali dissero d'essere stati cristiani, ma di non esserlo più, e maledissero il Cristo, e adorarono l'immagine dell'imperatore e i simulacri degli dei, affermavano però, che, col professar quella fede, non s'erano impegnati a veruna cosa iniqua, ma, anzi, a non commetter mai nè furti, nè latrocini, nè adultèri, a non mancar di fede, a non negare il deposito; non lascia vedere la più piccola inquietudine per quegli ostinati che aveva fatti morire? (88) Qual cosa poteva essere indegna d'un secolo in cui un principe più celebre ancora, e celebre per sapienza e per mansuetudine, non trova che dire a de' giudizi di questa sorte? e senza farsi carico de' dubbi del magistrato, e riguardo all'età degli accusati, e intorno a ciò che costituisca il delitto, gli rimanda per unica spiegazione la parola Cristiani; e proibisce che se ne faccia ricerca, prescrivendo insieme, che, scoperti, si puniscano, qualunque poi sia per essere la pena? E s'è visto qual'era quella che il magistrato ordinava. Ma che dico? d'un secolo, in cui un vecchio divorato dalle fiere era un passatempo per il popolo, e un tal principe dava al popolo un tal passatempo?

Pur troppo i secoli cristiani hanno esempi di crudeltà commesse col pretesto della religione; ma si può sempre asserire che quelli i quali le hanno commesse, furono infedeli alla legge che professavano; che questa li condanna. Nelle persecuzioni gentilesche, nulla può essere attribuito a inconseguenza de' persecutori, a infedeltà alla loro religione, perchè questa non aveva fatto nulla per tenerli lontani da ciò.

Con questa discussione parrà forse che ci siamo allontanati dall'argomento; ma essa non sarà affatto inutile, se potrà dare occasione d'osservare che molti scrittori hanno adoprato due pesi e due misure per giudicare de' cristiani e de' gentili; se potrà servire a rimovere sempre più dalla morale cattolica l'orribile taccia di sangue, che tante volte le è stata data, a rammentare che la violenza esercitata in difesa di questa religione di pace e di misericordia è affatto avversa al suo spirito, come è stato professato senza interruzione in tutti i secoli dai veri adoratori di Colui che con tanta autorità gridò ai discepoli che invocavano il foco del cielo sulle città che ricusavano di ricevere la loro salute, (89) di Colui che comandò agli Apostoli di scotere la polvere de' loro piedi, (90) e d'abbandonare gli ostinati. Onore a quegli uomini veramente cristiani che, in ogni tempo, e in faccia a ogni passione e a ogni potenza, predicarono la mansuetudine; da quel Lattanzio che scrisse doversi la religione difendere col morire, e non con l'uccidere, (91) fino agli ultimi che si sono trovati in circostanze in cui ci volesse coraggio per manifestare un sentimento così essenzialmente evangelico. Onore a essi, giacchè noi non possiamo più averne onore, in tempi e in luoghi in cui non si può sostenere il contrario senza infamia; in cui, se gli uomini non hanno (così avessero!) rinunziato agli odî, hanno almeno saputo vedere che la religione non può accordarsi con quelli; se ammettono troppo spesso il pretesto dell'utile e delle gran passioni per bona scusa di vessazioni e di crudeltà, confessano che la religione è troppo pura per ammetterlo, che la religione non vuol condurre gli uomini al bene se non per mezzo del bene.




CAPITOLO VIII

SULLA DOTTRINA DELLA PENITENZA

La doctrine de la pénitence causa une nouvelle subversion dans la morale déjà confondue par la distinction arbitraire des pêchés. Sans doute c'était une promesse consolante que celle du pardon du ciel pour le retour à la vertu; et cette opinion est tellement conforme aux besoins et aux foiblesses de l'homme, qu'elle a fait partie de toutes les religions. Mais les casuistes avoient dénaturé cette doctrine et imposant des formes précises à la pénitence, à la confession et à l'absolution. Un seul acte de foi et de ferveur fut déclaré suffisant pour effacer une longue liste de crimes. Pag. 415.

Non avendo l'erudizione necessaria per discutere l'asserzione dell'illustre autore, che la promessa del perdono celeste per il ritorno alla virtù è un'opinione comune a tutte le religioni, la lascio da una parte. Da quel poco che ho raccolto ne' libri, sulle varie religioni e sulla pagana in ispecie, m'è rimasta l'idea che alcune avessero delle cerimonie, per mezzo delle quali si potessero espiare le colpe, senza che ci abbisognasse il ritorno alla virtù; e che l'idea della conversione si deva, non meno che la parola, alla religione cristiana. A ogni modo una tale questione, quantunque importante, non ha una relazione necessaria con l'argomento; e si può, senza toccarla, difendere pienissimamente la dottrina cattolica sulla penitenza dalle censure che qui le vengono fatte: anzi queste saranno un'occasione per mettere in chiaro la sua somma ragionevolezza e perfezione.

Tre sono principalmente queste accuse: che l'avere imposte forme precise alla penitenza ne abbia snaturata la dottrina; che i casisti abbiano imposte queste forme; che un atto di fede e di fervore sia stato dichiarato bastante a cancellare i delitti. Noi le esamineremo partitamente, non seguendo però l'ordine con cui sono presentate, ma quello che ci pare più adattato all'intento d'esporre la vera dottrina della Chiesa su questo punto.



I

Chi abbia imposte forme precise alla penitenza.

Dall'essere nel Vangelo espressamente data ai ministri l'autorità di rimettere e di ritenere i peccati, ne segue la necessità di forme per esercitarla; ma chi ha potuto imporre queste forme? Se i casisti si fossero arrogato un tale diritto, avrebbero alterata tutta l'economia del governo spirituale; ma come si può supporre che i casisti, i quali non costituiscono un corpo, e non hanno alcun mezzo di deliberare in comune, si siano intesi a stabilire queste forme con gli stessi princìpi, e in una stessa maniera? Come si può supporre che tutte le chiese le abbiano ricevute da persone senza autorità, che le autorità stesse ci si siano assoggettate, di maniera che nessuna se ne crede esente? che i papi stessi si siano lasciati imporre da loro una legge, per la quale si confessano a' piedi d'un loro inferiore, e ne implorano l'assoluzione, e ne ricevono le penitenze? Oltre di che, come mai si può supporre che i Greci, pur troppo divisi, e divisi qualche secolo prima che si parlasse di casisti, abbiano poi accettate da questi le forme della penitenza, che hanno comuni con noi in tutte le partì essenziali? In che tempo i casisti hanno commesso quest'atto d'usurpazione? Finalmente, come s'esercitava l'autorità di sciogliere e di legare prima che venissero i casisti a inventarne le forme? Le forme della penitenza, della confessione e dell'assoluzione sono state imposte dalla Chiesa fino dalla sua origine, come lo attesta la sua storia: nè poteva essere altrimenti; giacchè senza di esse è impossibile l'esercizio dell'autorità d'assolvere e di ritenere i peccati; ed è impossibile immaginarne di più semplici e di più conformi allo spirito di quest'autorità; come è impossibile immaginare chi, se non la Chiesa, avrebbe potuto ingerirsi a regolare un tale esercizio.



II

Condizioni della penitenza secondo la dottrina cattolica.

Veniamo ora alla dottrina che è tacciata d'aver corrotta la morale; e vediamo se è quella della Chiesa. Un solo alto di fede e di fervore fu dichiarato bastante a cancellare una lunga lista di delitti. Di questa opinione, una parte è stata condannata; l'altra parte, nè la proposizione intera, non è stata insegnata mai.

In quanto alla prima, basti per ora ricordare che il concilio di Trento proscrisse la dottrina che l'empio sia giustificato con la sola fede, e la chiamò vana fiducia e aliena da ogni pietà. (92)

In quanto alla proposizione intera, non solo nessun concilio, nessun decreto pontificio, nessun catechismo, ma, ardirei dire, nessun libricciolo di devozione ha detto mai che un atto di fede e di fervore basti a cancellare i peccati. È bensì dottrina della Chiesa che possono esser cancellati dalla contrizione, col proposito di ricorrere, appena si possa, alla penitenza sacramentale.

Chi credesse che questa sia una questione di parole s'ingannerebbe di molto: è questione d'idee quanto nessun'altra.

Fervore non significa altro che intensità e forza d'un sentimento: suppone bensì per l'ordinario un sentimento pio, ma non ne individua la qualità; contrizione in vece esprime un sentimento preciso. Attribuire quindi al fervore l'effetto di cancellare i peccati, sarebbe proporre un'idea confusa e indeterminata, e che non ha una relazione immediata con quest'effetto; attribuirlo alla contrizione, è specificare quel sentimento che, secondo le Scritture e le nozioni della ragione illuminata da esse, dispone l'animo del peccatore a ricevere la giustificazione. Per avere dunque un'idea giusta della fede cattolica in questa materia, bisogna cercare cosa sia la contrizione, e cercarlo nelle definizioni della Chiesa. « La contrizione è un dolore dell'animo, e una detestazione del peccato commesso, col proponimento di non peccar più.... Dichiara il Santo Sinodo che questa contrizione contiene, non solo la cessazione dal peccato, e il proponimento e il principio d'una vita nova, ma l'odio della passata.... Insegna inoltre che, quantunque avvenga qualche volta, che questa contrizione sia perfetta di carità, e riconcilii l'uomo a Dio, prima che questo e sacramento (della penitenza) sia ricevuto in fatto, non si deve attribuire la riconciliazione alla contrizione, senza il voto del sacramento, che è inchiuso in essa. » (93)

La ragione sola non poteva certamente trovare questa dottrina, perchè il suo fondamento è nella carità, la quale è fondata essa medesima in quella più elevata e più pura cognizione di Dio, e delle relazioni dell'uomo con Dio, che non poteva venirci se non dalla rivelazione. Ma quando questa dottrina le sia annunziata, la ragione è costretta, o ad approvarla, o a rinnegare le sue proprie e più evidenti nozioni. L'uomo che trasgredisce i comandamenti di Dio, gli diviene nemico, e si rende ingiusto. Ma quando riconosce i suoi falli, ne è dolente, li detesta e, ciò che viene di conseguenza, propone di non commetterne più; quando propone di ritornare a Dio, per que' mezzi che, nella sua misericordia, Dio ha instituiti a ciò; quando propone di soddisfare alla giustizia divina, di rimediare, per quanto può, al mal fatto, allora non è più, per dir così, lo stesso uomo, non è più ingiusto; tanto è vero che, non solo del peccato in generale, ma de suoi propri in particolare, ha un sentimento dello stesso genere che ne ha Dio, fonte d'ogni giustizia. È dunque sommamente ragionevole che quest'uomo così mutato sia riconciliato a Dio.

Ma la conseguenza immorale di questa dottrina, è stato detto tante volte, è che molti credono che sia facile l'avere questo sentimento di contrizione, e s'incoraggiscono a commettere il male, per la facilità del perdono. Perchè lo credono? Chi gliel ha detto? Se credono alla Chiesa quando insegna che la contrizione riconcilia a Dio, Perchè non le credono quando insegna che l'effetto naturale del peccato è l'indurimento del core, che il ritorno a Dio è un dono singolare della sua misericordia, che il disprezzo delle sue chiamate lo rende sempre più difficile? Se, a ogni conseguenza storta che gli uomini deducono dalle dottrine della Chiesa, essa avesse voluto abbandonare una verità, per evitare un tale abuso, la Chiesa le avrebbe da gran tempo abbandonate tutte. Essa s'oppone bensì a questo miserabile traviamento, con l'inculcarle tutte; e in questo caso singolarmente, chi può non riconoscere la sua cura materna nelle precauzioni che usa affinchè il peccatore non inganni sè medesimo, e non cambi in ira i doni della misericordia?

Di queste precauzioni parleremo or ora, trattando dell'amministrazione della penitenza. Ci si permetta intanto d'osservar qui un esempio dell'instabilità, anzi della contradizione che si trova non di rado nell'accuse fatte alla dottrina della Chiesa. Ciò potrà servire, del resto, a provare in un'altra maniera la verità di quella di cui si tratta.

Quelli tra i novatori del secolo XVI, ch'ebbero più seguito, combatterono appunto, quasi dal principio, la dottrina cattolica della penitenza, e soprattutto la parte che la contrizione deva avere in questa. E con quali argomenti? Forse come una dottrina che lusingasse le passioni, che offrisse al vizioso un mezzo tanto illusorio in effetto, quanto facile in apparenza, di cancellare una lunga lista di delitti? Tutt'altro, anzi l'opposto. La combatterono come dura, come tirannica, come tale che imponesse arbitrariamente alle coscienze una legge impossibile a adempirsi. È un'ingiuria al Sacramentoi e un istrumento di disperazione, il non credere efficace l'assoluzione, se non è certa la contrizione, disse Lutero nelle sue tesi Per la ricerca della verità e per consolare le coscienze aggravate. (94) Calvino accusò ugualmente la dottrina cattolica che richiede la contrizione per la remissione de peccati, di tormentare e d'agitare stranamente le coscienze, di ridurle a dibattersi con sè stesse, e ad affannarsi in lunghi contrasti, senza trovar mai un porto, dove finalmente posarsi. (95)

E quale dottrina vollero poi sostituire alla cattolica, così riprovata da loro? Quella appunto che abbiam visto essere, così a torto, attribuita ai cattolici, e che i cattolici non conoscono, se non per la condanna della Chiesa, cioè che il peccatore sia giustificato per la sola fede.

E si noti che, attribuendo alla fede l'efficacia, non solo sufficiente, ma unica e esclusiva, di cancellare i peccati, intendevano per fede il credere ognuno; con intera sicurezza, che i suoi peccati gli siano rimessi, in virtù della promessa del Redentore. Ecco alcuna delle proposizioni di Lutero su questo proposito. È certo che i peccati ti sono rimessi, se li credi rimessi; perchè è certa la promessa di Cristo Salvatore. (96) -– Vedi quanto sia ricco l'uomo cristiano o battezzato, che, anche volendo, non può perdere la sua salvezza, con quanti peccati si sia, solo che non voglia lasciar di credere; poichè nessun peccato lo può dannare, se non la sola incredulità. (97) -– Secondo l'ordine istituito da Cristo, non c'è altro peccato che l'incredulità, nè altra giustizia che la fede. (98) -– La sola fede in Cristo c'è necessaria per esser giusti. (99) -– Calvino affermò ugualmente, e sostenne che l'uomo è giustificato per la sola fede, intesa nella stessa maniera, (100) cercando poi d'eludere alcune delle conseguenze naturali d'una tale dottrina.

E su cosa si fondava poi l'accusa che facevano alla dottrina cattolica', d'imporre alla penitenza una condizione impossibile? Unicamente sulla, autorità di questo loro domma medesimo, cioè sulla supposizione, che, per ottenere la remissione de peccati sia necessario il credere, con certezza di fede, che siano rimessi; e che sia, per conseguenza, necessario il credere, con uguale certezza, d'avere adempita la condizione richiesta. E non c'è dubbio che, posta una legge simile, la condizione voluta dalla dottrina cattolica sarebbe, in regola generale, impossibile a adempirsi; giacchè qual uomo, senza una particolare rivelazione, senza che l'infallibile Conoscitore de' nascondigli del core (101) gli abbia detto: Tu hai amato molto, e perciò, ti sono rimessi i tuoi peccati, (102) qual uomo può conoscere, con certezza assoluta e di fede, d'avere una contrizione adequata delle sue colpe? Senonché, con una legge simile, non la sola contrizione, ma qualunque condizione sarebbe impossibile; giacché qual uomo può conoscere, con certezza assoluta e di fede, la perfezione e, dirò così, l'adequatezza d'un suo sentimento qualunque? E quindi impossibile anche la condizione predicata dai due novatori, come unica e sufficiente, cioè la fede. Ho qui il vantaggio di potermi servire di parole del Bossuet: Mais, répond-il (Luther), le Fidèle peut dire, je crois, et par là sa foi lui devient sensible; Comme si le même Fidèle ne disoit pas de la même sorte, je me repens, et qu'il n'eût pas le même moyen de s'assurer de sa repentance. Que si l'on répond en fin que le doute lui reste toujours s'il se repent comme il faut, j'en dis autantt de la foi; et tout aboutit à conclure que le pécheur se tient assuré de sa justification, sans pouvoir être assuré d'avoir accompli, comme il faut, la condition que Dieu exigeoit de lui pour l'obtenir. (103) E non si prenda questo per un semplice argomento ad hominem, col quale si possa bensì render comune la difficoltà all'avversario, ma senza levarla da sè. La difficoltà cade tutta quanta sulla dottrina che vuol imporre quella legge; non tocca appunto la dottrina cattolica, la quale non l'ha mai nè immaginata, nè accettata; e secondo la quale, il fedele, applicando la fede al suo oggetto proprio, e escludendola da ciò che non lo è, né lo può essere, crede la remissione de' peccati, e, pentito, spera d'averla ottenuta per i meriti del Redentore.

E di qui chiunque rifletta è condotto a vedere che in questa dottrina sola può trovare il suo luogo la speranza; essendo una, cosa d'immediata evidenza, che la certezza l'esclude, e che non si può, senza la più aperta contradizione, applicar l'una e l'altra a un fatto medesimo. La quale abolizione virtuale della speranza è più manifesta nella dottrina di Calvino, il quale, o estendendo, o applicando più logicamente quel novo domma (il che non occorre qui di ricercare), pronunziò che, non solo della sua attuale giustificazíone, ma della sua perseveranza finale, e della sua eterna salute, deva il fedele avere un'assoluta certezza. Una bella fiducia, dice, ci rimane della nostra salvezza, se, in quanto al presente, non abbiamo che una congettura morale d'essere in grazia, e non sappiamo ciò che potrà essere nel futuro. (104) E più espressamente ancora in un altro luogo: In conclusione, non è veramente fedele, se non chi... affidato alle promesse della divina benevolenza verso di lui, aspetta anticipatamente, con piena certezza, la sua eterna salute. (105) E dovendo però ritenere la parola « speranza, » tanto solenne e tanto ripetuta nelle Scritture, non lo potè fare, se non levandole il suo significato essenziale, e cambiandolo in una contradizione. La speranza, disse, non è, in conclusione, altro che l'aspettativa di ciò che la fede ha creduto esser veramente promesso da Dio. (106) Ma l'intimo senso, e il senso comune replicano, a una voce, che l'aspettativa d'un bene che uno avesse la certezza assoluta di possedere, sarebbe desiderio; non sarebbe speranza. Ogn'uomo, infatti, senza eccezione, conosce per propria esperienza e, se ce ne fosse bisogno, per un consenso non mai contradetto, uno stato dell'animo, relativo a un bene desiderato e, più o meno, probabile, che è, quanto dire, non certo. Ed è appunto questo stato dell'animo, che è significato dal vocabolo « speranza »; vocabolo che ha, senza dubbio, un equivalente in tutti i linguaggi; giacchè, come supporre una società d'uomini, nella quale non si senta il bisogno di significare uno stato dell'animo così universale, così frequente, così inevitabile? Quanto non sarebbe assurdo il dire: Credo, con certezza di fede, che possederò la vita eterna, e spero d'ottenerla! Eppure sarebbe la vera e unica maniera d'esprimere in atto la speranza cristiana, secondo quella dottrina. E sarebbe assurdo nè più nè meno il dire: Credo, con certezza di fede, la resurrezione de' morti, e spero che i morti risorgeranno. Applicare la certezza a una proinessa condizionata, e la speranza a una predizione assoluta e infallibile, sono due forme d'un assurdo medesimo, cioè della confusione di queste due distintissime essenze.

Dopo tali premesse, non c'è da maravigliarsi, per quanto la cosa sia strana, che Calvino accusi di contradizione la dottrina del Concilio di Trento, appunto perchè c'è mantenuta la distinzione tra la speranza e la certezza. Non vogliono, dice, che alcuno si riprometta da, Dio, con certezza assoluta, la perseveranza, quantunque non disapprovino il riporne in Dio una speranza fermissima. Ma, prima di tutto, ci facciano vedere con qual cemento si possano fare stare insieme due cose tanto repugnanti tra di loro, una speranza fermissima, e un'aspettativa sospesa. (107) Cemento tra due idee, una delle quali è inclusa nell'altra? Perchà, di novo, chi non sa che la sospensione o, vogliam dire, la non certezza, è un elemento essenziale della speranza? che questa non è altro appunto, che l'aspettativa non certa d'una cosa desiderata? Ma dove gli par di cogliere la contradizione, è in quel « fermissima; » tanto una preoccupazione, principalmente quando è superba; può far dimenticare ciò che è impossibile d'ignorare! Chi non sa che la speranza, come ogni altro affetto umano, è capace di gradi indefiniti? Il linguaggio ha, per dir così, esauriti tutti gli aggiunti, è andato in cerca di tutte le figure che potessero servire, in qualche maniera, a distinguerli e a determinarli. E, essendo poi la speranza cristiana, non un semplice affetto umano, ma una virtù soprannaturale, come non sarà desiderabile che arrivi al più alto grado? Perciò il Concilio non si restringe a non disapprovare (espressione che fa parer quasi una concessione quello che è un precetto) che si riponga nell'aiuto di Dio una fermissima speranza; dice che tutti lo devono. (108) E la ragione del precetto è evidente. Ogni speranza d'un bene promesso condizionatamente (e qual promessa più espressamente e ripetutamente condizionata, di quella della salute eterna?) si fonda, da una parte, sulla fedeltà e sulla potenza dell'autore della promessa, e dall'altra, sulla fedeltà di chi deve adempire la condizione. Quindi la speranza eri.stiana dev' esser fermissima, senza paragone con nessun altro sentimento possibile dello stesso genere, in quanto si fonda sull'infallibilità e sull'onnipotenza dell'Autore della promessa; è speranza e nulla più, o, per parlar più esattamente, speranza e null'altro (giacchè la certezza non è un ultimo e supremo grado della speranza, ma un'altra essenza, e incompatibile con essa), in quanto l'adempimento della condizione dipende dalla libera volontà dell'uomo. Ma speranza fermissima con tutto ciò, perchè quella promessa, data per un'infinita carità, e per i meriti infiniti del Redentore, non ha per unico oggetto la ricompensa. Imponendoci la condizione, Dio non ci ha abbandonati alle sole nostre forze per adempirla; ma ha promesso ugualmente d'aiutare ogni nostro sforzo perchè sincero, e d'accordare alla preghiera tutto, senza eccezione, ciò che possa esser necessario a quell'adempimento. E perchè la cognizione più elevata della verità fa trovare una concordia tra quelle verità subordinate che, a prima vista, possono parere opposte, il fedele istruito da Dio, per mezzo della Chiesa, sa che quell'incertezza la quale rimane nella speranza cristiana, anzi ne è una condizione, quell'incertezza che non ha altra ragione, che nella nostra debolezza, non solo è necessaria a mantenere l'umiltà e la vigilanza; ma ha la virtù di render più ferma la speranza medesima. In altri termini, intende che la diffidenza di noi medesimi, se il core è veramente cristiano, serve a fortificare e a accrescere la nostra fiducia in Dio. Infatti, quanto più l'uomo conosce che debole, che incerto, che sproporzionato assegnamento possa fare sulle proprie forze, e insieme sa e crede che gli è, non già permesso, ma comandato di sperare; tanto più si sente mosso a volgersi e, direi quasi, a buttarsi, con un lieto abbandono, da quella parte dove tutto è forza, tutto è fedeltà, tutto è previdenza, tutto è assistenza. Nelle speranze che hanno per oggetto i beni temporali, que' due opposti e costitutivi sentimenti, fiducia e diffidenza, fanno unicamente il loro ufizio naturale, che è di combattersi, senza mai concorrere, nè direttamente nè indirettamente, a uno stesso fine. Nella speranza cristiana, ogni atto di diffidenza porta con sè la ragione d'un atto prevalente di fiducia, rimanendo la prima sempre viva e sempre vinta. La debolezza finita, senza mai nè sconoscersi, nè scusarsi, anzi per l'umile confessione di sè medesima, si sente insieme e superata da un'infinita bontà, e sostenuta da un'infinita forza; avverandosi anche in questo senso il detto dell'Apostolo, che la potenza divina arriva al suo fine per mezzo della debolezza. (109) Così la religione, che innalza al grado di virtù un affetto naturale, qual' è la speranza, dandogli per motivo la suprema Verità, e per termine il supremo Bene, ci manifesta poi, in questo caso, come in tant'altri, ciò che la ragione stessa trova necessario, anche senza conoscerne il modo; cioè che un elemento essenziale d'una virtù (come l'incertezza lo è della speranza) non può essere opposto alla perfezione di essa.

Oso credere che, se la dottrina della giustificazione per la sola fede fosse proposta in questi tempi, per la prima volta, con qualsisia apparato di ragionamenti, e con qualsisia impeto d'eloquenza, troverebbe difficilmente qualche seguace, non che tirarsi dietro l'intere popolazioni. E credo ugualmente che ognuno sarà ora facilmente d'accordo con l'illustre autore nel riguardarla come naturalmente sovvertitrice della morale. Credo ancora, che non avrebbe maggior seguito l'altra dottrina, o conseguente o analoga, della certezza della salute. Ogni errore, per entrar nelle menti, ha bisogno d'un concorso particolare di circostanze, quantunque possa durare, anche mutate queste; e quantunque possano durare i suoi effetti, anche quando abbia perduta, o affatto o in gran parte, la sua forza; come durano purtroppo le dolorosissime separazioni, delle quali que' nuovi dommi furono quasi le prime cagioni, e, per qualche tempo, cagioni attive e potenti.



III

Spirito e effetti delle forme imposte alla penitenza.

Quali sono poi finalmente queste forme penitenziali? La confessione delle colpe, per dare al sacerdote la cognizione dell'animo del peccatore, senza la quale è impossibile ch'egli eserciti la sua autorità; l'imposizione dell'opere di soddisfazione; la formula dell'assoluzione. Io non mi propongo di farne l'apologia; giacchè cosa può mai trovarsi a ridire in esse, che non sono altro che il mezzo più semplice, più indispensabile, più conforme all'istituzione evangelica, per applicare la misericordia di Dio, e il Sangue della propiziazione? Farò bensì osservare, non già tutti gli effetti di questa istituzione divina (rimettendomi alle molte opere apologetiche che ne ragionano, e alle lodi che ha avute anche da molti di quelli che non (hanno conservata), farò osservare principalmente quegli effetti che sono in relazione col ritorno alla virtù per i traviati, e col mantenimento della virtù ne' giusti.

L'uomo caduto nella colpa ha purtroppo una tendenza a persisterci; e l'essere privato del testimonio della bona coscienza l'affligge senza migliorarlo. Anzi è una cosa riconosciuta che il reo aggiunge spesso colpa a colpa, per estinguere il rimorso; simile a coloro che, nella perturbazione e nel terrore dell'incendio, buttano nelle fiamme ciò che vien loro alle mani, come per soffogarle. Il rimorso, quel sentimento che la religione con le sue speranze fa diventar contrizione, e che è tanto fecondo in sua mano, è per lo piú o sterile o dannoso senza di essa. Il reo sente nella sua coscienza quella voce terribile: non sei più innocente; e quell'altra più terribile ancora: non potrai esserlo più; e riguardando la virtù come una cosa perduta, sforza l'intelletto a persuadersi che se ne può far di meno, che è un nome, che gli uomini l'esaltano perchè la trovano utile negli altri, o perchè la venerano per pregiudizio; cerca di tenere il core occupato con sentimenti viziosi che lo rassicurino, perchè i virtuosi sono un tormento per lui. Ma per lo più quelli che vanno dicendo a sè stessi che la virtù è un nome vano, non ne sono veramente persuasi: se una voce interna annunziasse loro autorevolmente, che possono riconquistarla, la crederebbero una verità, o, per dir meglio, confesserebbero a sè stessi d'averla, in fondo, creduta sempre tale. Questo fa, la religione in chi vuole ascoltarla: essa parla in nome d'un Dio che ha promesso di buttarsi dietro le spalle le iniquità del pentito: essa promette il perdono, e offre il mezzo di scontare il prezzo del peccato. Mistero di sapienza e di misericordia! mistero, che la ragione non può penetrare, ma che tutta la occupa nell'ammirarlo; mistero che, nell'inestimabilità del prezzo della redenzione, dà un'idea infinita e dell'ingiustizia del peccato e del mezzo d'espiarlo, un'immensa ragione di pentimento, e un'immensa ragione di fiducia.

Ma la religione non fa solamente questo; essa rimove anche gli altri ostacoli che gli uomini oppongono al ritorno alla virtù. Il reo sfugge la società di quelli che non lo somigliano; perchè li teme superbi della loro virtù: aprirà egli il suo core a loro, che ne profitteranno per fargli sentire che sono da più di lui? Che consolazione gli daranno essi, che non possono restituirgli la giustizia? essi che stanno lontani da lui, per parere incontaminati? che parlano di lui con disprezzo, perchè si veda sempre più che disprezzano il vizio? essi che lo sforzano così a cercare la compagnia di quelli che sono colpevoli come lui, e che hanno le stesse ragioni per ridersi della virtù? La giustizia umana ha pur troppo con sè l'orgoglio del Fariseo che si paragona col Pubblicano, che prende un posto lontano da lui; che non s'immagina che quello possa diventare un suo pari; che, se potesse, lo terrebbe sempre nell'abiezione del peccato.

Ma questa divina religione d'amore e di perdono ha istituiti de' conciliatori tra Dio e l'uomo. Li vuole puri, perchè la loro vita accresca autorità alle loro parole, perchè il peccatore, con l'accostarsi a loro, si senta ritornato nella compagnia de virtuosi; ma li vuole umili, e perchè possano esser puri, e perchè quello possa ricorrere a loro, senza temere d'esserne respinto. Egli s'avvicina senza ribrezzo a un uomo che confessa d'esser peccatore anche lui, a un uomo che dal sentire le di lui colpe, ricava anzi fiducia che chi le rivela sia caro a Dio, e venera nel ravveduto la grazia di Colui che richiama a sè i cori; a un uomo che riguarda in quello che gli sta a' piedi la pecora cercata e portata sulle spalle del pastore, l'oggetto della gioia del cielo; a un uomo che tocca le sue piaghe con compassione e con rispetto, che le vede già coperte di quel Sangue che invocherà sopra di esse. Sapienza mirabile della religione di Cristo! Essa impone al penitente dell'opere di soddisfazione, che diventano per lui un testimonio consolante del suo cambiamento, e con le quali si rinfranca nell'abitudini virtuose e nella vittoria di sè stesso; con le quali mantiene la carità, e compensa, in certa maniera, il mal fatto. Perchè, non solo la religione non gli accorda il perdono, se non a condizione che ripari, potendo, i danni fatti al prossimo; ma, per ogni sorte di colpe, lo assoggetta alla penitenza, la quale non è altro che l'aumento di tutte le virtù, e quella che fa dell'offensore di Dio un ministro umile e volontario della sua giustizia. Essa prescrive a' suoi ministri, che s'assicurino il più che possono della realtà del pentimento e del proposito; indagine che tende, non solo a impedire che s'incoraggisca il vizio con la facilità del perdono, ma a dare una più consolante fiducia all'uomo che è pentito davvero: tatto è sollecitudine di perfezione e di misericordia. E i ministri che riconciliassero leggermente chi non fosse realmente mutato, essa li minaccia che, in vece di scioglierlo, saranno legati essi medesimi; tanta è la sua cura perché l'uomo non cambi in veleno i rimedi pietosi che Dio ha dati alla nostra debolezza.

Chi, con queste disposizioni, è ammesso alla penitenza, è certamente nella strada della virtù; chi s'è sentito dire dal ministro del Signore, che è assolto, si trova come ristabilito nel retaggio dell'innocenza, e principia di novo a battere quella strada con alacrità, con tanto più di fervore, quanto più si rammenta che frutti amari ha colti in quella del vizio, quanto più sente che gli atti e i sentimenti virtuosi sono i mezzi che la religione gli presenta per crescere nella fiducia che le sue tracce su quella trista strada siano cancellate.

La religione ha ricevuto dalla società un vizioso, e le restituisce un giusto: essa sola poteva fare un tal cambio. Chi avrebbe tentato, chi avrebbe pensato d'istituire de' ministri per aspettare il peccatore, per invitarlo, per insegnar la virtù, per richiamare a quella chi ricorre a loro, per parlargli con quella sincerità che non si trova nel mondo, per metterlo in guardia contro ogni illusione, per consolarlo a misura che diventa migliore?

Il mondo si lamenta che molti esercitino un così alto ufizio come un mestiere; e con questa parola gli rende omaggio senza avvedersene, riconoscendo che ogni mira di guadagno, di vantaggio temporale, anche onestissima in ogni altra professione, è sconveniente nell'esercizio di esso. Ma forse che sono cessati i ministri degni d'un tale ufizio? No, Dio non ha abbandonata la sua Chiesa: Egli mantiene in essa uomini che non hanno, che non vogliono altro mestiere che sacrificarsi per la salute de' loro fratelli, e in questa vedono un vero premio de' pericoli, de' patimenti, della vita più laboriosa; qualche volta della morte, del supplizio, e più spesso d'un lento martirio. Ma il mondo che si lamenta degli altri, guarderà dunque questi con venerazione e con riconoscenza; in ogni ministro zelante, umile e disinteressato vedrà un uomo grande; si rammenterà con tenerezza e con ammirazione que' sacerdoti che scorrono i deserti dell'America per parlare di Dio ai selvaggi; al sentire la fine di que' soldati della Chiesa, che, andati alla China per predicar Gesù Cristo, senza una speranza terrena; ci hanno recentemente sofferto il martirio, il mondo se ne glorierà, come fa di tutti quelli che disprezzano la vita per un nobile fine. Se non lo fa, se deride quelli che non può censurare, se li dimentica, o li chiama intelletti deboli, miseri, pregiudicati, si può credere che il mondo odii, non i difetti de' ministri, ma il ministero.

Ma la penitenza sacramentale non è utile e necessaria solamente a quelli che hanno scosso il giogo della legge divina, e aspirano a riprenderlo: lo è non meno ai giusti. In guerra continuamente con le prave inclinazioni interne, e con tutte le potenze del male, essi sono chiamati dalla religione a ripensare nell'amarezza del core le loro imperfezioni, a vegliare sulle loro cadute, a implorarne il perdono, a compensarle con atti di virtuosa annegazione, a proporre di cambiar sempre in meglio la loro vita. La penitenza è quella che distrugge in essi i vizi, al loro nascere, e in vasi di creta conserva il tesoro (110) della giustizia.

Un'istituzione che obbliga l'uomo a formare un giudizio severo sopra sè stesso, a misurare le sue azioni e le sue disposizioni col regolo della perfezione, che gli dà il più forte motivo per escludere da questo giudizio ogni ipocrisia, insegnando che sarà riveduto da Dio, è una istituzione sommamente morale.

Come mai una tale istituzione ha potuto essere mal intesa da tanti scrittori? Come mai le è stato tante volte attribuito uno spirito perfettamente opposto al suo?

Non si può a meno di non provare un sentimento doloroso per ogni verso, quando, in uno scritto che spira amore per la verità, e per il perfezionautento, in uno scritto, dove le riflessioni le più pensate sono ordinate al sentimento morale, e questo al sentimento religioso, si trova questa propasizione: che il cattolicismo fa comprare l'assoluzione con la manifestazione delle colpe. (111)

Qui non si tratta, nè d'induzioni, nè d'influenze recondite e complicate; si tratta d'un fatto. Ognuno può informarsi da qualunque cattolico, se la manifestazione (aveu) delle colpe basti a ottenere l'assoluzione; qualunque cattolico risponderà di no, qualunque cattolico ripeterà col Concilio di Trento: « Anatema a chi nega che alla perfetta remissione de' peccati si richiedano tre atti nel penitente, quasi materia del sacramento, cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione ». (112)

Di più, ricevere questo sacramento senza quelle disposizioni è un sacrilegio, un novo orribile peccato. E tanto è vero che l'assoluzione non si compra con la confessione materiale, che qualche volta l'assoluzione può esser negata dopo quella confessione, e qualche volta si dà senza di essa, come ai moribondi, i quali non siano in caso di confessarsi, e diano segni d'esserci disposti.

Si consideri un momento lo spirito della Chiesa nella dottrina dei sacramenti, e si vedrà come tutta l'economia di essi sia diretta alla santificazione del core, si vedrà quanto essa sia aliena dal sostituire le pratiche a' sentimenti. L'insegnamento cattolico fa ne' sacramenti una distinzione non meno propria che importante, chiamandone alcuni sacramenti de' vivi, e altri de' morti. Gli uni e gli altri sono istituiti da Gesù Cristo, e tutti per santificare; ma ai primi non è lecito accostarsi se non in stato di grazia: perchè? Perchè, secondo la Chiesa, il primo passo, il passo indispensabile a ogni grado di santificazione è il ritorno a Dio, l'amore della giustizia, l'avversione al male. C'è purtroppo negli uomini una tendenza, superstiziosa insieme e mondana, che li porta a confidare nelle nude pratiche esterne, e a ricorrere a cerimonie religiose per soffogare i rimorsi, senza riparare ai mali commessi, e senza rinunziare alle passioni: il gentilesimo, cred'io, li serviva in ciò secondo i loro desidèri. Ma qual è la religione che essenzialmente, perpetuamente e manifestamente s'oppone a questa tendenza? La religione cattolica senza alcun dubbio. Essendo tutti i sacramenti mezzi efficaci di santificazione, Perchè non sarebbe lecito ricorrere indistintamente a tutti i sacramenti, se le pratiche del culto fossero ammesse a compensare i delitti? Qual mezzo di santificazione potrebbe parere più facile del sacramento dell'Eucaristia, il quale comunica realmente la Vittima Divina, e unisce all'uomo la santità stessa? Eppure la Chiesa dichiara non solo inutile, ma sacrilego il ricevere questo sacramento per chi, non sia in stato di grazia: il Propiziatore stesso diventa condanna in un core ingiusto. Essa obbliga i peccatori che vogliono arrivare a quelle più alte fonti di grazia, a passare per i sacramenti che riconciliano a Dio; cioè la penitenza, alla quale non è lecito avvicinarsi senza dolore del peccato: e senza proposito di nova vita e il battesimo che negli adulti esige le stesse disposizioni. Poteva la Chiesa mostrare più ad evidenza, che non conta, che anzi ricusa le pratiche esterne, quando non siano segni d'un amore sincero della giustizia?

Ma donde può essere nata una opinione tanto contraria allo spirito della Chiesa? Io credo da un equivoco. Essendo la confessione la parte più apparente del sacramento di penitenza, ne è venuto l'uso di chiamare impropriamente confessione tutto il sacramento. Ma s'avverta che quest'inesattezza di parole non ne ha corrotta l'idea; perché la necessità del dolore, del proponimento e della soddisfazione è tanto universalmente insegnata, che si può affermare non esserci catechismo che non la inculchi, nè ragazzo ammesso alla confessione che l'ignori.




CAPITOLO IX

SUL RITARDO DELLA CONVERSIONE

La vertu, au lieu d'être la tâche constante de toute la vie, ne fut plus qu'un compte à régler à l'article de la mort. Il n'y eut plus aucun pécheur si aveuglé par ses passions, qu'il ne projetât de donner, avant de mourir, quelques jours au soin de son salut; et dans cette confiance, il abandonnoit la bride à ses penchans déréglés. Les casuistes avoient dépassé leur but, en nourissant une telle confiance; ce fut en vain qu'ils prêchèrent alors contre le retard de la conversion, ils étaient eux–mêmes les créateurs de ce déréglement d'esprit, inconnu aux anciens moralistes; l'habitude étoit prise de ne considérer que la mort du pécheur, et non sa vie, et elle devint universelle. Pag. 415, 416.

Quest'ultima obiezione contro la dottrina cattolica della penitenza viene a dire, che essa ha proposto un mezzo di remissione tanto facile, tanto a disposizione del peccatore in ogni momento, che questo, sicuro per così dire del perdono, è stato indotta a continuar nel vizio, riservando la penitenza all'ultimo; e che, in questa maniera, non solo tutta la vita è stata resa independente dalla sanzione religiosa, ma questa stessa è divenuta un incoraggimento al mal fare, e la morale è stata, per conseguenza, rovinata.

Un tale, tristissimo effetto vien qui, per quanto mi pare, attribuito promiscuamente alla dottrina, all'opinioni del popolo, e all'insegnamento del clero: e queste sano infatti le cose da considerarsi nella questione presente. Noi le esamineremo partitamente, per presentarle secondo quello che ci pare il loro vero aspetto. Ma prima sarà ben fatto d'accennare le proposizioni che noi crediamo dovere essere il resultato di questo esame.

I. La dottrina -- è la sola conforme alle Sacre Scritture -- è la sola che possa conciliarsi con la ragione e con la morale.

II. L'opinioni venute dall'abuso della dottrina -- sano pratiche e non speculative -- sono individuali e non generali -- non possono esser distrutte utilmente, che dalla cognizione e dall'amore della dottrina.

III. Il clero (preso non nella totalità fisica, ma nella unanimità morale) –- non insegna la dottrina falsa –- non dissimula la vera.



I

Della Dottrina.

Dobbiamo qui rammentar di novo; che, in ogni questione intorno al merito d'una dottrina morale, è necessario, prima di tutto, esaminar questa dottrina direttamente e in sè. Una dottrina morale qualunque, è necessariamente o vera o falsa; o consentanea o opposta alla rivelazione e alla ragione. Prescindere da una tale ricerca, e volerla giudicare puramente dagli effetti, o per parlar più esattamente, da alcuni fatti che possano aver luogo insieme con essa, sarebbe lasciar da una parte il vero e unico mezzo di giudicarla con cognizione di causa, e prenderne uno, non solo inadequato, ma essenzialmente fallace. Perché, oltre l'impossibilità di conoscere tutti que' fatti, e la difficoltà di stimare imparzialmente que' tanti che si possono conoscere, il riguardarli addirittura come effetti della dottrina, sarebbe un attribuire ad essa ciò che sicuramente non è tutto suo, e che può non esser suo per nulla. Una dottrina morale può bensì essere, e è ordinariamente, una cagione di fatti; ma non n'è mai la sola; anzi è, in quanto cagione, condizionata e subordinata a un'altra, cioè alla volontà dell'uomo. E chi non sa che. in virtù di questa libera volontà, l'uomo può rivolgersi al male; anche dopo aver ricevuta in massima la dottrina più propria a dirigere al bene? Una dottrina che promettesse di rendere infallibilmente boni tutti gli uomini, col solo esser promulgata, potrebbe giustamente esser rigettata sulla semplice prova degli inconvenienti che sussistono con essa. Ma siccome la dottrina cattolica non fa una tale promessa, questa prova non basterebbe per farne un giudizio fondato. Bisogna esaminarla: se gli effetti cattivi hanno origine da lei, il vizio si troverà in lei stessa. Ma se, all'opposto, non ci troviamo altro che rettitudine e sapienza, potremo dire anche qui, che a lei non si devono attribuire altri effetti che i boni. A lei, dico, non come a cagione immediata, nè efficiente per sè, ma come a un motivo potente, e a una guida, in parte, necessaria; cioè in quella parte della moralità, che eccede la cognizione naturale, e che non ci poteva esser nota, se non per la rivelazione. (113)

Richiamando la questione alla dottrina, non intendiamo di declinare quella del fatto; ma bensì d'adempire una condizione necessaria per trattarla con cognizione di causa e utilmente. Il che noi cercheremo di fare con tutta quella precisione che può comportare un fatto così molteplice e così vario e composto, ma certo, con ogni sincerità: poichè, se il nostro scopo fosse d'illudere o noi medesimi o gli altri, il solo guadagno che potremmo ricavarne sarebbe quello d'essere o ciechi volontari, o impostori: due poveri guadagni.

Il punto della questione, per ciò che riguarda la dottrina, è questo: Può l'uomo, fin che vive, di peccatore diventar giusto, detestando i suoi peccati, chiedendone perdono a Dio, risolvendo di non più commetterne, di ripararne il danno, per quanto potrà, e di farne penitenza, e confidando per la remissione di essi nella misericordia di Dio, e ne' meriti di Gesù Cristo? Quando il peccatore sia così giustificato, è egli in istato di salvezza?

La Chiesa dice di sì; consultiamo la Scrittura, consultiamo la ragione, cerchiamo i princìpi e le conseguenze legittime di questa dottrina, e della dottrina contraria.

Lasciando per brevità da una parte la connessione essenziale di questa dottrina con tutta la Scrittura, e i passi ne' quali è sottintesa, ne riportiamo uno solo, ma formale.

« La giustizia del giusto non lo libererà in qualunque giorno, pecchi; e l'empietà dell'empio non gli nocerà più in qualunque giorno si converta ... Se avrò detto all'empio: tu morrai; ed egli farà penitenza del suo peccato, e farà opere rette e giuste; se restituirà il pegno, e renderà quello che ha rapito, e camminerà ne' comandamenti di vita, e nulla farà d'ingiusto; viverà e non morrà. Tutti i peccati che ha commessi, non gli saranno imputati: ha fatto opere rette e giuste, viverà. » (114)

Tutti i princìpi e tutte le conseguenze di questa dottrina ricadono dunque sulla Scrittura; ad essa bisogna chiederne conto, o, per dir meglio, ad essa dobbiamo la cognizione certa e distinta d'una verità così salutare e, del resto, così legata con l'altre ugualmente rivelate, per le quali la nostra mente è stata sollevata al concetto soprannaturale, che è quanto dire, al concetto intero della moralità. Infatti (siamo costretti dall'argomento a toccar di novo alcune cose già dette nel capitolo antecedente), infatti, se la giustizia consiste nella conformità dell'intelletto e della volontà e, per una conseguenza necessaria, dell'azioni con la legge di Dio, il peccatore che, per la misericordia e con la grazia di Lui, diventa conforme a quella, fino a condannar sè medesimo, diventa giusto. Se la giustizia è uno stato reale dell'anima umana; se la conversione, se il perdono ottenuto per i meriti del Mediatore non sono parole vane; l'uomo che, in qualunque giorno, è entrato in questo stato, è attualmente amico di Dio, e quindi chiamato alla sorte che Dio ha preparata a' suoi amici. Se il tempo della prova è in questa vita; se il premio e la pena dipendono da questo tempo (e tutti i precetti della morale cristiana hanno la loro sanzione in questo domma; e quanti filosofi, anche nemicissimi della religione, non l'hanno riguardato come un suo gran benefizio, come un supplimento ai mezzi umani per accrescere il bene morale, e diminuire il male!); se il tempo della prova è in questa vita, l'uomo che, al finir della prova, è in stato di giustizia, è necessariamente in stato di salvezza.

E quali sono le conseguenze legittime di questi princìpi, riguardo alla condotta di tutta la vita? È evidente che, per fare con cognizione di causa una tale ricerca, bisogna osservare il complesso della dottrina di cui essi non sono che una parte.

A chi, nel pericolo prossimo d'un'inondazione, domandasse, se trascurando di mettersi in salvo in quel momento, sarebbe certo di perire, cosa si dovrebbe rispondere? No: non è assolutamente certo che perirete trattenendovi in un tale pericolo. Una cagione impreveduta può svoltare il corso dell'acqua; l'acqua stessa può mandarvi vicina una tavola che vi porti a salvamento. Ma voi ponete male la questione, considerando unicamente, in una deliberazione di tanta importanza, una possibilità debole e lontana, e lasciando da una parte la difficoltà, che ogni momento di ritardo rende più grave.

Lo stesso è nell'altre della salvezza dell'anima.

È sempre possibile il convertirsi, dice la Chiesa, e non può dire altrimenti; ma è difficile, ma questa difficoltà cresce à misura che il tempo passa, che i peccati s'accumulano, che l'abitudini viziose si rinforzano, che s'è stancata la pazienza di Dio, restando sordi alle sue chiamate; quindi la difficoltà è massima appunto al momento d'abbandonare la vita. E la Chiesa, non solo non lusinga i peccatori che potranno superare questa difficoltà, ma non cessa dí rammentar loro, che non sanno nemmeno se potranno affrontarla; giacchè il momento e il modo della morte sono ugualmente incerti.

Dunque bisogna vivere in ogni momento in maniera di poter con fiducia presentarsi a Dio; dunque la conversione è necessaria in ogni momento ai peccatori, la perseveranza in ogni momento ai giusti: tali e simili sono le conseguenze che un uomo ragionevole (e la religione, come tutte le dottrine vere, intende parlare alla ragione) possa dedurre da quella dottrina. Conseguenze; delle quali nulla si può pensare di più morale, e di più applicabile a ogni azione, a ogni pensiero; e che tutte si riducono a quell'avvertimento lasciatoci dal Maestro medesimo: State preparati, perchè, nell'ora che meno pensate, verrà il Figliolo dell'uomo. (115) Quindi quella dottrina, lungi dal portar gli uomini a non considerare che la morte, è sommamente propria a dirigere tutta la vita.

« Ma cos'importa, si dirà, che le conseguenze immorali siano legittime o no, quando sono state dedotte, quando gli uomini hanno regolata la loro vita su queste conseguenze? Voi dite che i cattolici viziosi hanno ragionato stortamente: sia pure; ma questa dottrina è sempre stata per loro un'occasione di ragionar così; e hanno vissuto nel male, con la fiducia e per la fiducia di morir bene. »

Suppongo il fatto, e domando: come rimediarci? O bisogna provare che gioverebbe alla morale il lasciar gli uomini senza una dottrina sul ritorno a Dio, sui suoi giudizi, sulle pene e sui premi della vita futura; o trovarne una diversa dalla rivelata, e che non abbia nè questi inconvenienti, nè de' peggiori. Venga un uomo che s'arroghi di farlo, non avrà la Chiesa ragione di fermarlo e di dirgli: Perchè gli uomini hanno cavate delle conseguenze viziose da una dottrina santa e vera, voi volete darne loro una arbitraria? Come! le loro inclinazioni non si sono raddrizzate con la regola infallibile; a quale pervertimento non arriveranno con una regola falsa?

Ma supponiamo che quest'uomo non dia retta alla Chiesa, e che, passando sopra una tale difficoltà, argomenti in questa maniera.

« È stato insegnato ai cattolici, che il peccatore può, fin che vive, convertirsi e esser giustificato. È vero che s'è anche sempre detto loro, « che il rimetter la conversione alla morte è una doppia temerità, una enorme insensatezza. Ma malgrado ciò, non ci fu peccatore così accecato dalle passioni, che non proponesse di consacrare, prima di morire, qualche giorno alla cura della sua salvezza; e con questa fiducia scioglieva il freno alle sue inclinazioni sregolate. Ci vuol danque un rimedio, e non un palliativo; bisogna estirpare la radice del male, cioè una dottrina necessariamente male interpretata, una dottrina che, data la natura dell'uomo, opera certamente un effetto così malefico. In queste cose non si può stare senza una dottrina qualunque; una dottrina media non ci sarebbe su che fondarla. Dunque è necessario stabilire e promulgare la dottrina opposta, cioè: non è vero che l'uomo possa convertirsi a Dio; giacchè, se s'ammette la possibilità, essa si applica da sè e necessariamente a tutti i momenti della vita, e, per conseguenza, anche agli ultimi.

« È stato ugualmente insegnato ai cattolici, che l'uomo è giudicato nello stato in cui si trova all'uscire di questa vita. È vero che s' è anche detto che la morte è ordinariamente la conseguenza della vita; che una bona morte è un tal dono, che la vita tutta intera deve essere impiegata a implorarla e a meritarla; che non solo non è promessa agli empi, ma sono minacciati di morire in peccato; che il mezzo d'avere una giusta speranza di ben morire, è di ben vivere, e altri simili correttivi: ma con tutto ciò, s'è presa l'abitudine di considerar solamente la morte del peccatore, e non la vita; e quest'abitudine divenne universale. S'insegni dunque che l'uomo non sarà giudicato nello stato in cui si troverà all"uscire di questa vita. »

Ci s'insegni questa dottrina, e si dica quali ne saranno le conseguenze applicabili alla condotta morale. L'uomo non può convertirsi a Dio; dunque al peccatore non rimane che la disperazione: stato incompatibile con ogni sentimento pio, umano, dignitoso; stato orribile, in cui l'uomo, se potesse durarci e esser tranquillo, non potrebbe farsi altra regola, che di procurarsi il più di piaceri finchè può, a qualunque costo. L'uomo non può convertirsi a Dio; dunque non più pentimento, non più mutazione di vita, non più preghiera, nè speranza, nè redenzione, nè Vangelo; dunque il dire a un peccatore di diventar virtuoso per motivi soprannaturali, sarebbe fargli una proposta assurda. L'uomo non è giudicato nello stato in cui si trova all'uscire di questa vita; dunque non c'è stato di giustizia nè d'ingiustizia; poichè, cosa sarebbe una giustizia che non rimettesse l'uomo nell'amicizia di Dio? e cosa sarebbe un'amicizia di Dio che lasciasse l'uomo nella pena eterna? Dunque non sarà vero che ci siano premi e pene per l'azioni di questa vita, non essendoci in questa vita uno stato in cui l'uomo possa esser degno nè degli uni nè dell'altre; dunque non ci sarà una ragione certa e preponderante d'operar bene in tutti i momenti della vita.

Ma, tra l'opinioni, tante pur troppo, e diverse e strane, che il senso privato ha potuto produrre, e ha tentato di sostituire alla dottrina della Chiesa, non credo che una simile sia mai stata messa in campo. Non se n'è qui, fatto cenno, se non per mostrare che a quella dottrina non se ne può opporre che o una assurda, o nessuna.



II

Dell'opinioni abusive.

Se dunque il viver male per la presunzione di morir bene, non può in nessuna maniera, esser riguardato come un effetto della dottrina cattolica, quale ne sarà la vera cagione? Quella da cui provengono e tutte le dottrine false, e tutti gli abusi delle vere: le passioni. L'uomo che vuol vivere a seconda di queste, e insieme non osa negare a sè stesso l'autorità della dottrina che le condanna, si sforza di conciliare in apparenza queste due disposizioni inconciliabili, per darla vinta a quella che vuol far prevalere in effetto. E questa infelicissima frode se la fa col mezzo della sofistica ordinaria delle passioni; cioè spezzando, per dir così, la dottrina, prendendone quel tanto che gli conviene, e non curandosi del rimanente: che è quanto dire, riconoscendola e negandola nello stesso tempo.

La religione gli dice che Dio fa misericordia al peccatore, in qualunque giorno questo ritorni a Lui; egli aggiunge di suo, e contro l'avvertimento espresso della religione, che questo giorno sarà sempre in poter suo.

Quest'illusione, abbiamo detto, costituisce un errore pratico e non speculativo; e, tra questi due caratteri, corre una gran differenza. Intendo per errori pratici quelli che l'uomo crea a sè stesso per la circostanza, per giustificare in qualche modo alla sua ragione il male a cui è già determinato; e per errori speculativi, quelli a cui uno aderisce abitualmente, anche quando non ci sia spinto da un interesse estraneo e accidentale. Questi, quando riguardino la morale, alterano la coscienza nell'intimo, scambiando il male in bene, e il bene in male; e sono, per sè, cagioni iniziali e permanenti d'azioni viziose, e spesso anche d'azioni perverse, le quali, senza la loro funesta autorità, non sarebbero state pensate, non che eseguite. In vece, l'errore di cui si tratta non trova adito che nelle menti già sedotte da altre passioni, non dura che nella perturbazione cagionata da esse, non è un principio di ragionamenti qualunque, ma piuttosto una formula per troncare ogni ragionamento.

Difatti, se l'uomo si ferma a ragionare sulla conversione, è condotto dalla logica alla necessità di convertirsi immediatamente. Per non arrivare a una conclusione odiosa al senso, dice a sè stesso: mi convertirò in un altro tempo: non segue la serie di queste idee, e cerca una distrazione.

Di qui nasce un'altra differenza importante. Gli errori di questo genere sono individuali, e non generali: voglio dire che non si trasmettono per via di discussione, non diventano precetti e parte di scienza comune. All'uomo affezionato al disordine basta d'avere un argomento qualunque, per dir così, a suo uso; non si cura di farne parte agli altri; e soprattutto non vuole entrare in ragionamenti, e perchè non è inclinato a queste considerazioni, e perchè sente che il suo argomento non potrebbe reggere alla prima obiezione. Quindi questo errore non si propaga per proselitismo: ci sono degli erranti in questa materia, ma non de' falsi maestri, nè de' discepoli illusi.

Finalmente non può esser distrutto utilmente che dalla cognizione e dall'amore della dottrina.

Per distruggere utilmente gli abusi, bisogna metter le cose in migliore stato di quello che fossero con essi. Spero d'aver dimostrato che sostituire alla dottrina cattolica della conversione qualunque altra, sarebbe creare una sorgente d'errori peggiori e certi e universali. Il solo mezzo, per conseguenza, di diminuire quelli che ci possono essere, è di diffondere, di studiare e d'amare quella religione che comanda la virtù e l'insegna, e che indica e apre tutte le strade che conducono ad essa. Ricorrendo un momento col pensiero al complesso delle massime di questa religione, si vede in che profondo d'ignoranza, d'obblio o d'accecamento deva esser caduto un uomo, per viver male, con la presunzione di pentirsi quando gli piaccia. Non basta far violenza alla Scrittura e alla tradizione, per tirarle a favorire una tal presunzione. Bisogna assolutamente prescindere dall'una e dall'altra, dimenticarle: l'una e l'altra la combattono sempre, la maledicono sempre. Appena un uomo s'avvicina ad esse con l'intelletto e col core, sente immediatamente che non c'è fiducia se non nell'impiegare secondo la legge di Dio ognuno di que' momenti, de' quali tutti si darà conto a Dio; che non ce n'è in tutta la vita uno solo per il peccato; che è sempre di somma necessità il camminar cautamente, non da stolti, ma da prudenti, ricomperando il tempo; (116) che l'unica condotta ragionevole è di studiarsi di render certa la propria vocazione ed elezione con l'opere bone. (117)



III

Dell'insegnamento.

Il clero non insegna la dottrina falsa -- non dissimula la vera.

Ognuno vede che i documenti sono troppo voluminosi per essere portati in giudizio; ma si possono francamente chiamare in testimonio tutte l'istruzioni del clero, tutte le prediche, tutti i libri ascetici, meno alcune rarissime eccezioni che accenneremo più tardi. Trascriviamo qui alcuni passi di tre uomini celebri, per saggio dell'insegnamento in questa materia.

Mais serons–nous fort contens d'une pénitence commencée à l'agonie, qui n'aura jamais été éprouvée, dont jamais on n'aura vis aucun fruit; d'une pénitence imparfaite, d'une pénitence nulle, douteuse, si vous le voulez; sans forces, sans réflexions, sans loisir pour en réparer les défauts? (118)

Ils meurent, ces pécheurs invétérés, comme ils ont vécu. Ils ont vécu dans le péché, et ils meurent dans le péché. Ils ont vécu dans la haine de Dieu, et ils meurent dans la haine de Dieu. Ils ont vécu en payens, et ils meurent en réprouvés: voilà ce que l'espérience nous apprend... De prétendre que des habitudes contractées durant toute la vie, se détruisent aux approches de la mort, et que dans un moment on se fasse alors un autre esprit, un autre coeur, une autre volonté, c'est, chrétiens, la plus grossière de toutes les erreurs... De tous les tems celui où la vraie pénitence est plus difficile, c'est le tems de la mort... Le tems de le chercher ce Dieu de miséricorde, c'est la vie; le tems de le trouver, c'est la mort... (119)

Vous avez vécu impudique, vous mourrez tel; vous avez vecu ambitieux, vous mourrez sans que l'amour du monde et de ses vains honneurs meure dans votre coeur; vous avez vécu mollement, sans vice ni vertu, vous mourrez lachement et sans componction... Je sais que tout le temps de la vie présente est un temps de salut et de propitiation; que nous pouvons toujours retourner à Dieu; qu'à quelque heure que le pécheur se convertisse au Seigneur, le Seigneur se convertit à lui; et que tandis que le serpent d'airain est élevé, il n'est point de plaie incurable: c'est une vérité de la foi; mais je sais aussi que chaque grâce spéciale dont vous abusez peut être la dernière de votre vie... Car non seulement vous vous promettez la grâce de la conversion, c'est–à–dire, cette grâce qui change le coeur; mais vous vous promettez encore la grâce qui nous fait mourir dans la sainteté et dans la justice; la grâce qui consomme la santification d'une âme, la grâce de la persévèrance finale: mai c'est la grâce des seuls élus; c'est le plus grand de tous les dons; c'est la consommation de toutes les grâces; c'est le dernier trait de la bienveillance de Dieu sur une âme, c'est le fruit d'une vie entière d'innocence et de piété; Cest la couronne réservée à ceux qui ont légitimement combattu... Et vous présumez que le plus signalé de tous les bien faits sera le prix de la plus ingrate de toutes le vies!... Que pouvez–vous souhaiter de plus favorable pour vous à la mort, que d'avoir le temps, et d'être en état de chercher Jésus–Christ; que de le chercher en effet; et de lui offrir des larmes de douleur et de pénitence? C'est tout ce que vous pouvez vous promettre de plus favorable pour ce dernier moment. Et cependant (cette vérité me fait trembler); cependant, que vous permet Jésus–Christ d'espérer de vos recherches mêmes, et de vos larmes, si vous les renvoyez jusque–là? Vous me chercherez, et vous mourrez dans votre péché. Quaeretis me, et in peccato vestro moriemini... Tout ce que je sais, c'est que des sacremens du salut appliqués alors sur un pécheur, consomment peut–être sa reprobation... tout ce que je sais, c' est que tous les Pères qui ont parlé de la pénitence des mourans, en on parlé en des termes qui font trembler... (120)

Massime predicate così affermativamente, così risolutamente, da tali uomini, costituiscono certamente l'insegnamento esclusivo della Chiesa in questa materia.

Non s'opponga che questi sono scrittori francesi e che qui si tratta degli effetti della religione cattolica in Italia. È affatto a proposito il citare scrittori francesi, perchè si veda che questo disordine di spirito, come benissimo lo chiama l'illustre autore, ha bisogno d'esser combattuto anche fuori d'Italia. Ma se si vuole un Italiano, sentiamo, tra mille, il Segneri: «Che dunque mi state a dire, non aver voi punto fretta di convertirvi, giacchè voi sapete benissimo, che a salvarsi non è necessario di fare una vita santa, ma solo una morte buona? Oh vostra mente ingannata! oh ciechi consigli! oh pazze risoluzioni! E come mai voi vi potete promettere una tal morte, se quegli stesso a cui spetta di darvela, ve la nega, e a note chiare, e con parole apertissime si protesta che voi morrete in peccato? In peccato vestro moriemini ». (121)

Si dirà forse che l'illustre autore non ignora, e non nega che si predichi così; afferma bensì che questo è un prendersela con gli effetti, dopo aver creato la causa. Invano, dice, predicarono allora contro il ritardo della conversione: essi stessi erano gli autori di questo disordine di spirito sconosciuto agli antichi moralisti. Allora? Ma a che tempo ci porteremo, per trovar l'origine di questa predicazione? Ma, se tra gli antichi moralisti contiamo i Padri, questo disordine non era certamente sconosciuto a quelli di loro, che, ne' primi secoli della Chiesa, declamarono tanto contro i clinici. (122) Ma in un libro molto più antico de' casisti, de' clinici e de Padri, sta scritto: « Non tardare a convertirti al Signore, e non differire da un giorno all'altro ». (123) Infatti, al momento che è stata data agli uomini l'idea della conversione, essi hanno potuto aggiungerci quella della dilazione. Invano predicarono contro il ritardo della conversione. Invano? perchè? Non predicarono forse cose conformi alla ragione? Hanno o non hanno provato che il tardare a convertirsi è un delirio? Si può fare a' loro discorsi un'obiezione sensata? Sarà sempre invano che si dirà agli uomini la verità più importante per loro? Ma si può credere che non sia sempre stato invano. Certo, la semenza della parola può cadere nella strada e sulle pietre e tra le spine, ma trova anche qualche volta la bona terra; e credere che delle verità tanto incontrastabili e tanto gravi siano state sempre predicate invano, sarebbe un disperare della grazia di Dio, e della ragione dell'uomo.

Erano essi medesimi gli autori di questo disordine di spirito. Ah! se i cristiani che vivono in quello facessero loro un tal rimprovero, non avrebbero essi ragione di rispondere: «Noi? È dunque col predicarvi la conversione, che v'abbiamo portati a vivere nel peccato, e a differirla? È dunque col parlarvi delle ricchezze della misericordia, che v'abbiamo a animati a disprezzarle? Noi v'abbiamo detto: Venite, adoriamo, prosterniamoci e preghiamo; v'abbiamo detto: Oggi che udite la sua voce, non vogliate indurire i vostri cori; (124) e voi pensate a un domani che noi non « v'abbiamo mai promesso, a un domani del quale cerchiamo di farvi diffidare; e siamo noi gli autori del vostro indurimento? Certo, noi siamo i mondi del vostro sangue ». (125) Così potrebbero rispondere, se ci fosse un linguaggio per giustificare la predicazione del Vangelo in faccia al mondo. O potrebbero anche opporre a quest'accusa l'accuse che si fanno loro, di spaventare gli uomini con l'idee truci e lugubri di morte e di giudizio, per eccitarli alla conversione.

Ma, se la Chiesa ha così poca fiducia nelle conversioni in punto di morte, perchè si fa vedere così sollecita, nell'assistere il peccatore moribondo? Appunto perchè la sua fiducia è poca, essa riunisce tutti i suoi sforzi; appunto perchè l'impresa è difficile, impiega tutta la carità del suo core e delle sue parole. Un filo di speranza di salvare un suo figlio basta alla Chiesa per non abbandonarlo; ma con questo insegna forse a' suoi figli, a ridursi a un filo di speranza? Quegli uomini benemeriti che amministrano i soccorsi a chi è cavato da un fiume, con poca o nessuna apparenza di vita, possono forse esser tacciati d'incoraggir gli uomini a affogarsi?

S'osservi a questo proposito, che la Chiesa pare quasi che abbia due linguaggi su questa materia; poichè cerca d'ispirar terrore a' peccatori che, nel vigore della saluto, si promettono confusamente nell'avvenire il tempo di peccare e di convertirsi; e cerca d'ispirar fiducia a' peccatori moribondi. Nel che non c'è contradizione, ma prudenza e verità. I peccatori, tanto nell'uno che nell'altro stato, sono disposti a guardar fissamente una parte sola della questione: la Chiesa fa loro presente la parte che dimenticano. I primi sono pieni dell'idea della possibilità; ed è utile rappresentar loro la difficoltà; gli altri sono portati a veder questa sola così vivamente, che, per loro, uno de' maggiori ostacoli al convertirsi è appunto il diffidare della misericordia di Dio.

Abbiamo parlato dell'insegnamento generale; e forse non si troverà un solo esempio di chi abbia nella Chiesa insegnato direttamente il contrario; ma la verità vuole che s'accenni il come l'errore è stato qualche volta indirettamente favorito.

Tra i molti inconvenienti dello spirito oratorio (come è inteso dai più), inconvenienti, per i quali è spesso in opposizione con la logica e con la morale, uno de' più comuni è quello d'esagerare o il bene o il male d'una cosa, dimenticando il legame che essa ha con dell'altre: si viene così a indebolire un complesso di verità, e a sostituire un errore a quella medesima che si vuole ingrandire. Un tale spirito, che piace a molti i quali vedono potenza d'ingegno dove non c'è altro che debolezza e impotenza d'abbracciare tutte le relazioni importanti d'un oggetto, un tale spirito ha traviato alcuni, i quali, per magnificare qualche pratica religiosa, sono arrivati a attribuirle la facoltà d'assicurare a' peccatori la conversione in punto di morte. Assunto falso e pernizioso, gioco d'eloquenza male a proposito chiamata popolare, perchè popolari s'hanno a dire quelle cose che tendono a illuminare e a perfezionare il popolo, non a fomentare le sue passioni e i suoi pregiudizi. È bensì vero che coloro i quali s'abbandonarono qualche volta a questa miserabile intemperanza d'ingegno, non mancarono per lo più di mischiarci de' correttivi; ma questo metodo attesta il male senza levarne le conseguenze; giacchè l'egro fanciullo, al quale credono così a torto di presentare una medicina, è troppo inclinato a lambire il mele che copre gli orli del vaso, e a lasciar l'assenzio salutare. Ma s'osservi che questi pochi, oltre all'essere stati sempre contradetti, o direttamente o implicitamente, dagli altri, venivano a essere in contradizione anche con sè stessi, essendo tutto il loro insegnamento incompatibile con questa loro particolare dottrina; giacchè, se avessero seriamente tenuta questa, e l'avessero applicata a tutti i casi, non avrebbero potuto più predicare il Vangelo: esso diventava inutile. Si può sperare che, a' nostri giorni, questo disordine sia quasi del tutto cessato.

Per mostrare l'effetto dell'abitudine di non considerare che la morte del peccatore, adduce l'autore una prova di fatto, che riferiamo con le sue parole. La funeste influence de cette doctrine se fait sentir en Italie d'une manière éclatante toutes les fois que quelque grand criminel est condamné à un supplice capital. La solennité du jugement et la certitude de la peine, frappent toujours le plus endurci, de terreur, puis de repentir. Aucun incendiaire, aucun brigand, aucun empoisonneur ne monte sur l'échafaud sans avoir fait, avec une componction profonde, une bonne confession, une bonne communion, sans faire ensuite une bonne mort; son confesseur déclare sa ferme confiance que l'âme du pénitent a déjà pris son chemin vers le ciel, et la populace se dispute au pied de l'échafaud les reliques du nouveau saint, du nouveau martyr, dont les crimes l'avoient peut–être glacée d'effroi pendant des années.

Di quest'uso stranissimo io non avevo mai sentito parlare prima di legger questo passo; ma, essendo lontano dal dare la mia ignoranza per risposta a un asserto, me ne rimetto a quelli che conoscono meglio di me le circostanze di questa Italia. Il fatto è de' più facili a chiarirsi.

Osservo però in massima, che, in qualunque parte possa esistere questa superstizione, non ci fu mai la più contraria all'insegnamento della Chiesa. Essa accoglie, è vero, il reo cacciato violentemente dalla società e dalla vita; il suo ministro si mette tra il giudice e il carnefice; sì, tra il giudice e il carnefice, perchè ogni posto dove si possa santificare un'anima e consolarla, dove ci sia una repugnanza da vincere, una serie di sentimenti penosi che non finisca con una ricompensa temporale, è per un ministro della Chiesa il posto d'onore. Chi può dire quale sia l'angoscia d'un uomo che ha davanti agli occhi il patibolo, e nella coscienza la memoria del delitto? di colui che aspetta la morte, non per una nobile causa, ma per de' tristi fatti? E la Chiesa trascurerebbe di render utile un tanto dolore all'infelice che è costretto a gustarlo! E ci sarebbe un caso in cui non avesse misericordia da promettere! in cui anch'essa abbandonasse un uomo! Essa gli apre le braccia; non dimentica che il Sangue di Gesù Cristo è stato sparso anche per lui; e fa di tutto perchè non sia stato per lui sparso invano. Ma la certezza, non la dà nè a lui, nè agli altri; e chi la prende, va direttamente contro il suo insegnamento.




CAPITOLO X

DELLE SUSSISTENZE DEL CLERO CONSIDERATE COME CAGIONE D'IMMORALITÀ

Je ne parlerai point du scandaleux trafic des indulgences, et du prix honteux que le pénitent payoit pour obtenir l'absolution du prêtre; le concile de Trente prit à tâche d'en diminuer l'abus: cependant encore aujourd'hui le prêtre vit des péchés du peuple et de ses terreurs; le pécheur moribond prodigue, pour payer des messes et des rosaires, l'argent qu'il a souvent rassemblé par des voies iniques; il appaise au prix de l'or sa conscience, et il établit aux yeux du vulgaire sa réputation de piété. Pag. 416, 417.

Ammettiamo per ora il fatto (sul quale però ragioneremo in seguito), ammettiamolo riguardo al tempo presente, e all'Italia; giacchè estenderlo a tutti i tempi e a tutti i luoghi, sarebbe dire che la religione di Gesù Cristo non ha portato in terra, che un aumento di perversità e di superstizione: proposizione che sarebbe ancor più assurda che empia. E sarebbe oltrepassare la tesi dell'illustre autore, che vuol parlare degli effetti della religione cattolica solamente in Italia. Ammesso dunque per ora il fatto, supponiamo, affine di cavarne un resultato utile, e non un argomento di declamazione, che si desse a un uomo l'incarico di proporre i rimedi per un così tristo stato di cose.

Quali ricerche dovrà fare quest'uomo? La prima sarà senza dubbio d'informarsi se questa costumanza venga da una legge, o sia un abuso. So che questa distinzione è ricantata: ma bisogna pure riproporla ogni volta che è il mezzo di non fare di due questioni una sola, che è come cambiar due strade in un laberinto. Se si dirà che è effetto d'una legge, si dovrà allegarla: assunto impossibile e riconosciuto implicitamente falso dall'autore, il quale, rimproverando questa condotta all'Italia, in confronto con la Francia e con la Germania, viene a concedere che si può esser cattolici senza tenerla, che dunque non è fondata su una legge. Se si dirà che è un abuso, allora l'uomo che abbiamo supposto non dovrà più cavarne conseguenze contro la legge, ma cercare il vizio nella trasgressione di essa; e la discussione muta affatto specie. Dovrà cercare quali siano gli ostacoli che impediscono l'effetto naturale della legge, e quali i mezzi per farla eseguire. Ammesso dunque il fatto, ne resulterebbe che quest'inconveniente esiste in Italia, perchè gl'Italiani non sono abbastanza cattolici; che, per levarlo di mezzo, bisogna fare in maniera che diventino più esattamente cattolici, come si suppongono quelli di Francia e di Germania.

Se nell'ordine civile si tenesse per regola generale d'abolire tutte le leggi che non sono universalmente eseguite, si terrebbe una regola pessima: benchè, in molti casi, la trasgressione della legge possa arrivare al segno di renderla inutile e dannosa, e essere un ragionevole motivo di abolirla. Ma nelle cose della religione, la regola sarebbe ben più falsa, perchè le leggi essenziali della religione non sono calcolate sugli effetti parziali e temporari, nè si piegano alle circostanze, ma intendono di piegar tutto a sè; sono emanate da un'autorità inappellabile, ed è impossibile all'uomo il sostituirne delle più convenienti. Il ministero ecclesiastico istituito da Gesù Cristo, è una di tali leggi; e il peggiore abuso che gli uomini possano fare di questo ministero, è quello di distruggerlo per quanto è in loro, col farlo cessare in qualche luogo, e per qualche tempo. Il sistema della Chiesa non è, nè dev'essere, d'estirpare gli abusi a qualunque costo, ma di combinare la conservazione di ciò che è essenziale, con l'estirpazione, o con la possibile diminuzione degli abusi: essa non imita l'artefice imperito e impaziente che spezza l'istrumento, per levarne la ruggine. Perchè ci sono abusi? Perchè gli uomini sono portati al disordine delle passioni. E perciò appunto Gesù Cristo ha data l'autorità alla Chiesa, ha istituito il ministero; perciò appunto ìl ministero è indispensabile. Quello che la Chiesa vuole evitare prima di tutto, è il male orribile d'un popolo senza cristianesimo, e l'assurdità d'un cristianesimo senza ministero. È necessario che i ministri abbiano di che vivere; e per questo fine ci sono due mezzi. L'uno sarebbe, di scegliere esclusivamente i ministri tra gli uomini provvisti di beni di fortuna: mezzo irragionevole e temerario, che, restringendo arbitrariamente la vocazione divina a una sola classe d'uomini, sconvolgerebbe affatto l'ordine del governo ecclesiastico; l'altro è d'ordinare che il ministero dia di che vivere a chi lo esercita: mezzo tanto ragionevole, che è stato stabilito in legge dal principio del cristianesimo; poichè il prete, servendo all'altare, s'inabilita ad acquistarsi il vitto altrimenti. Dunque i fedeli devono somministrare il mantenimento a' ministri dell'altare: ecco la legge. Ma, tra i ministri, che sono uomini, non mancherà chi, rivolgendo all'avarizia ciò che è destinato al bisogno, usi illegittimamente del diritto certo di ricevere, estendendolo a cose a cui non è applicabile; ma tra i fedeli non mancherà chi, dall'idea vera, che è un'opera bona il provvedere al mantenimento de' ministri, passi a dare a quest'opera un valore che non ha, attribuendo ad essa gli effetti che appartengono esclusivamente ad altre opere indispensabili, e sia generoso per dispensarsi d'essere cristiano: ecco l'abuso. E siccome quest'abuso è contrario allo spirito e alla lettera dell'istituzione, così il vero mezzo di levarlo, sarà di ricorrere all'istituzione stessa. Così hanno fatto tante volte quelli a cui è confidata l'autorità di farlo direttamente. La storia ecclesiastica attesta a ogni passo i loro sforzi, e spesso le riuscite: per non andar lontano, l'esempio del concilio di Trento citato qui ne è una prova; molti papi e molti vescovi misero una cura particolare a questo loro dovere; quanto non ha fatto in questa parte il solo san Carlo, stando sempre attaccato alla Chiesa? Mai insomma non sono mancati nel clero cattolico gli uomini zelanti e sinceri che alzassero la voce contro questi abusi: e li correggessero dove potevano. Tutti i fedeli finalmente possono in qualche parte rimediare agli abusi d'ogni genere, se non altro con l'essere essi medesimi pii, vigilanti, osservatori della legge divina: perchè è indubitabile che gli abusi nascono dove gli uomini li desiderano, e che gli uomini li desiderano quando sono corrotti, e, non amando la legge, se ne fingono un'altra; che chi riforma sè stesso coopera alla riforma dell'intero corpo a cui appartiene.

Abbiamo ammesso il fatto, affine di provare che non ragionerebbe chi da esso concludesse contro la religione; ma ora converrà esaminarlo. « Il prete, dice l'illustre autore, vive de' peccati e de' terrori del popolo; il peccatore moribondo prodiga, per pagar messe e rosari, il danaro accumulato spesso per mezzi iniquissimi: accheta a prezzo d'oro la sua coscienza, e si crea presso il volgo la riputazione d'uomo pio. »

Osservo di passaggio che, per quanto io sappia, non s'è mai parlato di retribuzioni per rosari; e, del rimanente, non essendo la recita di questi una parte del ministero ecclesiastico, se ci fossero retribuzioni, non verrebbero necessariamente ai preti.

S'osservi poi, cosa molto più importante, che non solo è dottrina cattolica, che, a scontare il peccato d'avere accumulato danaro per mezzi iniqui, è condizione necessaria la restituzione, quando sia possibile, e che rivolgerlo ad altri usi, per quanto santi possano essere, è un inganno, è un persistere nell'ingiustizia; ma ancora, che questa dottrina è universalmente predicata e conosciuta in Italia. Non oso affermare che non ci possa essere alcun ministro prevaricatore, il quale insegni il contrario; ma, se ne esiste alcuno, è certamente un'eccezione tanto rara, quanto deplorabile.

È noto quante restituzioni si facciano per mezzo de' sacerdoti. Que de restitutions, de réparations, la confession ne fait–elle point faire chez les catholiques! (126) Que' sacerdoti inducono allora un uomo ad acchetare la sua coscienza a prezzo d'oro; ma quest'oro, il quale non fa che passare per le loro mani, è un testimonio che, lungi dall'alterare la purità della religione per appropriarselo, insegnano che non può diventar mezzo d'espiazione, se non ritornando donde era stato ingiustamente levato.

È vero che il prete, il quale faccia il dover suo, cerca di eccitare ne' fedeli il terrore de giudizi divini, quel terrore, da cui, per la portentosa nostra debolezza, tutto ci distrae: terrore santo, che ci richiama alla virtù; terrore nobile, che ci fa riguardare come sola vera sventura quella di fallare la nostra alta destinazione, terrore che ispira il coraggio, avvezzando chi lo sente a nulla temere degli uomini. Ma, dopo avere eccitato questo terrore con le sue istruzioni, c'è forse un prete il quale insegni che il mezzo, di viver sicuri, è di largheggiare coi preti? C'è chi n'abbia sentito uno solo? O non dicono tutti piuttosto: Lavatevi, mondatevi, levate dagli occhi di Dio la malvagità de' vostri pensieri, cessate di mal fare: imparate a far del bene, cercate quello che è giusto, soccorrete l'oppresso, proteggete il pupillo, difendete la vedova? (127)

Certo, non si vuol dire che l'avarizia non possa vedere un oggetto di lucro nelle cose più pure, più sacre e più terribili, e (non lo dirò con parole mie, ma con quelle che proferiva raccapricciando un vescovo illustre) faire du sang adorable de Jésus Christ un profit infâme; (128) e per quanto la Chiesa dovesse aver ribrezzo a supporre una tale prevaricazione, ha dovuto parlarne per prevenirla, e per renderla difficile e rara, se non impossibile. Il concilio di Trento, dopo aver professata la dottrina perpetua della Chiesa intorno al Purgatorio, al giovamento che l'anime in esso ritenute ricevono dai suffragi de fedeli, e principalmente dall'accettevole sacrificio dell'altare, dopo aver prescritto ai vescovi d'insegnare e di mantenere questa dottrina, soggiunge: « quelle cose che vengono da una certa curiosità o da superstizione, o sanno di turpe guadagno, le proibiscano come scandoli e inciampi de' fedeli. » (129)

Non è qui il luogo d'indicare quest'inciampi, e di riprender quelli che li mettono nella strada della salute: nè ciò forse si converrebbe a uno a cui manca ogni genere d'autorità. Negare quelli che esistono, o giustificarli con ragioni speciose, presentare come necessario alla Chiesa ciò che è la sua desolazione e la sua vergogna, non si conviene nè a me, nè ad alcuno, come cosa vile, menzognera, e quindi irreligiosa. E non credo di mancare all'argomento col passarli sotto silenzio: credo anzi d'averlo trattato, toccando le ragioni per le quali mi par che si possa affermare che, tra gli abusi pur troppo reali, non esiste (moralmente parlando) l'abuso orribile di sostituire le largizioni ai doveri, e d'acchetare la coscienza a prezzo d'oro.

Ha però sempre parlato la Chiesa per mezzo de concili, de' sommi pontefici, de' vescovi: un esempio, tra mille, di zelo e di sincerità, in questa materia, si può vedere ne' discorsi sinodali del vescovo citato dianzi, di quel Massillon che fu un tanto eloquente, val a dire un fedele interprete della legge divina. (130) Il nemico più ardente e più sottile della Chiesa non svelerà mai con più veemenza e con più acume gli orribili effetti dell'avarizia che entra nel core d'un ministro del santuario; e nessun figlio più docile e più tenero della Chiesa non li deplorerà con più gemito, con più umiltà, con più vivo desiderio di veder levata da essa questa deformità.

Ma noi non crediamo che sia facile l'avere questo spirito d'imparzialità; crediamo piuttosto che, nel giudicare i difetti de' sacerdoti, è troppo facile il credere alle prevenzioni; e che queste vengono da un principio d'avversione che tutti abbiamo pur troppo al loro ministero. Quelli che ci additano la strada stretta della salute, che combattono le nostre inclinazioni, che, col loro abito solo, ci rammentano che c'è un ministero di sciogliere e di legare, che c'è un giudice di cui essi sono i ministri, un modello, per annunziare il quale essi sono istituiti; ah! è troppo preziosa al senso corrotto l'occasione di renderli sospetti, per lasciarla sfuggire: è troppa l'avversione della carne e del sangue alla legge, perchè non s'estenda anche a quelli che la predicano, perchè non si desideri di poter dire ch'essi stessi non la seguono, e che quindi può tanto meno obbligar noi che l'ascoltiamo da loro. E è, in gran parte, quest'avversione, che ci move a rovesciare in biasimo di tutti il male che vediamo in alcuni di loro, a dire che nulla sarebbe più rispettabile del ministero, se ci fosse chi lo esercitasse degnamente, e a chiuder poi gli occhi quando ci si presenta chi degnamente lo eserciti, o a malignare sulle virtù che non possiamo negare. Quindi, se nella condotta zelante d'un prete non si può supporre avarizia, perchè la povertà volontaria e la generosità sono troppo evidenti, si spiega quella condotta col desiderio di dominare, di dirigere, d'influire, d'essere considerato. Se la condotta è tanto lontana dagl'intrighi, tanto franca e tanto semplice, che non dia luogo nè anche a quest'interpretazione, ci si suppone il fanatismo, lo zelo inquieto e intollerante. Se la condotta spira amore, tranquillità e pazienza, non resta più che attribuirla a pregiudizi, a piccolezza di mente, a scarsezza di lumi: ultima ragione con la quale il mondo spiega ciò che è la perfezione d'ogni virtù e d'ogni ragionamento.

Sì, ci sono de' preti che disprezzano quelle ricchezze delle quali annunziano la vanità e il pericolo; de preti che avrebbero orrore di ricevere i doni del povero, e che si spogliano in vece per soccorrerlo; che ricevono dal ricco con un nobile pudore, e con un interno senso di repugnanza, e, stendendo la mano, si consolano solo col pensare che presto l'apriranno per rimettere al povero quella moneta che è tanto lungi dal compensare agli occhi loro un ministero, il quale non ha altro prezzo degno che la carità. Essi passano in mezzo al mondo, e sentono i suoi scherni sull'ingordigia de' preti; li sentono e potrebbero alzar la voce, e mostrar le loro mani pure, e il loro core desideroso solamente di quel tesoro che la ruggine non consuma, (131) avaro solo della salute de' loro fratelli; ma tacciono, ma divorano le beffe del mondo, ma si rallegrano d'esser fatti degni di patir contumelia per il nome di Cristo. (132)




CAPITOLO XI

DELLE INDULGENZE

Mais l'on a considéré les indulgences gratuites celles que d'aprés les concessions des papes on obtient par quelque acte extérieur de piété, comme moins abusives; on ne sauroit toutefois en concilier l'existence avec aucun principe de moralité. Lorsqu'on voit, par exemple, deux cents jours d'indulgence promis pour chaque baiser donné à la croix qui s'élève au milieu du Colisée, lorsqu'on voit dans toutes les églises d'Italie tant d'indulgennzs plénières si faciles à gagner, comment concilier ou la justice de Dieu ou sa miséricorde, avec le pardon accordé à une si foible pénitence, ou avec le châtiment réservé à celui qui n'est point à portée de le gagner par cette voie si facile? Pag. 417.

Qui si presentano naturalmente quattro questioni.
   1°. Cos'è l'Indulgenza ecclesiastica?
   2°. Ci può essere eccesso nelle concessioni d'indulgenze?
   3°. Le concessioni eccessive vanno contro i princìpi della moralità?
   4°. Se non producono quest'effetto, qual effetto producono?
Per risolvere queste questioni, in quanto è richiesto dall'argomento, non abbiamo a far altro che rammentare in compendio ciò che è insegnato universalmente nella Chiesa per l'istruzione de' fedeli che vogliono profittare dell'indulgenze, e ciò che è deciso da essa, per la regola di quelli a cui è data dal suo divin fondatore la potestà di concederle.

1°. Cos'è l'indulgenza ecclesiastica?

Ne prendo la definizione dal catechismo della diocesi di Milano, che concorda con tutti i catechismi approvati dalla Chiesa. « L'indulgenza è una remissione di penitenze o pene temporali, che rimangono da scontare per i peccati già rimessi quanto al reato della colpa e della pena eterna. (133)»

2°. Ci può essere eccesso nelle concessioni d'indulgenze?

Senza dubbio: il IV concilio di Laterano e quello di Trento hanno parlato di quest'eccesso, e ne hanno o prescritti o indicati i rimedi.

3°. Le concessioni eccessive d'indulgenze vanno contro i princìpi della moralità?

No, di certo. La maniera di dispensar l'indulgenze, dice Bossuet, riguarda la disciplina. (134) Posto ciò, le concessioni eccessive saranno bensì un abuso; ma gli abusi di fatto non possono alterare i princìpi della moralità, i quali non appartengono alla disciplina, ma alla fede. Essendo ogni principio di moralità un domma, non può esser contradetto che da un errore dommatico. Vediamo ora, più in particolare, come i princìpi della moralità rimangono intatti, anche con ogni possibile eccesso di concessioni d'indulgenze.

La cosa essenziale, in primo grado, a ristabilire la moralità dell'uomo caduto nella colpa, è la rettitudine, o piuttosto il raddrizzamento della volontà e, per conseguenza, dell'opere, quando e fin dove ci sia la possibilità d'operare. E questa cosa essenziale, l'indulgenza, non che essere un mezzo di farne di meno, la suppone e l'esige, poichè non è concessa se non a chi è stata rimessa la colpa, cioè all'uomo che sia in istato di grazia; parole che significano: amor di Dio e de' suoi comandamenti, dolore e detestazione de' peccati commessi, avversione al peccato di qualunque sorte, amor degli uomini senza eccezione, perdono dell'offese ricevute, riparazione dei torti fatti, adempimento di tutti i doveri essenziali, in somma la conformità dell'animo e dell'azioni alla legge divina. (135) Dico cose note al cattolico, anche il più rozzo, purchè sia capace di confessarsi; giacchè l'assoluzione, per la quale il peccatore è rimesso in stato di grazia, non è data, o non è valida, se non a queste condizioni. E dico insieme cose che importano una moralità sconosciuta a' più acuti e profondi pensatori del gentilesimo; quella moralità manifestata dalla rivelazione, e che s'estende, come oggetto, a tutto il bene, e come regola, a tutto l'uomo.

Con questa osservazione è levato, di mezzo l'equivoco che potrebbe nascere da quelle parole: Come conciliare la giustizia di Dio col perdono accordato a una così debole penitenza? L'opere alle quali è annessa l'indulgenza, non servono punto a ottenere il perdono della colpa, per la quale il peccatore è riconciliato con Dio. Questo perdono è anzi, come s'è visto, un preliminare necessario all'acquisto dell'indulgenza; e s'ottiene per que' mezzi eminentemente e soprannaturalmente morali, di cui s'è discorso in un capitolo antecedente.

L'indulgenza dunque non s'applica, come s'è visto ugualmente, se non alla soddisfazione della pena temporale, dovuta per il peccato alla giustizia divina, anche dopo rimessa la colpa, e la pena eterna. Ed è la Chiesa che insegna (certo, non senza oppositori) che al peccatore riconciliato rimane un tal debito; e mette per un'altra condizione essenziale al ristabilimento nello stato di grazia (cioè in uno stato di moralità soprannaturale) il riconoscimento del debito medesimo, e il sincero e fermo proposito di scontarlo, per quanto possa, in questa vita, con opere penitenziali, sia ingiunte, sia liberamente scelte, e con l'accettar pazientemente i gastighi temporali che gli possono essere mandati da Dio. Non già che le nostre opere abbiano alcun valore a ciò, nè che noi possiamo, in mariera veruna, scontar di nostro il debito contratto con la giustizia infinita offesa da noi; ma i meriti infiniti dell'Uomo Dio, i quali ci ottengono il perdono della colpa, sono anche quelli che danno alle nostre opere penitenziali un valore che le rende atte a scontarne la pena. E la Chiesa, o prescrivendo o proponendo alcune di queste opere, applica ad esse, in maniera particolare, un tal valore, per l'autorità conferitale da Quello stesso; da cui procede ogni merito. Ma intende forse, con questo, di restringere a tali opere tutto l'obbligo e tutto il lavoro della penitenza? Per immaginarsi una cosa simile, bisognerebbe non aver cognizione veruna del suo insegnamento su questa materia. Cito di novo, come un saggio di questo universale insegnamento il catechismo citato dianzi; il quale, alla domanda: « Con quale spirito ho da procurare l'acquisto dell'indulgenze? » risponde:

« Fate prima dalla parte vostra tutto ciò che potete per soddisfare a Dio coll'esercitarvi in ogni opera salutare, e massime in quelle di mortificazione e di misericordia verso i prossimi. Poi conoscendo di non poter soddisfare abbastanza per i vostri peccati, nè colle penitenze imposte dal confessore, nè colle vostre spontanee, e ben sapendo di non aver tollerati colla debita pazienza e rassegnazione i flagelli, coi quali Dio v'ha amorosamente visitato a questo fine, procurate con ogni studio d'acquistar l'Indulgenze, profittando così dello spirito caritatevole della Chiesa nel dispensarle. » (136)

Ed ecco come, col richiedere per condizioni indispensabili, la confessione del core, e il desiderio di soddisfare, per quanto si possa, alla giustizia divina, desiderio che non è sincero, se non s'accompagna con una vita, penitente; ecco, dico, come, non solo l'indulgenza in genere, ma la più ampia indulgenza concessa alla più piccola opera si concilii can tutti i princìpi della moralità.

Ma come conciliare la misericordia di Dio col gastigo riservato a chi non è in caso di guadagnare il perdono per questa strada così facile?

S'osservi che è quasi impossibile il caso d'un fedele, a cui sia chiusa ogni strada di ricorrere all'indulgenze della Chiesa. Ma supponendo questo caso, la Chiesa è ben lungi dall'asserire che a questo fedele si riservi gastigo. Essa dispensa i mezzi ordinari di misericordia che Dio le ha confidati; ma è ben lungi dal voler circoscrivere questa misericordia infinita; dal pensare che Quei che leva e quando e cui gli piace (137) non possa concedere la somma indulgenza al sommo desiderio d'ottenerla per mezzo della Chiesa, quando sia chiusa la strada di chiederla per questo mezzo.

4°. Se le concessioni eccessive d'indulgenze non vanno contro i princìpi della moralità, qual altro effetto producono?

Un effetto dannoso certamente, come tutti gli eccessi; e non occorre affaticarsi a cercarlo, poichè ce lo indica il concilio di Trento. L'effetto è di snervare la disciplina. « Il Sacrosanto Sinodo ... desidera che, nel concedere l'indulgenze, s'usi moderazione, la consuetudine antica e approvata dalla Chiesa, acciocchè con la troppa facilità non si snervi la disciplina ecclesiastica. » (138)

Infatti, « essendo le pene soddisfattorie, come un freno al peccar di novo, e avendo l'efficacia di rendere i penitenti più cauti e vigilanti nell'avvenire, ... e di distruggere gli abiti viziosi con l'opposte azioni virtuose, » come insegna il medesimo concilio; (139) l'eccessiva diminuzione di queste pene, vien quasi a far loro perdere questo vantaggio; e la stessa ragione di previdente misericordia per cui sono imposte, non solo come espiazione, ma anche come rimedio e aiuto, consiglia la moderazione nel concederne la remissione.

Ma l'eccesso si trova egli negli esempi citati e accennati dall'autore? Non tocca a me a deciderlo, nè importa qui il deciderlo, essendosi dimostrato come l'indulgenze s'accordino co' princìpi della moralità: che era appunto la questione.

Non sarà in vece fuor di proposito l'osservare un altro esempio d'accuse che si contradicono. Quella che s'è esaminata, cadeva sulla leggerezza delle penitenze imposte per soddisfare alla giustizia divina: accusa nella quale è supposto e l'obbligo che ne rimane al peccatore, anche riconciliato, e l'attitudine a ciò dell'opere penitenziali. Obbligo e attitudine, che furono da' novatori citati sopra, e da Calvino principalmente, dichiarati una vana immaginazione, anzi un'esecrabile bestemmia, (140) un rapire a Cristo l'onore che Gli appartiene, d'esser Lui solo oblazione, espiazione, soddisfazione per i peccati. (141) Rapir l'onore a Cristo, il dire che opere per sè morte, e patimenti sterili per l'eterna salute, possano, dalla sua gloriosa vittoria sopra il peccato, acquistar vita e virtù! Come se non fosse questo medesimo un confessar la sua infinita potenza, non meno che l'infinita sua bontà; o come se la Chiesa attribuisse a quell'opere e a que' patimenti altro valore che quello che hanno da Lui, nel quale viviamo, nel quale meritiamo, nel quale soddisfacciamo. (142) Come se non fosse un effetto, dirò così, naturale dell'accordo operato dalla Redenzione, tra la giustizia e la misericordia, il commettere la vendetta dell'offesa all'offensore medesimo, e far della punizione un sacrifizio volontario! E si veda come la verità strascini qualche volta verso di sè anche chi le volge risolutamente le spalle, e lo sforzi ad avvicinarsele, se non a riconoscerla intera qual è. Calvino medesimo, interpretando quel luogo di san Paolo: Do compimento nella mia carne a ciò che rimane de' patimenti di Cristo; (143) dopo aver pronnnziato che ciò non si riferisce a espiazione nè a soddisfazione di sorte veruna, ma a que' patimenti coi quali conviene che i membri di Cristo, cioè i fedeli, siano provati, finchè rimangono nella carne, spiega così questo pensiero: Dice (san Paolo) che ciò che rimane de' patimenti di Cristo, è il patire che fa di continuo ne suoi membri, dopo aver patito una volta in sè stesso. Di tanto onore Cristo ci fa degni, da riguardar come suoi i nostri patimenti. (144)

È Cristo che patisce ne' suoi membri; e questi patimenti rimangono sterili, e non hanno alcuna virtù d'espiare! Cristo si degna di riguardarli come suoi; e il Padre ne rigetta (offerta, come ingiuriosa a Cristo! ed è un'esecrabile bestemmia il dire che, per questa e per questa sola ineffabile degnazione, possono essere uniti co' suoi, e partecipar così del loro merito infinito!

Del rimanente, anche quest'argomento de' novatori contro la dottrina cattolica non avrebbe forza che contro la loro, se n'avesse veruna. Infatti, per mantenere intero e illibato a Cristo l'onere che gli appartiene, (145) dissero forse che la soddisfazione offerta da Lui alla giustizia divina, per i peccati, s'applichi da sè a tutti i peccatori? Non già; ma ai soli giustificati, e giustificati per la loro fede nella promessa. E, cosa strana! non avvertirono mai, in dispute così lunghe, e in tanta ripetizione dello stesso argomento, che il credere è un atto umano, nè più nè meno dell'operare, e che, col farne una condizione riguardo all'effetto, facevano anch'essi dipendere, per una parte, dall'uomo, cioè da ogni uomo in particolare, l'esser quella soddisfazione applicata a lui: che era la sola cosa in questione; giacchè l'efficacia intrinseca, la perfezione, la pienezza, la sovrabbondanza di essa non fu mai messa in questione nella Chiesa; per l'insegnamento della quale, n'avevano, di certo, avuta cognizione essi medesimi, prima di trovarla nelle Scritture. Quella condizione, dico, rapirebbe davvero l'onore a Cristo, se l'onor di Cristo dovesse consistere, com'essi pretesero, nel non lasciar nulla a fare all'uomo, al quale ha dato di poter tutto in Lui. (146) La Chiesa, lontana del pari e dall'insegnare una cosa simile, e dall'attribuire all'uomo alcun onore che abbia principio da lui, riconosce da Cristo ugualmente e la fede e il valore dell'opere; e lo glorifica e lo benedice d' aver, col suo onnipotente sacrifizio, rinnovato tutto l'uomo, e fatto che, siccome tutte le facoltà di questo avevano potuto servire alla disubbidienza e alla perdizione, così potessero tutte diventare istrumento di riparazione e di merito.




CAPITOLO XII

SULLE COSE CHE DECIDONO DELLA SALVEZZA E DELLA DANNAZIONE

Le pouvoir attribué au repentir, aux cérémonies religieuses, aux indulgences, tout s'étoit réuni pour persuader au peuple que le salut ou la damnation éternelle dépendoient de l'absolution du prêtre, et ce fut encore peut–être là le coup le plus funeste porté à la morale. Le hasard, et non plus la vertu, fut appelé a décider du sort éternel de l'âme du moribond. L'homme le plus vertueux, celui dont la vie avoit été la plus pure, pouvoit être frappé de mort subite, au moment où la colére, la douleur, la surprise lui avoient arraché un de ces mots profanes, que l'habitude a rendus si communs, et que d'apres les décisions de l'Église, on ne peut prononcer sans tomber en péché mortel; alors sa damnation étoit eternelle, parce qu'un prêtre ne s'étoit pas trouvé présent pour accepter sa pénitence, et lui ouvrir les portes du ciel. L'homme le plus pervers, le plus souillé de crîmes, pouvoit au contraire éprouver un de ces retours momentanés à la vertú, qui ne sont pas étrangers aux coeurs les plus dépravés; il pouvoit faire une bonne confession, une bonne communion, une bonne mort, et être assuré du paradis. Pag. 417, 418.

Queste obiezioni ricadono, la più parte, sulla dottrina che è stata difesa o spiegata nel Capitolo IX; al quale, per conseguenza, ci rimettiamo. Qui non si farà altro che ragionare sopra alcune supposizioni. L'opinione erronea, che la salvezza e la dannazione eterna dipendano dall'assoluzione del prete, è sconosciuta in Italia, dove si tiene, come in tutta la Chiesa, che la salvezza, dipenda dalla misericordia di Dio e dai meriti di Gesù Cristo applicati all'anima che ha conservata l'innocenza acquistata nel battesimo, o che l'ha recuperata con la penitenza. L'autorità del prete, d'assolvere da' peccati è tanto chiaramente fondata nelle parole del Vangelo, che ripeterle è attestarla a evidenza: Saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saranno ritenuti a chi li riterrete. (147) Ma nessuno ha mai inteso che dall'assoluzione dipenda la salvezza, in maniera che non possa sperarla chi è impossibilitato a ricevere quest'insigne benefizio. Oltre che l'uomo può conservare per tutta la vita l'innocenza, non commettendo alcuna di quelle colpe che lo rendono nemico a Dio (e quantunque il mondo non li discerna, non sono cessati i giusti che ci passano senza partecipare alle sue opere), la Chiesa insegna, e tutti i cattolici credono, che la penitenza a cui manca l'assoluzione, ma non il desiderio di essa, nè la contrizione, è accetta a Dio. Dando ai ministri l'autorità d'assolvere, avrebb'Egli mai voluto rendere in certi casi impossibile il pendono? e i doni fatti alla Chiesa possono mai essere a scapito della sua onnipotenza e stella sua misericordia? e perché si degna impiegare la mano dell'uomo, la sua ne sarà accorciata, sicché Egli non possa salvare (148) quelli che ha convertiti a sè?

Quando poi fosse nata questa falsa persuasione, essa non poteva certo venire dalla prima, nè dalla terza delle ragioni qui addotte Non dal potere attribuito al pentimento, perché questo potere renderebbe anzi meno necessaria l'assoluzione a un'anima già ritornata a Dio; non dal potere attribuito all'indulgenze, perché, come già s'è dovuto parlarne, nessuno attribuì mai ad esse quello di salvare dalla dannazione eterna. Quanto alle cerimonie religiose, non ne parlo, non sapendo a quali precisamente si voglia qui alludere.

La Chiesa è tanto lontana dal sospettare che il caso, e non la virtù, possa decidere della sorte eterna dell'anima del moribondo, che non conosce nemmeno questa parola caso (hasard). Non ripete dal caso nè l'essere o no in istato di grazia, nè il morire in un momento piuttosto che in un altro. Se l'uomo virtuoso cade in peccato, non è effetto del caso, ma della sua volontà pervertita; se more in peccato, è un terribile e giusto giudizio.

La Chiesa non suppone che alcun peccato mortale sia compatibile con la conservazione della virtù: quindi se il giusto diventa peccatore, è appunto la virtù, cioè l'avere abbandonata la virtù, che decide della sorte dell'anima sua. La giustizia del giusto non lo libererà, in qualunque giorno pecchi. (149)

Ma non s'intende il vero spirito della Chiesa, non si dà nemmeno, mi pare, un'idea giusta della natura dell'uomo, se si suppone che decada così facilmente dalla giustizia realmente acquistata; se si vuol credere che la conseguenza naturale della vita più pura sia una morte impenitente e la dannazione eterna. Certo, il giusto può cadere: la Chiesa glielo rammenta, perché vegli e perché sia umile, perché tema e perché speri, perché è una verità. Se non potesse cadere, sarebbe questa una vita di prova? Se non potesse esser vinto, dove sarebbe il combattimento? Se non avesse in tutti i momenti bisogno dell'aiuto divino, che? non dovrebbe più pregare. Ma la Chiesa vuol levare al giusto la presunzione, non la fiducia. Come! essa che non parla a' peccatori, che di conversione e di perdono, di penitenza e di consolazione, che rammemora loro i giorni felici che si passano nella casa del Padre, vorrebbe poi contristare gl'innocenti rappresentando il loro stato come uno stato senza fermezza e senza appoggio? La Chiesa, come già s'è dovuto osservare, non consiglia la speranza, ma la comanda. Dice a tutti d'operar la salute con timore e tremore: (150) ma dice anche che Dio è fedele e non permetterà che siano tentati oltre il loro potere; (151) ma non cessa di ripetere ai giusti, che chi ha principiata in loro l'opera bona, la perfezionerà fino al giorno di Cristo Gesù. (152)

Le decisioni della Chiesa, che si cada in peccato mortale pronunziando certe parole profane che l'uso ha rese così comuni, non sono qui citate, nè io le conosco: e bisognerebbe conoscerle per ragionarne. La Chiesa è tanto guardinga in queste distinzioni di peccati, il suo linguaggio è così gastigato, che importerebbe molto di vedere come abbia potuto discendere a questi particolari, e trattarli con l'autorità e con la dignità che le conviene. A ogni modo, il giusto della Chiesa, nutrito de' pensieri santi e generosi dell'altra vita, avvezzo a vincer gl'impeti sensuali d'ogni sorte, intento a regolare con la ragione e con la prudenza ogni suo atto; il giusto della Chiesa ha la guardia alla bocca. (153) Ne' tempi di calma e di silenzio delle passioni, fortifica l'animo contro la collera, contro il dolore; prega affine d'esser sempre tanto presente a sè stesso, che non ci sia sorpresa per lui; se cade, ne prende argomento d'umiltà, e di nova e più instante preghiera. Io non so chi possa insegnare che una di quelle parole profane distrugga il regno di Dio in un'anima; è però certo che, dove Dio regna, il linguaggio è puro e misurato, e che la Chiesa non vuole educar gli uomini nè a far ciò che un'abitudine qualunque abbia reso comune, nè a servirsi d'espressioni appassionate, senza sapienza, senza scopo e senza dignità.

Quanto poi al ritorno momentaneo dell'uomo perverso alla virtù, se n'è ragionato abbastanza, e forse troppo, nel Capitolo IX.




CAPITOLO XIII

SUI PRECETTI DELLA CHIESA

Ce ne fut pas tout: l'Église plaça ses commandements à côté de la grande table des vertu et des vices, dont la connoissance a été implantée dans notre coeur. Elle ne les appuya point par une sanction aussi redoutable que ceux de la Divinité, elle ne fit point dépendre le salut éternel de leur observation; et en même temps elle leur donna une puissance que ne purent jamais obtenir les lois de la morale. Le meurtrier, encore tout couvert du sang qu'il vient de verser, fait maigre avec dévotion, tout en méditant un nouvel assassinat ... car plus chaque homme vicieux a été régulier à observer les commandemens de l'Église, plus il se sent dans son coeur dispensé de l'observation de cette morale céleste, à laquelle il faudroit sacrifier ses penchans dépravés... Pag. 419.

Esaminiamo brevemente le due asserzioni preliminari; quindi parleremo delle relazioni di questi precetti ecclesiastici (154) con le leggi della morale.

1°. La Chiesa pretende di non dare un precetto che non prescriva una azione per sè virtuosa, che non sia un mezzo per purificare, elevare, santificare l'animo, per adempire insomma la legge divina. Se questo si nega, bisogna addurre i precetti o viziosi o indifferenti della Chiesa; se si concede, che cosa si può dire dell'aver essa messi i suoi precetti a fianco della gran tavola de' vizi e delle virtù? Che gli ha messi nell'ordine che conveniva.

Che poi la cognizione della gran tavola delle virtù e de' vizi sia inserita ne' nostri cori, è una questione incidente in questo luogo e, del rimanente, posta in termini non abbastanza chiari, come è per lo più di quelle che sono espresse per mezzo di metafore. Presa nel senso più ovvio, una tal proposizione parrebbe voler dire che l'uomo abbia dalla natura (qualunque ne sia il mezzo e il modo) una cognizione lucida, intera, inalterabile, di ciò che sia virtù e di ciò che sia vizio. Ammessa la qual cosa, ogni dottrina soprannaturale e rivelata, su questa materia, sarebbe superflua, e quindi falsa; e sarebbe quindi senza fondamento, come senza motivo ogni precetto religioso: giacchè, avendo ogn'uomo nel cor suo, quella gran tavola, a che pro, e con quale autorità, quelle medesime del Sinai? Ma una tale supposizione è apertamente rinnegata dal fatto, non meno che dalla rivelazione, come se n'è discorso a lungo in un capitolo antecedente. Se poi s'intende semplicemente, che ci sia nell'uomo, dotato com'è d'intelletto e di volontà, una potenza di discernere il bene e il male morale; potenza però non solo limitata di sua natura, ma (d'onde che ciò sia venuto) indebolita e guasta a segno, e di prender troppo spesso il male per bene, il bene per male, e d'attaccarsi al male, e rifuggire dal bene, anche conoscendoli, come il fatto pur troppo dimostra; e se si ammette insieme, che ci sia una religione istituita da Dio, appunto per dirigere e aiutar l'intelletto nel discernimento del bene e del male, e la volontà nella scelta; allora bisognerà dire che uno de' caratteri essenziali e indispensabili di questa religione dev'essere il promulgare dei comandamenti, e promulgarli con un'autorità soprannaturale, come la sua origine.

2°. E così ha fatto la Chiesa: ha muniti i suoi comandamenti della stessa sanzione che hanno i comandamenti di Dio, perchè è da Dio essa medesima; e facendo altrimenti, diffiderebbe dell'autorità conferitale da Colui che disse Chi non ascolta la Chiesa sia riguardato come un pagano e un pubblicano. (155) E cosa sarebbero de' comandamenti senza sanzione? o qual altra sanzione si potrebbe dare a de' comandamenti che riguardano anche, anzi principalmente, la volontà? La Chiesa dunque fa dipendere, come s'è già detto altrove, la salvezza dall'osservanza de' suoi comandamenti, la trasgressione de' quali non può venire che da un core indocile e noncurante di quella vita, che é data a chi l'apprezza, a chi la sospira, a chi la cerca coi mezzi ordinati da Gesù Cristo. (156) Questa è la sua dottrina perpetua, tanto manifesta e universale, che ogni cattolico può darne testimonianza quando si sia.

Ma l'essenziale da esaminarsi è l'effetto attribuito a questi comandamenti, d'esser quasi un orribile supplemento alle leggi eterne della morale, una scusa per trasgredirle senza rimorso: questo è il punto di vista, e l'unico punto di vista dal quale sono osservati nel testo. Due cose sono qui da considerarsi: il fatto, e la dependenza di esso da' princìpi costitutivi della Chiesa.

Il fatto è una parte importantissima di statistica morale. Ora ecco quali sono, al parer mio, le massime da aversi di mira, e le ricerche da farsi, per venire alla cognizione dì esso.

La religione non comanda che cose sante: credo questo punto fuori di controversia. Quindi la vera e intera fedeltà alla religione è incombinabile con qualunque delitto; quindi l'uomo che vuol esser vizioso, non potendo conciliare le sue azioni con la religione quale è, tende ad abbandonarla o ad alterarla, tende all'irreligione o alla superstizione. Nel primo caso, la sua avversione ai precetti che non vuole osservare lo porta a desiderare che siano mere finzioni umane; e la rabbia d'averli violati cambia qualche volta il desiderio in persuasione.

Ma può anche cadere in un'altra specie d'accecamento. Sa che il delitto lo esclude dalla parte de' giusti; ma non può lasciar di credere alla promessa, e non ci vorrebbe rinunziare; si sforza di dimenticare che chi ha violato un precetto ha violata tutta la legge, (157) e vorrebbe esser fedele in quelle parti che non gl'impongono il sacrifizio della sua più forte passione. Sa ancora che è un atto di dovere l'eseguire certi comandamenti, e eseguendoli si persuade confusamente di non essere affatto fuori dell'ordine, e di tenere ancora un piede nella strada della salvezza: gli pare di non essere affatto abbandonato da Dio, poichè fa alcuni atti che Dio gli comanda. E l'oscuramento della sua mente può qualche volta arrivare al segno (poichè a che non va l'intelletto soggiogato dalle passioni?) che quegli atti, quantunque scompagnati dall'amore della giustizia, gli paiano una specie d'espiazione; e prenda per un sentimento di religione quello che non è altro che un'illusione volontaria dell'empietà.

Ora, per decidere se tra i delinquenti di mestiere in Italia sia più frequente il disprezzo della religione, o questa superstizione, ognuno vede quali ricerche converrebbe aver fatte: visitare le prigioni, vedere se coloro che ci stanno per gravi delitti nutrono sentimenti di rispetto per la Chiesa, o se ne parlano con derisione, chiedere a quelli che, per ufizio, gli esaminano e gli osservano, chiedere ai parrochi (qualora non si volesse averli per sospetti di parzialità) se coloro che si sono abbandonati al mal vivere si distinguevano nell'osservanza de' precetti ecclesiastici; prendere insomma le più esatte informazioni. Le quali non essendo io in caso di prendere, non posso che esprimere un'opinione, quella che mi son fatta, per la tendenza che abbiamo tutti a formarci un giudizio generale sui fatti d'uno stesso genere, quantunque le notizie che ne abbiamo non siano, nè in quel numero, nè di quella certezza che si richiederebbe a dimostrarne la verità. Sono dunque di parere, che, tra quelli che corrono in Italia la deplorabile carriera del delitto, ci sia, a' nostri giorni, poca o nessuna superstizione, e molta noncuranza, o ignoranza di tutte le cose della religione. E non basta a farmi rinunziare a questa opinione, che l'illustre autore abbia manifestata l'opposta; perchè, per quanto peso abbia la sua autorità, una decisione sopra un complesso di fatti non si riceve se non con molte prove e con molti ragionamenti. So bene che molti stranieri fanno un'eccezione per l'Italia, adottando senza esame tutto ciò che le si possa attribuire, in fatto di superstizione; ma non sono persuaso della bontà di questo metodo. Non pretendo quindi di proporre agli altri la mia opinione, ma la sottopongo al giudizio di quelli che hanno potuto fare delle osservazioni sufficienti su questo fatto.

Quantunque però qui non si tratti di difender l'Italia, ma la religione, non si può a meno di non protestar di passaggio contro l'interpretazione che potranno dare all'esempio addotto dall'autore quegli stranieri appunto che sono avvezzi a credere anche al di là del male che loro vien detto di questa povera Italia; e i quali, sentendo parlare d'assassini che mangiano di magro, potranno farsi subito l'idea, che l'Italia sia piena d'uomini che vivano così tra il sicario e il certosino. Se mai, per un caso strano, questo libricciolo, capitasse alle mani d'alcuno di loro, vedano se è troppa pretensione il chiedere che si facciano dell'altre ricerche, prima di formarsi una tale idea d'una nazione.

Ma, per venire alla relazione di questi fatti co' princìpi della Chiesa, l'impressione che, per l'onore della verità e della religione, importa sopra tutto di distruggere, è quella che può nascere contro i precetti della Chiesa e contro il suo spirito, dal veder questi precetti presentati come in contrasto con le leggi della morale; dal veder messi insieme astinenza e assassinio, e (negli altri, esempi, che ho creduto inutile di trascrivere), culto dell'immagine, libertinaggio, digiuno ecclesiastico e spergiuro, come se queste cose fossero in certo modo cause e effetti; dal veder supposta nel core dell'uomo vizioso quasi una progressione parallela di fedeltà ai precetti ecclesiastici, e di scelleratezza. No, non c'è alcuna connessione tra queste cose; sono idee e nomi repugnanti; non c'è lato per cui si tocchino, c'è tra di esse la distanza che separa il bene dal male. No, la Chiesa non ha mai proposti i suoi precetti in sostituzione delle leggi della morale: non si potevano ideare precetti che fossero più conducenti alla vera, all'intera, all'eterna morale: credersi dispensato da essa, osservando esteriormente alcuni di que' precetti, non può essere nella mente del cristiano che una demenza irreligiosa; e una demenza di questo genere dev'essere sempre stata rara.

Perché, altro è che degli uomini perversi, calpestando que' gravissimi comandamenti, da' quali dipende la conservazione del viver sociale, abbiano mantenuta una fedeltà esteriore a quelli che sono dati dalla Chiesa per facilitare l'adempimento d'ogni giustizia; altro è che questa fedeltà stessa gli abbia incoraggiti a calpestare i primi. Hanno osservata la parte più facile della legge; hanno commesse quelle sole colpe che non sapevano rifiutare alle loro inclinazioni corrotte; non hanno aggiunto il disprezzo d'alcuni precetti alla violazione degli altri, perché questo disprezzo non aveva per loro un'attrattiva bastante da farli diventar rei anche in questo: ecco tutta la storia del loro animo. Che se c'è pure l'uomo vizioso che si senta dispensato dalla morale, quanto più è regolare nell'osservare i comandamenti della Chiesa, si trovi nelle massime e ne' precetti della Chiesa il fondamento di questo suo sistema, s'indichi in essi il punto donde s'è mosso per arrivare a un tale delirio; si dica quali istituzioni potrebbero esser atte a ritenere nell'ordine una mente e un core, quali si suppongono a quest'uomo. L'assassino mangia di magro con divozione! Ah! quanto è lontano questo sentimento, che riunisce il sacrifizio e l'amore, dal core dove è risoluta la morte d'un fratello! Egli mangia di magro! Ma quando la Chiesa gli ha detto: sii temperante, rinunzia in certi giorni a certi cibi, per vincere la bassa inclinazione della gola, per mortificare il tuo corpo, gli ha poi soggiunto: e con questo tu potrai uccidere? O perché c'è chi vuol esser omicida, la Chiesa non comanderà a tutti d'essere astinenti? Non imporrà più delle penitenze, per timore d' incoraggire al peccato? Cosa importa che due comandamenti siano diversi, quando non si contradicono? È impossibile figurarsi una morale, una regola di vita, in cui non ci siano dell'obbligazioni di vario genere e di diversa importanza: la morale perfetta sarà quella in cui tutte l'obbligazioni vengano da un principio, siano dirette a un solo fine, e questo sia santissimo: e tale appunto è la morale della Chiesa.

È egli poi da credersi che questo fine la Chiesa non l'ottenga mai? Nel testo che osserviamo non è accennata che una delle possibili relazioni dei comandamenti ecclesiastici con la morale; l'osservanza di questi combinata con la persistenza nel delitto. Un complesso di discipline meditate, promulgate, venerate da una società come la Chiesa, non meriterebbe attenzione, se non per l'ubbidienza di qualche omicida, di qualche prostituta, di qualche spergiuro! I cattolici virtuosi non sono dunque osservatori déeomandamenti? O se lo sono, una tale osservanza non avrà alcun effetto sulla loro condotta? Nè l'astinenza così efficace a liberar l'animo dalle tendenze sensuali; nè il culto dell'immagini, che, per applicarlo alle cose celesti, si prevale della prepotenza stessa de' sensi, così forte per sè a sviarnelo; nè l'ubbidienza volontaria e dignitosa che, facendo preferire ciò che è prescritto a ciò che si sceglierebbe, avvezza mirabilmente l'uomo a comandare a sè stesso, non produrrebbero mai gli effetti avuti in mira dal legislatore, e così connaturali a tali cagioni! Non ci sarebbe cattolico che fosse più fedele a quella morale celeste alla quale si devono sacrificare l'inclinazioni corrotte, quanto più è regolare nell'osservare i comandamenti della Chiesa! Ma il mondo stesso attesta che ce ne sono, se non altro col ridersi de' loro scrupoli; il mondo che li compatisce ugualmente per il timore che hanno di far danno a qualcheduno con un fatto o con una parola, di mancare a un piccolo dovere di carità, come per quello di far uso d'un cibo proibito.

Levate i comandamenti della Chiesa; avrete meno delitti? No, ma avrete meno sentimenti religiosi, meno opere independenti da impulsi e da fini temporali, e dirette all'ordine di perfezionamento per cui l'uomo è creato, a quell'ordine che avrà il suo compimento nell'altra vita, e verso il quale ognuno è tenuto d'avanzarsi nella presente. La storia è piena di scellerati ch'erano ben lontani dall'osservare questi comandamenti, e dal praticare alcun atto di pietà. Gli esempi che ci si trovano, d'una vita mescolata d'azioni perverse e d'atti di religione mossi da un sentimento qualunque, e non da fini umani, hanno una celebrità particolare. E con ragione; perchè l'unione di cose tanto contrarie, come perversità e pratiche cristiane, la durata d'un certo rispetto a quella religione, che non comanda se non il bene, in un core che sceglie di fare il male, è sempre una contradizione notabile, un tristo fenomeno di natura umana. Luigi XI onorava superstiziosamente, come dice il Bossuet, (158) un'immagine della Madonna: chi non lo sa? Ma se Luigi XI, come per furore di dominare, violò tante leggi divine e ecclesiastiche, d'umanità, di giustizia e di bona fede, fosse anche diventato trasgressore di tutte le leggi puramente ecclesiastiche, è da credere che sarebbe diventato migliore per questo? Avrebbe perduto un incoraggimento al male, o non forse un ultimo ritegno? Non avrebbe con ciò forse votato il suo core d'ogni sentimento di pietà, d'ordine, di suggezione, di fratellanza? Alcuni storici asseriscono che facesse avvelenare il duca di Guienne suo fratello; e si racconta che sia stato sentito chiederne perdono a quell'immagine. La qual cosa non proverebbe altro, se non che la vista d'un'immagine sacra risvegliava in lui il rimorso; ch'egli si trovava in quel momento trasportato alla contemplazione d'un ordine di cose, in cui l'ambizione, la ragione di stato, la sicurezza, l'offese ricevute, non scusano i delitti; che davanti all'immagine di quella Vergine, il di cui nome desta i sentimenti più teneri e più nobili, sentiva cos'è un fratricidio.

Se c'è, tra cento, qualche omicida che mangi di magro, ebbene è un uomo che spera ancora nella misericordia; avrà qualche misericordia nel core. È un resto di terrore de' giudizi di Dio, è un lato accessibile al pentimento, una rimembranza di virtù e di cristianesimo. Lo sciagurato pensa qualche volta, che c'è un Dio di ricompense e di gastighi: se risparmia un supplichevole, se fa volontariamente qualche tregua a' suoi delitti, e soprattutto se un giorno ritorna alla virtù, è a questo pensiero che si dovrà attribuirlo.

Dobbiamo qui prevenire un'obiezione. La superstizione che fa confidare nell'adempimento di certi precetti, o nell'uso di certe pratiche pie, come supplimento ad altri doveri essenziali, è un argomento frequentissimo di lagnanza e di rimprovero nell'istruzioni de' pastori cattolici: il male, si dirà, esiste dunque, e è molto comune.

Per sentire la gran differenza che passa tra il male che questi combattono, e quello di cui s'è parlato finora, bisogna distinguere due gradi o, per dir meglio, due generi di bontà: quella di cui si contenta il mondo, e quella voluta dal Vangelo, e predicata da' suoi ministri. Il mondo, per il suo interesse e per la sua tranquillità, vuole degli uomini che s'astengano dai delitti (senza rinunziare ad approvar quelli che possano giovare ad alcuni), e esercitino virtù utili temporalmente agli altri: il Vangelo vuol questo e il core. Ce ne sont pas les désordres évités qui font les chrétiens, ce sont des vertits de l' Evangile pratiquées; ce ne sont pas des moeurs irréprochables aux yeux des hommes, c'est l'esprit de Jésus-Christ crucifié. (159)

È contro la mancanza di questo spirito che declamano i preti cattolici, e contro la persuasione che possa esser supplito da pratiche esterne di religione; che vivendo per il mondo, e non si curando o non ricordandosi del fine soprannaturale che deve animare l'azioni del cristiano, s'abbia ragione di credersi tale per il semplice adempimento di certi precetti, i quali non hanno valore che dal core. Ma quelli a cui sono rivolti questi rimproveri, son uomini de' quali il mondo non ha che dire; sono i migliori tra i suoi figli. E se la Chiesa non è contenta di loro, è perchè mira a un ordine di santità che il mondo non conosce; è perchè, non avendo altro interesse che la salute degli uomini, vuole le virtù che perfezionano chi le esercita, e non solamente quelle che sono utili a chi le predica. Non basta alla Chiesa che gli uomini non s'uccidano tra di loro; vuole che abbiano un core fraterno l'uno per l'altro, vuole che s'amino in Gesù Cristo: davanti ad essa nulla può supplire a questo sentimento; ogni atto di culto che venga da un core privo di carità, è, a' suoi occhi, superstizioso e menzognero. Ma la superstizione che concilia l'omicidio e lo spergiuro con l'ubbidienza a' precetti, è una mostruosità che, ardirei dire, non ha bisogno d'esser combattuta.

Che se pure se ne incontrasse qualche esempio, quali riflessioni utili ci si potrebbero far sopra? qual sentimento dovrebbero, ispirare i precetti della Chiesa quand'anche li vedessimo scrupolosamente osservati dall'uomo più reo? Si può indicarlo con piena fiducia, perchè c'è stato insegnato da chi non può errare. Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, che pagate la decima della menta é dell'aneto e del cumino, e avete trascurato il più essenziale della legge, la giustizia, e la misericordia, e la fede. Così rimproverava il Figliuolo di Dio e qual contrasto tra l'importanza dei precetti disprezzati e degli eseguiti! Ma si veda qual è l'insegnamento che dà a quegl'ingannati. Non mostra di disprezzare il piccolo comandamento (anzi lo scrupolo minuto nell'adempimento di esso), (160) quantunque lo metta a confronto di ciò che la legge ha di più grave: anzi, perchè la considerazione della giustizia, della misericordia e della fede non faccia concepire noncuranza per quello; perchè si veda che il male sta nella trasgressione e non nell'ubbidienza, che tutto ciò che è comandato è sacro, che tutto ciò che è pio è utile, aggiunge: Queste cose bisognava fare, senza ometter quelle. (161)




CAPITOLO XIV

DELLA MALDICENZA

La morale proprement dite n'a cependant jamais cessé d'être l'objet des prédications de l'Église; mais l'intérêt sacerdotal a corrompu dans l'Italie moderne tout ce qu'il a touché. La bienveillance mutuelle est le fondement des vertus sociales; le causiste, la réduisant en précepte, a déclaré qu'on péchoit en disant du mal de son prochain; il a empêché chacun d'exprimer le juste jugement qui doit discerner la vertu du vice; il a imposé silence aux accens de la vérité; mais en accutumant ainsi à ce que les mots n'exprimassent point la pensée, il n'a fait que redoubler la secrète défiance de chaque homme à l'égard de tous les autres. Pag. 419.420.

La dottrina che proibisce di dir male del prossimo, è tanto manifestamente della Chiesa, che, in questo, i casisti che l'hanno professata, possono francamente chiamarla mallevadrice. Che se alla Chiesa si domandano le ragioni che l'hanno determinata a farne un precetto, risponderà che non l'ha fatto, ma l'ha ricevuto; che, oltre all'esser consentaneo a tutta la dottrina evangelica, questo precetto è intimato espressamente e spesso ne' due Testamenti. Eccone, per brevità, una sola prova. Non v'ingannate ... i maledici non possederanno il regno di Dio. (162)

Ma questa sentenza ha ella bisogno d'esser giustificata? E chi vorrebbe sostener la contraria?

Un carico le vien fatto qui; ed è che impedisce a ciascheduno d'esprimere il giusto giudizio che deve discernere la virtù dal vizio; impone silenzio alla verità, e accresce la diffidenza tra gli uomini. Ma l'illustre autore non vorrà certo che si consideri da un lato solo una questione complessa e multiforme. Quand'anche un precetto fosse d'ostacolo a qualche bene, è giusto di pesare tutti i suoi effetti, e di mettere in bilancia il male, che previene: perchè sarebbe troppo singolare che una proibizione, la quale ha per oggetto di portar gli uomini a risparmiarsi l'uno con l'altro, non fosse d'impedimento che a cose utili.

L'amore della verità, il desiderio di fare un giusto discernimento tra la virtù e il vizio, sono forse il motivo principale e comune che determina a dir male del prossimo? E l'effetto ordinario ne è forse di mettere la verità in chiaro, la virtù in onore, e il vizio in abbominazione?

Un semplice sguardo alla società ci convince subito del contrario, facendoci vedere i veri motivi, i veri caratteri e gli effetti comuni della maldicenza.

Perché, ne' discorsi oziosi degli uomini, dove la vanità di ciascheduno, che vorrebbe occupare gli altri di sè, trova un ostacolo nella vanità degli altri che tendono allo stesso fine; dove si combatte destramente, e qualche volta a forza aperta, per conquistare quell'attenzione che si vorrebbe così di rado accordare; perchè riesce tanto facilmente a conciliarsela colui che, con le prime parole, annunzia che dirà male del prossimo? se non perchè tante passioni se ne promettono un triste sollievo? E quali passioni! È l'orgoglio, che tacitamente ci fa supporre la nostra superiorità nell'abbassamento degli altri, che ci consola de' nostri difetti col pensiero che altri n'abbiano de' simili o de' peggiori. Miserabile traviamento dell'uomo! Bramoso di perfezione, gli aiuti che la religione gli offre a progredire verso la perfezione, assoluta, per la quale è creato, e s'agita dietro una perfezione comparativa; anela, non a esser ottimo, ma, a esser primo; vuol paragonarsi, e non divenire. È l'invidia, inseparabile dall'orgoglio, l'invidia che si rallegra del male come la carità del bene, l'invidia che respira più liberamente quando una bella riputazione sia macchiata, quando si provi che c'è qualche virtù o qualche talento di meno. È l'odio, che ci rende tanto facili sulle prove del male: è l'interesse che fa odiare i concorrenti d'ogni genere. Tali e simili sono le passioni, per le quali è così comune il dire e l'ascoltare il male: quelle passioni che spiegano in parte il brutto diletto che l'uomo prova nel ridere dell'uomo e nel condannarlo, e la logica indulgente e facile sulle prove del male, mentre spesso s'istituisce un giudizio così severo prima di credere una bona azione, o l'intenzione retta e pura d'una bona azione. Non c'è da maravigliarsi che la religione non sappia che fare di queste passioni, e di ciò che le mette in opera: materiali fradici e repugnanti a ogni connessione, come entrerebbero nell'edifizio d'amore e d'umiltà, di culto e di ragione, chi essa vuol innalzare nel core di tutti gli uomini?

C'è nella maldicenza un carattere di viltà che la rende simile a una delazione segreta, e fa risaltare anche da questa parte la sua opposizione con lo spirito del Vangelo, che è tutto franchezza e dignità, che abbomina tutte le strade coperte, per le quali si nuoce senza esporsi; e che, ne' contrasti che si devono pur troppo avere con gli uomini per la difesa della giustizia, comanda per lo più una condotta che suppone coraggio. Il censurare gli assenti è le più volte senza pericolo di chi lo fa; sono colpi dati a chi non si può difendere; è non di rado un'adulazione, tanto più ignobile quanto più ingegnosa, verso chi ascolta. Non parlerai male d'un sordo, (163) è una delle pietose e profonde prescrizioni mosaiche: e i moralisti cattolici che l'applicarono anche all'assente, hanno fatto vedere che entravano nel vero spirito d'una religione; la quale vuole che quando uno è costretto a opporsi, lo faccia conservando la carità, e fuggendo ogni bassa discortesia.

La maldicenza, si dice da molti, è una specie di censura che serve a tenere gli uomini nel dovere. Sì, come un tribunale composto di giudici interessati contro l'accusato, dove l'accusato non fosse nè confrontato, nè sentito, dove chi volesse prendere le sue difese fosse per lo più scoraggito e deriso, dove per lo più tutte le prove a carico fossero fatte bone; come un tal tribunale sarebbe adattato a diminuire i delitti. È una verità troppo facile a osservarsi, che si presta fede alle maldicenze sopra argomenti che, se s'avesse un interesse d'esaminarne il valore, non basterebbero a produrre nemmeno una piccola probabilità.

La maldicenza rende peggiore chi parla e chi ascolta, e per lo più anche chi n'è l'oggetto. Quando colpisce un innocene (e per quanto sia grande il numero de' falli, quello dell'accusa ingiuste è superiore di molto), qual tentazione non è questa per lui! Forse percorrendo a stento la strada erta della probità, si proponeva per fine l'approvazione degli uomini, era pieno di quell'opinione, tanto volgare quanto falsa, che la virtù è sempre conosciuta e apprezzata: vedendola sconosciuta in sè, principia a credere che sia un nome vano; l'animo suo, nutrito dell'idee ilari e tranquille d'applauso e di concordia, principia a gustare l'amarezza dell'odio; allora l'instabile fondamento sul quale era stabilita la sua virtù, cede facilmente: felice lui, se questo in vece gli fa pensare che la lode degli uomini non è nè una mercede sicura, nè la mercede. Ah! se la diffidenza regna tra gli uomini, la facilità del dir male ne è una delle principali cagioni. Colui che ha visto un uomo stringer la mano a un altro, col sorriso dell'amicizia sulle labbra, e che lo sente poi farne strazio dietro le spalle, come non sarà portato a sospettare che in ogni espressione di stima e d'affetto, possa esser nascosta un'insidia? La fiducia crescerebbe al contrario, e con essa la benevolenza e la pace, se la detrazione fosse proscritta: ognuno che, abbracciando un nomo, potesse star sicuro di non esser l'oggetto della sua censura e della sua derisione, lo farebbe naturalmente con un più puro e più libero senso di carità.

Si crede da molti, che la repugnanza a supporre il male nasca da eccessiva semplicità o da inesperienza; come se ci volesse una gran perspicaca a supporre che ogn'uomo, in ogni caso, scelga il partito più tristo. E, invece, la disposizione a giudicare con indulgenza, a pesare l'accuse precipitate, e a compatire i falli reali, richiede l'abitudine della riflessione sui motivi complicatissimi che determinano a operare, sulla natura dell'uomo e sulla sua debolezza.

Quello a cui vien riferita la mormorazione fatta contro di lui (e i rapportatori sono la discendenza naturale de' maledici), ci vede spesso un'ingiustizia che lui solo può conoscere, ma della quale tutti possono, e quindi tutti devono, riconoscere il pericolo. Ha operato in circostanze delle quali lui solo abbraccia il complesso: il censore non se n'è fatto carico, ha giudicato nudamente un fatto con delle regole di cui non può giustamente misurare l'applicazione; forse biasima un uomo, solamente perchè non ha fatto ciò che farebbe lui, forse perchè non ha le sue stesse passioni. E quand'anche il censurato sia costretto a confessare a sè stesso che la maldicenza è affatto esente da calunnia, non ne è portato per lo più al ravvedinnento, ma allo sdegno; non pensa a riformarsi, ma si volge a esaminare la condotta del suo detrattore, a cercare in quella un lato debole e aperto alla recriminazione: l'imparzialità è rara in tutti, ma pia negli offesi. Così si stabilisce una miserabile guerra, una continua faccenda nell'esaminare e propalare i difetti altrui, che accresce la noncuranza de' propri.

Quando poi gl'interessi ci mettono a fronte l'uno dell'altro, qual maraviglia che l'ire e le percosse siano così pronte, che ci facciamo tanto male a vicenda? L'averne tanto pensato e tanto detto, ci ha preparati a ciò; siamo avvezzi a non perdonarci nel discorso, a godere dell'abbassamento altrui, a straziare quegli stessi coi quali non abbiamo contrasti; trattiamo gli sconosciuti come nemici: come mai ci troveremo tutt'a un tratto disposti alla carità e ai riguardi ne momenti appunto che la cosa è più difficile, e richiede un animo che ci sia esercitato di lunga mano? Perciò la Chiesa, che vuol fratellanza, vuole anche uomini che non pensino il male, che ne gemano quando lo vedono, che parlino degli assenti con quella delicata attenzione che l'amor proprio ci fa ordinariamente usare verso i presenti. Per regolare l'azioni, frena le parole, e, per regolar queste, mette la guardia al core.

Si separano spesso, e si condannano due specie di prescrizioni religiose, che si dovrebbero in vece mettere insieme e ammirare. Della prima specie è la preghiera continua, la custodia de' sensi, il combattimento perpetuo contro ogni attacco eccessivo alle cose mortali, il riferir tutto a Dio, la vigilanza sul primo manifestarsi d'ogni sentimento disordinato, e altre tali. Di queste si dice che sono miserie, vincoli che restringono l'animo senza produrre alcun effetto importante, pratiche claustrali. Della seconda specie sono le prescrizioni dure, ma giuste e inappellabili, che in certi casi richiedono de' sacrifizi ai quali il senso repugna, de' sacrifizi che chiamiamo eroici, per dispensarci dall'esaminare se non siano doverosi. E a queste s'oppone, che bisogna prendere gli uomini come sono, e non pretendere cose perfette da una natura debole. Ma la religione, appunto perchè conosce la debolezza di questa natura che vuol raddrizzare, la munisce di soccorsi e di forza; appunto perchè il combattimento è terribile, vuole che l'uomo ci si prepari in tutta la vita; appunto perchè abbiamo un animo che una forte impressione basta a turbare, che l'importanza e l'urgenza d'una scelta confondono di più, mentre gli rendono più necessaria la calma; appunto perchè l'abitudine esercita una specie di dominio sopra di noi, la religione impiega tutti i nostri momenti ad abituarci alla signoria di noi stessi, al predominio della ragione sulle passioni, alla serenità della mente. La religione è stata, fino ne' suoi primi tempi, e da' suoi primi apostoli, paragonata a una milizia. Applicando questa similitudine, si può dire che chi non vede o non sa apprezzare l'unità delle sue massime e delle sue discipline, fa come chi trovasse strano che i soldati s'addestrino ai movimenti della guerra, e ne sopportino le fatiche e le privazioni, quando non ci sono nemici.

Le filosofie puramente umane, richiedendo molto meno, sono molto più esigenti: non fanno nulla per educar l'animo al bene difficile, prescrivono solo azioni staccate, vogliono spesso il fine senza i mezzi: trattano gli uomini come reclute, alle quali non si parlasse che di pace e di divertimenti, e che si conducessero alla sprovvista contro de' nemici terribili. Ma il combattirnento non si schiva col non pensarci; vengono i momenti del contrasto tra il dovere e l'utile, tra l'abitudine e la regola; e l'uomo si trova a fronte una potente inclinazione da vincere, non avendo mai imparato a vincere le più fiacche. Sarà forse stato avvezzo a reprimerle per motivi d'interesse, per una prudenza mondana; ma ora l'interesse è appunto quello che lo mette alle prese con la coscienza. Gli è stata dipinta la strada della giustizia come piana e sparsa di fiori; gli è stato detto che non si trattava se non di scegliere tra i piaceri, e ora si trova tra il piacere e la giustizia, tra un gran dolore e una grand'iniquità. La religione, che ha reso il suo allievo forte contro i sensi, e guardingo contro le sorprese, la religione, che gli ha insegnato a chieder sempra de' soccorsi che non sono mai negati, gl'impone ora un grand'obbligo, ma l'ha messo in caso d'adempirlo; e avergli chiesto un gran sacrifizio, sarà un dono di più che gli avrà fatto. La religione, chiedendo all'uomo cose più perfette, chiede cose più facili, vuole che arrivi a una grand'altezza, ma gli ha fatta la scala, ma l'ha condotto per mano: le filosofie umane, contentandosi che tocchi un punto molto meno elevato, pretendono spesso di più; pretendono un salto che non è della forza dell'uomo.

Credo di dover dichiarare che sono lontano dal pensare che l'illustre autore non veda gl'inconvenienti della maldicenza, e voglia quasi farne l'apologia; ma ho dovuto mostrare che è eminentemente evangelico e morale l'insegnamento della Chiesa che dir male del prossimo è peccato.

Ma il giusto giudizio che deve discernere la virtù dal vizio, vuol forse impedirlo? No, certamente: vuol impedire le superbe, leggiere, ingiuste, inutili accuse, il giudizio dell' intenzioni, nelle quali Dio solo vede anche ciò che è sentito confusamente nel core stesso dove si formano; ma il testimonio dell'azioni, vuol regolarlo, non levarlo di mezzo; lo comanda anzi quasi in tutti i casi in cui non lo condanna, cioè quando non ci porti a darlo la voglia di deprimere o di disonorare, ma dovere d'ufizio o di carità; quando si tratti di preservare il prossimo dall'insidie de' maligni; quando insomma sia richiesto da giustizia e da utilità. Certo, in questi casi, è necessaria tutta la prudenza cristiana, ma la religione c'insegna i mezzi d'ottenerla. Con essa l'uomo può governarsi nelle difficili circostanze, nelle quali e il parlare e il tacere hanno qualche apparenza di male; in cui si deve opporsi a un maligno, e nello stesso tempo potersi render testimonianza di non esserci condotti da malignità. Il gemito dell'ipocrita che sparla di colui che odia, le proteste che fa d'essere addolorato de' difetti dell'uomo che denigra, di parlar per dovere, sono un doppio omaggio e alla condotta e a' sentimenti che la religione prescrive.

La Chiesa è tanto aliena dall'imporre silenzio alla voce della verità, quando sia mossa dalla carità; è tanto aliena dal trascurare alcun mezzo per cui gli uomini possano migliorarsi a vicenda, che condanna i rispetti umani. E quest'espressione medesima è sua; è una di quelle che il mondo non avrebbe sapute trovare, perchè intende e accenna un obbligo e un motivo soprannaturale di non tacer la verità in certi casi. Così ha prevenuto l'animo debole contro il terrore che la forza, che la moltitudine, che la derisione, che il possesso delle dottrine mondane, gli sogliono incutere; così ha resa libera la parola in bocca all'uomo retto. Essa ha anche comandata la correzione fraterna, mirabile tempra di parole, in cui, all'idea di correzione, che urta tanto il senso, è unita immediatamente l'idea di fraternità, che rammenta i fini d'amore, e la comune debolezza, e la disposizione a ricever la correzione in chi la fa agli altri. La Chiesa non impedisce alcuno de' vantaggi che possono venire dalla sincera e spassionata espressione della verità, e dal fondato e giusto discernimento tra la virtù e il vizio.

Mi si permetta di collocar qui una riflessione che è sottintesa in molti luoghi di questo scritto, e che sarà espressamente riprodotta e svolta in qualche altro. Ogni qual volta si crede trovare nella religione un ostacolo a qualche sentimento o a qualche azione o a qualche istituzione giusta e utile, generosa e tendente al miglioramento sociale, si troverà, esaminando bene, o che l'ostacolo non esiste, e la sua apparenza era nata dal non avere abbastanza osservata la religione; o che quella cosa non ha i caratteri e i fini ch'era parso alla prima. Oltre l'illusioni che possono venire dalla debolezza del nostro intendimento, c'è una continua tentazione d'ipocrisia, dirò così, verso noi medesimi, dalla quale non sono esenti gli animi più puri e desiderosi del bene; d'un'ipocrisia che associa subito l'idea d'un bene maggiore, l'idea d'un'inclinazione generosa ai desidèri delle passioni predominanti: dimanierachè ognuno, chiamando a esame sè stesso, non può qualche volta esser certo dell'assoluta rettitudine de' fini che lo movono; non può discernere che parte ci abbia, o l'orgoglio o la prevenzione. Se allora condanniamo le regole della morale, perchè ci paiono più corte de' nostri ritrovati, serviamo a de' sentimenti riprovevoli che non confessiamo nemmeno a noi stessi, o che forse combattiamo in noi; ma che non s'estinguono interamente in questa vita.

S'osservi finalmente che, se l'aumento della diffidenza fosse un effetto della proibizione di parlar male, siccome questa proibizione è intimata in tutto il mondo cattolico, (164) così ne verrebbe, o che la diffidenza n'è accresciuta pertutto, o che in Italia i precetti sono più osservati che altrove: la qual cosa sarebbe invece un indizio d'un migliore stato morale. Io non so se noi Italiani siamo più diffidenti degli altri Europei; so che ci lamentiamo di non esserlo abbastanza; so che (come, del resto, tutte l'altre nazioni) diciamo in vece di peccare di troppa credulità e bona fede. Se però la diffidenza fosse universale tra di noi, mi pare che converrebbe darne la colpa a tutt'altro che al non mormorare; giacchè siamo lontani dall'aver perduta quest'abitudine.




CAPITOLO XV

SUI MOTIVI DELL'ELEMOSINA

La charité est la vertu par excellence de L'Évangile mais le casuiste a enseigné à donner au pauvre pour le bien de sa propre âme, et non pour soulager son semblable... Pag. 420.

Dare al povero per il bene dell'anima propria, non è suggerimento di casisti, ma insegnamento della Chiesa.

Escludere dall'elemosina il fine di sollevare il prossimo, è un raffinamento anti.cristiano, il quale non so se sia mai stato dottrinalmente insegnato da alcuno: ma credo che non ce ne sia vestigio in Italia.

Per ciò che riguarda il proporsi, in quella come in ogni altra opera, il bene dell'anima propria, la Chiesa non fa altro che insegnare ciò che ha imparato dal suo Fondatore. E non c'è forse nel Vangelo verun altro precetto, al quale vada così spesso unita la promessa della ricompensa. Nel Vangelo, l'elemosina è un tesoro che uno s'ammassa nel cielo: è un amico che ci deve introdurre nei padiglioni eterni; nel Vangelo, il regno è promesso ai benedetti del Padre, i quali avranno satollati, vestiti, ricoverati, visitati coloro, che il Re, nel giorno della manifestazione gloriosa, non sdegnerà di chiamare suoi fratelli, (165) memore d'avere avute comuni con loro le privazioni e i patimenti, d'esser passato, anche lui, come uno sconosciuto, davanti agli sguardi distratti de' fortunati del mondo. Tutta la Scrittura parla così: Non avrà bene chi non fa elemosina. (166) Che più? le parole stesse che qui si danno come insegnamento di casisti, sono quelle della Scrittura: Il misericordioso fa del bene all'anima sua. (167)

Questo motivo va unito a tutti i comandamenti: la sanzione religiosa non si fonda che su di esso.

Dopo di ciò, non c'è bisogno certamente di giustificare, su questo punto, la dottrina della Chiesa. Non sarà però fuori di proposito l'osservare come una tale dottrina sia superiore bensì, ma insieme consentanea alla ragione, e quanto sia opposto ad essa il supporre che il motivo d'una ricompensa, di qualunque genere sia, possa, per sè, detrarre alla perfezione e al merito dell'azioni virtuose. Illusione, nella quale sono caduti anche degli ingegni tutt'altro che volgari; e dalla quale, se è lecito il dirlo, è venuto il rimprovero fatto dall'illustre autore all'insegnamento cattolico sui motivi dell'elemosina.

La virtù, si dice, è tanto più pura, più nobile, più perfetta, quanto più è disinteressata. Sentenza verissima, quando alla parola « disinteresse » s'applichi un concetto giusto e preciso. Per disinteresse s'intende in astratto, e un poco in confuso, la disposizione a rinunziare a delle utilità. E cos'è che fa riguardare come bella questa disposizione, come ignobile, o meno nobile, la disposizione contraria? In primo luogo, l'essere, in molti casi, un'utilità d'un uomo opposta a un'utilità d'un altro, o d'altri; dimanierachè il rinunziare a quella sia posporre un godimento privato alla benevolenza; sentimento più nobile, per consenso universale; anzi il solo de' due, al quale s'attribuisca questa qualità. L'altra cagione è il consenso divenuto comune dopo il Cristianesimo (quantunque più o meno avvertito e ragionato), che tutte l'utilità nelle quali è unicamente contemplato il godimento di chi le acquista, sono d'un prezzo inferiore a quello della virtù: d'onde viene che il non proporsi alcuna di esse, o in altri termini alcuna ricompensa, come motivo, nemmeno accessorio, d'un'azione virtuosa, è avere una giusta stima della virtù, e riconoscere col fatto, che essa è un motivo sufficiente, anzi soprabbondante, di qualunque azione. Ragioni vere, ma che non sono intrinseche all'idea stessa di ricompensa; e non si possono quindi applicare a ogni genere di ricompensa, se non per uno di que' sofismi che scappano così facilmente nelle conclusioni precipitate. Considerata in astratto, l'idea di ricompensa non è altro che quella d'un bene dato al merito, cioè l'idea d'una cosa, non solo bona e giusta, ma la sola bona e giusta: nel caso, s'intende, d'un vero merito e d'una vera ricompensa. Si supponga quindi una ricompensa, contro la quale non militi nè l'una nè l'altra di quelle due ragioni; e il proporsela per motivo non potrà levar nulla alla nobiltà dell'azioni e de' sentimenti; il non proporsela (senza cercare ora come deva qualificarsi), non potrà meritare l'onorevole qualificazione di disinteresse.

Di questo genere appunto, anzi l'unica di questo genere, è la ricompensa di cui si tratta. Essendo infinita, non può essere da verun uomo ceduta a verun altro, come il goderla non può mai essere a scapito di verun altro. E non può nemmeno essere inferiore in dignità alla virtù, poichè, non è altro che il più perfetto esercizio della virtù medesima.

Infatti, cosa intende il cristiano per il bene dell'anima sua? Riguardo all'altra vita, intende, una felicità di perfezione, un riposo che consisterà nell'esser assolutamente nell'ordine, nell'amar Dio pienamente, nel non avere altra volontà che la sua, nell'esser privo d'ogni dolore, perchè privo d'ogni inclinazione al male. Beati, disse la sapienza incarnata, quelli che hanno fame e sete della giustizia; perchè saranno satollati: (168) che è quanto dire: saranno eternamente giustissimi.

E riguardo alla vita presente, il cristiano intende una felicità di perfezionamento; che consiste nell'avanzarsi verso quell'ordine. Felicità non intera, certamente; ma la maggiore, come la più nobile, che si possa godere in questa vita; felicità che nasce da quella stessa fame e sete, accompagnata dalla speranza che conforta, e dalla carità che fa pregustare. Così la pietà è utile a tutto, avendo con sè la promessa della vita presente e della futura. (169)

Posto ciò, si dovrà dire che, in quelli a cui una tale ricompensa è stata annunziata, il non proporsela per motivo, non che aggiunger perfezione alla virtù, non può nascere che dal disprezzo di questa perfezione medesima, essendo essa inseparabile dalla ricompensa medesima, cioè dal gaudio celeste; il quale, per ripeter la cosa con parole e più autorevoli e migliori delle mie, non è altro che il colmo, la soprabbondanza, la perfezione dell'amor di Dio, (170) val a dire della virtù che sovrasta a tutte, e le comprende tutte.

Che, tra i gentili, i quali non avevano cognizione di questo Bene, ma solo de beni temporali, alcuni abbiano pensato che ogni ricompensa sia indegna della virtù, non c'è da maravigliarsene. È piuttosto una cosa degna d'osservazione, che, col solo lume naturale, siano arrivati a vedare la verità, sulla quale formarono questo loro errore. Nel confuso, tronco e, dirò così, acefalo concetto che avevano della virtù, videro, dico, una relazione speciale di questa con l'infinito; e ne dedussero che nessun bene finito poteva esser per essa materia di compensazione. E, dopo averla spogliata così d'ogni premio, dovendo però riconoscere che premio e virtù sono idee correlative, c .che ciò che forma questa relazione tra di loro è l'idea di giustizia, troncarono il nodo col dire che la virtù è premio a sè stessa. Parale più vere del pensiero che esprimevano; perchè, nella loro generalità, comprendono il concetto intero, e di virtù e di premio, che non era nella mente di chi le metteva insieme; cioè il concetto di quella virtù, e di quel premio, che non si realizzano se non nell'altra vita, e per il possesso di Dio. Potrebbbe bensì parer più strano, che, anche nella luce del Vangelo, alcuni abbiano potuto immaginarsi una maggior perfezione della virtù, e della virtù cristiana, nell'escludere da' suoi motivi ogni ricompensa. Ma l'ingegno umano può abusare delle verità rivelate, come di quelle che conosce naturalmente. Essendo l'annegazione, e il disprezzo de' piaceri, il precetto continuo, e lo spirito del Vangelo, s'è potuto voler estender quest'annegazione anche alla vita futura, applicando, con un accecamento volontario, le qualità de' beni che Gesù Cristo c'insegna a disprezzare, al bene proposto da Gesù Cristo medesimo. Una dottrina così opposta alla sua e, per necessità, alla retta ragione, fu come doveva essere, condannata dalla Chiesa. (171)

La ragione dice e, per dir così, sente che il desiderio della felicità è naturale all'uomo; la religione, nella quale (non sarà mai ripetuto abbastanza) la ragione trova il suo compimento, insegna che il desiderio della felicità eterna, inseparabile dalla santità, è un dovere. All'amor di sè, che i sistemi di morale puramente umana si studiano, ora di combattere, ora di soddisfare, e sempre con mezzi insufficienti, la religione apre una strada verso l'infinito, nella quale può correre con l'illimitata sua forza, senza mai urtare il più piccolo dovere, senza offendere alcun nobile sentimento. Per questa strada, essa ha potuto condur l'uomo al massimo grado di vero disinteresse, e far che disprezzi i beni della terra, appunto perchè mira alla ricompensa. (172) Essa ha potuto farle rinunziare, non solo ai piaceri che sono direttamente dannosi agli altri, ma a molti ancora, che la morale del mondo, economa imprevidente, approva o promette. Perciò Gesù Cristo, dove appunto dà il motivo dell'elemosina, comanda non solo l'azione, ma il segreto; e levando la sanzione umana dell'amor della lode, ci sostituisce quella della vita futura. Il tuo Padre, che vede nel segreto, le ne darà egli la ricompensa. (173) Non vuol guarire l'avarizia con la vanità, non vuole che l'uomo si prenda nello stato presente le ricompense riservate all'altro, e colga, nella stagione in cui deve solo attendere a coltivarla, una messe che, recisa, s'inaridisce e non riempie la mano; (174) non vuol solamente de' poveri sollevati, ma degli animi liberi, illuminati e pazienti. Cos'importa, dice spesso il mondo, da che fine provengano l'azioni utili, perchè ce ne siano molte? Domanda inconsiderata quanto si possa dire, e alla quale è troppo facile rispondere che importa di non distrarre gli uomini dal loro fine, di non ingannarli, di non avvezzarli all'amore di que' beni per i quali si troveranno un'altra volta in contrasto tra di loro; di que' beni che, goduti, accrescono bensì la sete di possederli, ma non la facoltà di moltiplicarli. Questa facoltà ammirabile non appartiene se non ai beni spirituali, che sono beni assolutamente veri, anche in questa vita, e perchè partecipano del Bene sommo e infinito, e perchè conducono a possederlo eternamente.

S'è fatto più volte alla morale cattolica un rimprovero opposto; cioè che non si faccia carico dell'amore di sè, quando prescrive l'annegazione, e l'amare il prossimo come sè stesso. Ma annegazione non vuol dire rinunzia alla felicità: vuol dire resistenza all'inclinazioni viziose nate in noi dal peccato, le quali ci allontanano dalla vera felicità. E in quanto al precetto d'amare il prossimo come sè stesso, ciò che ha potuto farlo parere ad alcuni eccessivo, ineseguibile, contrario alla natura dell'uomo, non è altro che l'ignorare o lo sconoscere quel bene che si può volere agli altri come a sè, perchè, essendo infinito può riempir ciascheduno, senza esser mai nè esaurito, nè diminuito da alcuno. L'amor permanente, irresistibile, incondizionato di sè, è certamente una legge naturale d'ogni anima umana non amar gli altri come sè, non è punto una conseguenza di questa legge, ma un'aggiunta arbitraria, fondata unicamente sulla supposizione, che non ci siano per l'uomo altri beni fuori di quelli, il possesso de' quali ha per condizione che gli altri ne siano privi. La religione, per chi vuole ascoltarla, ha levata di mezzo questa supposizione; e, con la sua scorta, è anche facile il riconoscere che amare il prossimo come sè stesso, non è altro che un precetto di stretta giustizia; perchè la ragione di questi due amori è uguale, anzi la stessa. Qual'è, infatti, la ragione d'amare, non l'uno o l'altro o alcuno de' nostri simili, ma il nostro prossimo, cioè ognuno de' nostri simili, independentemente da ogni nostra particolare inclinazione, da ogni sua particolare qualità, e da ogni suo merito verso di noi? Dove si può, dico, trovar la ragione di questo amore per tutti gli uomini, se non in ciò che è comune a tutti gli uomini, e insieme degno d'amore, cioè la natura umana medesima, l'essere nobilissimo di creatura intelligente, formata a immagine di Dio, e capace di conoscerlo, d'amarlo e di possederlo, val a dire d'un'altissima perfezione morale? Così il precetto divino, non che essere in opposizione col vero e giusto amore di noi medesimi, ce ne fa trovar la ragione nell'amore dovuto a tutti gli uomini: ragione, senza la quale questo invincibile amore di noi medesimi potrebbe parere nulla più che un cieco istinto. Se l'uomo avesse bisogno d'un insegnamento per amarsi, lo troverebbe sottinteso e implicito in questo precetto, che gl'impone d'amar l'umanità intera. Ne ha però bisogno, e quanto! per amarsi rettamente; e lo trova, come in tutti i precetti divini, così anche in questo, il quale, prescrivendogli d'amare il prossimo come sè stesso, gl'insegua a amar sè stesso come il prossimo, cioè a volere a sè quel bene che deve, e può ragionevolmente, volere agli altri: il bene sommo e assoluto, prima di tutto, e i beni finiti e temporali, in quanto possano esser mezzo a quello.

Ora, come mai da questa dottrina d'amore, di comunione e, dirò così, d'assimilazione tra gli uomini, potrebbe venire che s'abbia a escludere dall'elemosina il motivo di sollevare il suo simile? Certo, non è impossibile che ciò sia entrato in qualche mente, come c'entrano tant'altre contradizioni; ma oso asserir di novo, che non fa parte dell'insegnamento religioso in Italia, e che il Segneri ha parlato il linguaggio comune di quest'insegnamento, quando ha detto che « due solamente sono alla fine le porte del cielo: l'una, quella del patire; e l'altra, quella del compatire. » I ministri del Vangelo, quando inculcano di soccorrere i poveri, rappresentano sempre l'angosce del loro stato; e, nella trascuranza di questo dovere, condannano espressamente la durezza e la crudeltà, come disposizioni ingiuste e antievangeliche. Quando Gesù Cristo moltiplicò i pani, per satollare le turbe che, con tanta fiducia, correvano dietro alla parola, l'opera dell'onnipotenza fu preceduta da un ineffabile movimento di commiserazione nel core dell'Uomo Dio. Ho pietà di questo popolo, perchè sono già tre giorni, che non si distaccano da me, e non hanno niente da mangiare; e non voglio rimandarli digiuni, perchè non svengano per la strada. (175) La Chiesa ha ella potuto cessare un momento di proporre per modello i sentimenti di Gesù Cristo?

Bisognerebbe domandare a que' parrochi zelanti e misericordiosi i quali, girando per le case affollate dell'indigenza, e dopo aver soddisfatto, con lacrime di tenerezza e di consolazione, a degli estremi bisogni, ne trovano ancora de novi, e non possono altro che mischiare le loro lacrime con quelle del povero, bisognerebbe domandar loro se, quando ricorrono al ricco per avere i mezzi di saziare la loro carità, non gli parlano che dell'anima sua, se non gli dipingono le miserie e i patimenti e i pericoli del bisognoso, e se quelli a cui sono rivolte preghiere così sante e così generose, le ascoltano con una fredda insensibilità; se l'immagine del dolore e della fame è esclusa da sentimenti che li movono a convertire in un mezzo di salute quelle ricchezze le quali sono così spesso un inciampo, un mezzo di piaceri che portano alla dimenticanza, e fino all'avversione per l'uomo che patisce.

San Carlo, che si spogliava per vestire i poveri, e che, vivendo tra gli appestati per dar loro ogni sorte di soccorso, non dimenticava che il suo pericolo; quel Girolamo Miani, che andava in cerca d'orfani pezzenti e sbandati, per nutrirli e per disciplinarli, con quella premura che metterebbe un ambizioso a diventar educatore del figlio d'un re, non pensavano dunque che all'anime loro? E l'intento di sollevare i loro simili non entrava per nulla in una vita tutta consacrata a loro? L'uomo che vive lontano dallo spettacolo delle miserie, sparge qualche lacrima sentendole descrivere; e quelli che un'irrequieta carità spingeva a cercarle, a soccorrerle, ci avrebbero portato un core privo di compassione?

Certo, non occorre di far qui un'enumerazione degli atti di carità di cui è piena la storia del cattolicismo: ne scelgo uno solo, insigne per delicatezza di commiserazione; e lo scelgo perchè, essendo recente, è un testimonio consolante dello spirito che c'è sempre vivo. Una donna che abbiamo veduta in mezzo a noi, e di cui ripeteremo il nome a' nostri figli, una donna cresciuta tra gli agi, ma avvezza da lungo tempo a privarsene, e a non vedere nelle ricchezze che un mezzo di sollevare i suoi simili, uscendo un giorno da una chiesa di campagna, dove aveva ascoltata un'istruzione sull'amore del prossimo, andò al casolare d'un'inferma, il di cui corpo era tutto schifezza e putredine; e non si contentò di renderle, com'era solita, que' servizi pur troppo penosi, coi quali anche il mercenario intende di fare un'opera di misericordia, ma trasportata da un soprabbondante impeto di carità, l'abbraccia, la bacia in viso, le si mette al fianco, divide il letto del dolore e dell'abbandono, e la chiama più e più volte col nome di sorella. (176)

Ah! il pensiero di sollevare una creatura umana, non era certamente estraneo a que' nobili abbracciamenti. Mangiare il pane della liberalità altrui, ottener di che raddolcire i mali del corpo, e prolungare una vita di stenti, non è il solo bisogno dell'uomo sul quale pesa la miseria e l'infermità. Sente d'esser chiamato anche lui a questo convito d'amore e di comunione sociale: la solitudine in cui è lasciato, il pensiero di far ribrezzo al suo simile, il riguardo con cui gli si avvicina quel medesimo che gli porge soccorso, il non veder mai un sorriso, è forse il più amaro de' suoi dolori. E il core che pensa a questi bisogni, e li soddisfa, che vince la repugnanza de' sensi, per veder solamente l'anima immortale che soffre e si purifica, è il più bel testimonio per le dottrine che l'hanno educato, è una prova che queste non mancano mai all'ispirazioni più ardenti e ingegnose della carità universale.

Donde è dunque potuta venire un'opinione così arbitraria e opposta al fatto, come quella che s'è esaminata nel presente capitolo? Se non m'inganno, da un'estensione affatto abusiva, anzi dall'alterazione manifesta di quell'insegnamento, non italiano, ma veramente cattolico, che il solo motivo di sollevare il suo simile non basta a render cristiana e santa l'elemosina, e a darle un merito soprannaturale. Mi servirò anche qui d'alcune parole del Segneri, che esprimono questo sentimento, senza contradire, ne punto nè poco, all'altre sue citate dianzi: « Se non che, avvertite che non basta a un vero limosiniere quella pietà naturale, con la quale si compatisce un uomo perch'egli è uomo. Fin qui sanno anche giungere gl'infedeli... Troppo più alto prende però la mira l'occhio d'un limosiniere fedele, qual noi cerchiamo. Non solo ha egli compassione del povero, ma gliel'ha per amor di Dio. Anticamente sopra il fuoco che s'era acceso a bruciar la vittima, pioveva Iddio un'altro fuoco più segnalato e più sacro che, giunto al primo, desse compimento più nobile al sacrifizio. Or figuratevi che così faccia la carità sopra quelle fiamme di compassion naturale, per sè lodevole: aggiunge ella anche altre fiamme d'amor cristiano, per cui si compiste l'olocausto in odore di soavità. » (177)

Ora, se quella falsa credenza ha avuta occasione da quest'insegnamento (e non saprei immaginarmi da cos'altro) basterà, se non è superfluo, l'osservare la differenza, anzi la diversità, che passa tra l'insegnare che l'elemosina dev'esser fatta, non solo per sollevare il suo simile, e l'insegnare che non dev'esser fatta per sollevare il suo simile. E d'altra parte, chi può non vedere quanto sia cosa giusta per sè, e independentemente da qualunque altro riguardo, il riferire ogni nostro sentimento verso qualunque creatura, all'Autore di tutte? chi non riconosce in questo una condizione essenziale e universale del culto medesimo? giacchè, quali nostri sentimenti si dovranno riferire a Dio, se non tutti? Che parte fargli? Quali cose amare per Lui, dependentemente da Lui, e relativamente a Lui, e quali altre per loro medesime, come nostro fine, come ultimo e unico termine dal nostro affetto? È dunque verissimo che, per un insegnamento essenziale del cristianesimo, depositario della vera nozione di Dio e delle creature, e non già per un ritrovato di casisti, l'intento di sollevare il suo simile, si trova subordinato a un intento superiore. Ma è forse a scapito di quella compassione naturale per sè lodevole? Quando mai un bon sentimento qualunque ha potuto perdere la sua giusta attività, per esser collocato nel suo ordine? E nel caso presente, chi non vede quanto l'inclinazion naturale a sollevare il suo simile (naturale bensì, ma da quante inclinazioni opposte combattuta!) deva, acquistar di forza, di prevalenza, d'universalità, dall'amarlo per Dio, e in Dio, come fatto a di Lui immagine, redento da Lui, come quello nel quale Egli ama d'abitare come in suo tempio? Perchè, tale è la sublime estensione data dal cristianesimo alla significazione di quel simile, così ristretta, e, per conseguenza, così poco efficace e feconda, nel solo senso naturale. In un animo dove regni veramente l'amor di Dio, non può aver luogo l'indifferenza per i patimenti del prossimo. O Seigneur! esclama il Bossuet, si je vous aimois de toute ma force, de cet amour j'aimerois mon prochain comme moi même. Mais je suis si insensible à ses maux, pendant que je suis si sensible au moindre des miens. Je suis si froid à le plaindre, si lent à le secourir, si foible à le consoler; en un mot, si indifférent dans ses biens et dans ses maux. (178) Non è raro il trovar degli uomini che si lamentino d'esser troppo sensibili ai mali altrui. Tra questo querulo vanto di sentir troppo, e quell'umile confessione di non sentire abbastanza, qual è che annunzi una contentatura più difficile, e, per conseguenza, un principio più imperioso e più attivo.




CAPITOLO XVI

SULLA SOBRIETÀ E SULLE ASTINENZE, SULLA CONTINENZA E SULLA VERGINITÀ

La sobrieté, la continence sont des vertus domestiques qui conservent les facultés des individus, et assurent la paix des familles; le casuiste a mis à la place les maigres, les jeunes, les vigiles, les v.ux de virginité et de chasteté; et à côté de ces vertus monacales, la gourmandise et l'impudicité peuvent prendre racine dans les coeurs. Pag. 420.

L'istituzioni relative all'astinenza sono di quelle che il mondo s'è ingegnato a render ridicole: per cui molti di que' medesimi che le venerano in cor loro, parlano in loro difesa con timidi riguardi, non osano quasi adoprare i nomi propri, e lasciano credere che la ragione, rispettandole, non faccia altro che sottomettersi ciecamente a una sacra e incontrovertibile autorità. Ma chi cere sinceramente la verità, in vece di lasciarsi spaventare dal ridicolo, deve sottoporre a un libero esame il ridicolo stesso.

Quello di cui si tratta qui, ha una causa e un pretesto. La causa è l'avversione del mondo per la mortificazione del senso, e conseguentemente per tutto ciò che la prescrive, in una forma qualunque. Ma, per non allegar questa vera causa (che sarebbe un confessarsi schiavo del senso), il mondo procura di darsi a intendere che ciò che gli repugna in queste prescrizioni, è qualcosa di contrario alla ragione. E a questo fine, dimentica o finge di dimenticare il loro spirito e i loro motivi: che è certamente il mezzo più spiccio di farle comparire stravaganti. Non si vergognerà, per esempio, di continuar per de' secoli a domandare cos'importi a Dio, che gli uomini usino certi cibi, piuttosto che certi altri, e di mettere in campo altri argomenti di simil peso.

Ciò poi che dà un'occasione, o meglio un pretesto, di ridere di queste prescrizioni, è la maniera con cui sono eseguite da de' cattolici. Le Scritture e la tradizione rappresentano il digiuno come una disposizìone di staccatezza e di privazioni volontarie, della quale, l'astenersi dal cibo, per un dato tempo, è una parte, un modo naturale, una conseguenza necessaria. In uomini affaccendati nella ricerca de contenti mondani d'ogni genere, nemici d'ogni umiliazione e d'ogni patimento, questa sola parte di penitenza, eseguita farisaicamente, produce una dissonanza, nella quale il mondo trova quello che basta a lui per ridere, e del fatto e dell'istituzione insieme. L'astinenza poi da certi cibi in certi giorni, è anch'essa una specie di digiuno, un mezzo prescritto dalla Chiesa, per unire la penitenza e la privazione anche con l'uso necessario degli alimenti. Se alcuni hanno saputo convertirlo in un mezzo di raffinamento, certo che una mostra illusoria e, e per dir così, una millanteria di penitenza, che si vede uscire tutt'a a un tratto da una vita tutta di delizie e di passioni, presenta un contrasto strano tra l'intenzione della legge e lo spirito dell'ubbidienza, tra la difficoltà e il merito. E il mondo ne profitta per ridere anche della legge.

Ma, per levarne ogni occasione a chiunque voglia riflettere (giacchè ci sono degli uomini i quali non lasciano più di ridere d'una cosa che hanno una volta concepita come ridicola), basta distaccar l'astinenze da quel complesso d'idee, nel quale fanno contradizione, e rimetterle in quello che loro è proprio, e nel quale furono collocate dalla legislazione religiosa. Basta osservarle insieme coi fini che la Chiesa ha avuti di mira nell'ordinarle; e insieme non dimenticàre i casi ne' quali producono i loro effetti; allora, non solo svanirà il ridicolo, ma comparirà la bellezza, la sapienza e l'importanza di queste leggi.

La sobrietà, come ha detto benissimo l'illustre autore, conserva le facoltà degl'individui. Ma la religione non si contenta di quest'effetto, nè di questa virtù, conosciuta anche da' gentili; e avendo fatti conoscere i mali profondi dell'uomo, ha dovuto proporzionare ad essi i rimedi. Nei piaceri della gola che si possono conciliare con la sobrietà, vede una tendenza sensuale che svia dalla vera destinazione; e dove non è ancor principiato il male, segna il pericolo. Prescrive l'astinenza come una precauzione indispensabile a chi deve sostenere il combattimento contro la legge delle membra; la prescrive come espiazione de' falli in cui l'umana debolezza fa cadere anche i migliori; la prescrive ancora per ragione di carità e giustizia; perchè le privazioni de' fedeli devono servire a soddisfare ai bisogni altrui, e compartire così tra gli uomini le cose necessarie al vitto, e fare scomparire dalle società cristiane que' due tristi opposti, di profusione a cui manca la fame, e di fame a cui manca il pane.

Queste prescrizioni, essendo così necessarie all'uomo in tutti i tempi, hanno dovuto principiare con la promulgazione della religione; e così è infatti. Nel solo popolo che avesse una civilizzazione fondata sopra idee di giustizia universale, di dignità umana e di progresso nel bene, cioè sopra un culto legittimo, si trovano esse fino da' primi tempi del suo passaggio solenne dallo stato di schiavitù, dov'era ritenuto dalla prepotenza e dalla mala fede, allo stato di nazione; e la tradizione del digiuno discende da Mosè fino a' nostri giorni, come un rito di penitenza e un mezzo d'innalzar la mente al concetto delle cose di Dio, e di mantenersi fedeli alla sua legge.

Al tempo di Samuele, gl'Israeliti prevaricano; ma quando ritornano al Signore pentiti, quande cessano d'adorare le ricchezze della terra, e levano di mezzo a loro gli dei visibili degli stranieri, offrono olocausti al Signore, e digiunano. (179)

L'idolatria era il culto della cupidigia, la festa de' godimenti terreni per rompere l'abitudine della servitù de' sensi, per ritornare a Dio, bisognava principiare dalle privazioni volontarie. E quando i figli d'Israele ritornano dalla terra de' padroni stranieri, quando sono per rivedere Gerusalemme, il magnanimo Esdra loro condottiere, li prepara al viaggio col digiuno e con la preghiera, (180) per rifare così un popolo religioso e temperante, segregato dalle gioie tumultuose e servili delle genti.

Il digiuno accompagna senza interruzione il primo testamento; Giovanni, precursore del novo, l'osserva e lo predica; e quello che fu l'aspettazione e il compimento dell'uno, il fondatore e la legge dell'altro, e la salute di tutti, Gesù Cristo, lo comanda, lo regola, ne leva l'ipocrita ruvidezza e la malinconica ostentazione, l'attornia d'immagini socievoli e consolanti, (181) ne insegna lo spirito, e ne dà Lui stesso l'esempio. Certo, la Chiesa non ha bisogno d'altra autorità, per render ragione d'averlo conservato.

Gli Apostoli sono i primi a praticarlo. Il digiuno e la preghiera precedono l'imposizioni delle mani, che conferì a Paolo la missione verso le genti; (182) e la religione, come disse il Massillon, nasce nel seno del digiuno e dell'astinenze. (183) D'allora in poi, dove si può segnare un tempo di sospensione o d'intervallo? La storia ecclesiastica ne attesta la continuità in tutti i tempi e in tutti i santi; e se si trova pur troppo qualche volta il letterale adempimento del digiuno, scompagnato da una vita cristiana, è impossibile trovare una vita cristiana scompagnata dal digiuno. I martiri e i re, i vescovi e i semplici fedeli eseguiscono e amano questa legge: essa si trova come in un posto naturale tra' cristiani. Fruttuoso, vescovo di Tarragona, rifiutò, andando al martirio, una bevanda che gli era offerta per confortarlo; la rifiutò, dicendo che non era passata l'ora del digiuno. (184) Chi non prova un sentimento di rispetto per una legge così rispettata, nel momento solenne del dolore, da un uomo che stava per dare una testimonianza di sangue alla verità? Chi non vede che questa legge medesima aveva contribuito a prepararlo al sacrifizio, e che per morire imitatore di Gesù Cristo, egli n'era vissuto imitatore?

Ma, prescindendo da questi esempi ammirabili, nelle circostanze più ordinarie d'un cristiano, il digiuno e l'astinenze si legano con ciò che la sua vita ha di più degno e di più puro. Si veda un uomo giusto, fedele a' suoi doveri, attivo nel bene, sofferente nelle disgrazie, fermo e non impaziente contro d'ingiustizia, tollerante e misericordioso; e si dica se le pratiche dell'astinenza non sono in armonia con una tale condotta. San Paolo paragona il cristiano all'atleta che, per guadagnare una corona corruttibile, era in tutto astinente. (185) L'agilità e il vigore che ne veniva al suo corpo, era tanto evidente, i mezzi erano così corrispondenti al fine, che a nessuno pareva irragionevole quel tenore di vita, nessuno se ne maravigliava; e noi, educati all'idee spirituali del cristianesimo, non sapremo vedere la necessità e la bellezza di quell'istituzioni che tendono a render l'animo desto e forte contro l'inclinazioni del senso?

Questo è il punto di vista vero e importante dell'astinente; questi sono i loro effetti naturali. E se il mondo non se n'avvede, è perchè quelli che le praticano in spirito di fedeltà, si nascondono, e il mondo non si cura di ricercarli, e non fa per lo più attenzione all' astinenze, se non quando presentano un contrasto col resto della condotta.

Ci sono, anche nella Chiesa, dell'istituzioni transitorie, il fine delle quali è solamente di preparare e di condurre gli uomini d'un tempo o d'un luogo a un ordine, più elevato; ce ne sono dell'altre, che la Chiesa mantiene stabilmente, perché affatto connaturali al suo ordine intrinseco e perpetua. Esse attraversano delle generazioni ribelli o noncuranti, rimangono immobili in mezzo a un popolo dimentico o derisore, aspettando le generazioni ubbidienti e riflessive; perchè sono fatte per tutti i tempi. Tali sono, non dico il digiuno, che è d'istituzione divina, ma la più parte delle leggi ecclesiastiche che ne prescrivono delle speciali applicazioni: tali sono, per esempio, le vigilie. Celebrare la commemorazione de' gran misteri, e degli avvenimenti ai quali dev'essere rivolta tutta la considerazione del cristiano, e prepararcisi con la penitenza e con le privazioni, è un'istituzione tanto essenzialmente cristiana, che si confonde per l'origine della religione, e non ha avuto un momento di sospensione.

L'astinenza da certi cibi, come abbiamo detto, è un'altra applicazione dello stesso principio. Se ci sono di quelli che combinano l'esecuzione materiale di questo precetto con l'intemperanza e con la gola; e se ci sono degli altri che prendono da ciò il pretesto di farsene beffe, la Chiesa non ha creduto per questo di dover abolire una memoria vivente dell'antica semplicità e dell'antico rigore, di dover cancellare ogni vestigio di penitenza, e levare a tanti suoi figli un mezzo d'esercitarla ubbidendo. Perchè, non mancano de' ricchi che osservano sinceramente, e per spirito di penitenza, una legge di penitenza; e, tra i poveri, non sono mancati coloro che, forzati a una sobrietà che rendono nobile e volontaria con l'amarla, trovano il mezzo d'usar qualche maggior severità al loro corpo, ne' giorni in cui una particolare afflizione è preceritta dalla Chiesa. Essa li considera come il suo più bell'ornamento, e come i suoi figli prediletti.

Tutte queste pratiche non possono dirsi sostituite alla sobrietà: non ne dispensano; la suppongono invece, e ne sono un perfezionamento.

Lo stesso si dica devoti di verginità e di castità, in relazione con la continenza. Come chiamarle una sostituzione a questa, se ne sono l'esercizio più eminente? È inutile dire che la verginità, lodata e consigliata da san Paolo, (186) che ne diede l'esempio, lodata e disciplinata dai Padri, non è un'invenzione de' casisti.

Che se l'impudicizia può metter radice ne' cori, malgrado il voto di verginità, e la gola, malgrado l'astinenze, vorrà dire che tanta è la corruttela dell'uomo, che i mezzi stessi proposti dall'Uomo.Dio non la estirpano totalmente; che sono bensì armi per poter vincere, ma che non dispensano dal combattere: ma chi potrà supporre che ci possano essere de' mezzi migliori? Opporre alla Chiesa, la quale consiglia o comanda l'esercizio più perfetto d'una virtù, che questo può qualche volta essere scompagnato dal sentimento di quella virtù, non può, per quello ch'io vedo, condurre ad alcuna utile conseguenza. Perchè quest'obiezione avesse forza, converrebbe poter asserire che, una religione la quale si limitasse a proporre la sobrietà e la continenza, estirperebbe dal core degli uomini la radice dell'inclinazioni contrarie.




CAPITOLO XVII

SULLA MODESTIA E SULLA UMILTÀ

La modestie est la plus aimable des qualités de l'homme supérieur: elle n'exclut point un juste orgueil, qui lui sert d'appui contre ses propres foiblesses, et de consolation dans l'adversité; le casuiste y a substitué l'humilité; qui s'allie avec le mépris le plus insultant pour les autres. Pag. 420, 421.

Io non difenderò qui i casisti dall'accusa d'aver sostituita alla modestia, e, per dir così, inventata l'umiltà. Essa è tanto espressamente e ripetutamente comandata nelle Scritture, che una simile proposizione non par che possa esser presa a rigor di termini.

Esporrò invece qualche osservazione sulla natura di queste due virtù, affine di dimostrare che la modestia senza l'umiltà o non esiste o non è virtù; e che chi loda la modestia, o pronunzia una parola senza senso, o rende omaggio alla verità della dottrina cattolica; perchè gli atti e i sentimenti che s'intendono sotto il nome di modestia non hanno la loro ragione che nell'umiltà, quale è proposta da questa dottrina.

Qui è necessario risalire a un principio generale della morale religiosa; in essa le virtù hanno per fondamento delle verità assolute e necessarie. Non credo che ci sia bisogno di giustificare questo principio. Si può, eccome! non farsene carico ne' giudizi pratici, e anche nel fabbricare de' sistemi di morale; ma chi vorrebbe asserire formalmente che il bono possa essere opposto al vero, o, ciò che non sarebbe meno strano, nè opposto, nè conforme? Applicando ora alla modestia questo principio, vedremo che questa, per esser virtù, deve avere due condizioni: esser l'espressione d'un sentimento non finto ma reale, e d'un sentimento fondato sopra una verità; dev'esser sincera e ragionata.

Cos'è la modestia? Non credo facile il dirlo. Per definire, s'intende per lo più specificare il senso unico e costante che gli uomini attribuiscono a una parola: ora, se gli uomini variano nell'applicazione d'una parola, come trasportare nella definizione un senso unico che non esiste ne'concetti? È celebre l'osservazione del Locke: che la più parte delle dispute filosofiche è venuta dalla diversa significazione attribuita alle stesse parole. Sono pochi, dice, que' nomi d'idee complesse che due uomini adoprino a significare precisamente la stessa collezione d'idee. (187) Questa maggiore o minor varietà di significato, si trova più specialmente ne'vocaboli destinati a esprimere disposizioni morali.

È certo, nondimeno, che gli uomini s'intendono tra di loro, se non con precisione, almeno approssimativamente, quando adoprano o ascoltano alcuna di queste parole: non potrebbero anzi disputare, se non andassero d'accordo in qualche parte sul significato della parola che è l'oggetto, o piuttosto il mezzo necessario della loro disputa. Questo si spiega, se non m'inganno, osservando che ognuna di queste parole esprime un'idea riconosciuta per l'ordinario, quantunque più o meno distintamente, da ognuno; ma clte, in troppi casi, ora l'uno, ora l'altro, ora motti, cecgiamo di riconoscere, conservando però tenacemente la parola. E questo accade per più cagioni; ma forse la più attiva e la più frequente, è l'affetto a opinioni o à giudizi arbitrari coi quali quell'idea non potrebbe accomodarsi; anzi li dovrebbe correggere, che è ciò che non vogliamo. Ora, ne' sentimenti, nei pensieri, nell'azioni, nel contegno, a cui s'applica la parola modestia, l'idea predominante mi par che sia: confessione d'una maggiore o minor distanza dalla perfezione.

Posto ciò, l'uomo a cui si dà lode di modesto, perchè dimostra un sentimento della propria imperfezione, o è persuaso, o non lo è. Se non lo è, la sua è tanto lontana dall'esser virtù, che è anzi vizio; è finzione, ipocrisia. Che se è persuaso, o lo è con ragione, o no. In questo secondo caso, sarebbe ignoranza, inganno: ora, non è virtù quel sentimento che un esame più giudizioso, una maggior cognizione della verità, un aumento di lumi, ci farà abbandonare. Altrimenti bisognerebbe dire che ci siano delle virtù opposte alla verità; in altri termini, che la virtù è un concetto falso. Se dunque, quando si loda la modestia d'uno, non si vuol dire che quest'uomo sia o un impostore, o uno sciocco, si dovrà dire che la modestia suppone la cognizione di sè stesso, e che nella cognizione di sè stesso l'uomo deve sempre trovar la ragione d'esser modesto. Ho detto sempre, perchè altrimenti ci sarebbero de' casi in cui l'uomo potrebbe ragionevolmente avere il sentimento opposto a questa virtù. Anzi, quanto più uno diventasse virtuoso, dovrebbe esser meno modesto; giacchè è certo che si sarebbe avvicinato alla perfezione; e così il miglioramento dell'animo condurrebbe logicamente alla perdita d'una virtù; il che è assurdo. Ora, questa ragione perpetua, e senza eccezione, d'esser modesti, si trova nella doppia idea che la rivelazione ci ha data di noi stessi e sulla quale è fondato il precetto dell'umiltà, la quale non è altro che una cognizione di sè stesso. E questa idea è, che l'uomo è corrotto e inclinato al male, e che tutto ciò che ha di bene in sè, è un dono di Dio: dimanierachè ognuno può e deve, in ogni caso, dire a sè stesso: Che hai tu, che non abbi ricevuto? e se l'hai ricevuto, perchè te ne glorii, come se non l'avessi ricevuto? (188)

Per questa sola ultima ragione, Gesù Cristo, quantunque perfetto, anzi perciò appunto, ha potuto essere sovranamente umile; perchè conoscendo in eccellente grado sè stesso, e non essendo accessibile ad alcuna delle passioni che fanno errare l'uomo che giudica sè stesso, ha veduto in eccellente grado, che l'infinite perfezioni che aveva nella sua natura umana, erano doni.

E per riguardo a tutti gli uomini, si darà, un'idea chiara e ragionata della modestia, chiamandola l'espressione dell'umiltà, il contegno d'un uomo il quale riconosce d'esser soggetto all'errore e al traviamento, e riconosce ugualmente, che tutti i suoi pregi sono doni che può perdere per la sua debolezza e per la sua corruttela. Se non ci supponiamo quest'idea, la modestia è o scempiaggine o impostura: se ce la supponiamo, è ragione e virtù: con quest'idea si spiega l'uniformità del sentimento degli uomini in favore di essa; e questo sentimento diventa un raziocinio.

Noi lodiamo l'uomo modesto, non solo perchè, abbassandosi e tenendosi in un canto, lascia a noi un po' più di posto per elevarci e per comparire; non lo lodiamo solo come un concorrente che si ritira. Certo; l'interesse delle nostre passioni ha una parte, che noi stessi non sappiamo sempre discernere, nelle nostre approvazioni e ne' nostri biasimi; ma ognuno, esaminandosi, trova in sè stesso una disposizione ad approvare, independente da quest'interesse, e fondata sulla bellezza di ciò che approva. Si potrebbe dimostrare con degli esempi la realtà di questa disposizione; ma ognuno la sente, è un fatto.

Non lodiamo la modestia solamente come una qualità rara e difficile: ci sono dell'abitudini perverse a cui pochi uomini arrivano, e non ci arrivano, se non per gradi, e facendo violenza a sè stessi; e nessuno le approva.

Non lodiamo neppure la modestia solo perché riunisca questi due caratteri d'utilità e di difficoltà. Il Vecchio della montagna ricavava un vantaggio dalla credulità e dalla devozione dell'uomo pronto a buttarsi nel precipizio, a un suo cenno, e doveva riconoscere uno sforzo difficile in quest'ubbidienza; eppure non poteva trovar degno di stima quest'uomo, ch'egli conosceva meglio d'ogni altro, come un miserabile zimbello della sua impostura.

Noi approviamo e lodiamo l'uomo modesto, perché, malgrado l'inclinazione fortissima d'ogn'uomo a stimarsi eccessivamente, è arrivato a fare un giudizio imparziale e vero di sè stesso; e perché è arrivato a farsi una legge di rendere alla verità questa testimonianza difficile e dolorosa. La modestia insomma piace come utilità e come difficoltà, ma prima di tutto come verità. Si ripassino pure tutti i concetti ragionevoli intorno alla modestia; tutti verranno a combinare con questo.

La modestia è una delle più amabili doti dell'uomo superiore. Verissimo; anzi s'osserva comunemente che la modestia cresce in proporzione della superiorità: e questo si spiega benissimo con l'idee della religione. La superiorità non è altro che un grande avanzamento nella cognizione e nell'amore del vero: la prima rende l'uomo umile, e il secondo lo rende modesto.

Quest'uomo teme le lodi e le sfugge: ma le lodi sono gradevoli, e non c'è un'ingiustizia apparente nel cercar d'ottenerle spontanee: eppure il suo contegno è approvato da tutti quelli che apprezzano la virtù. Ciò accade perché quel contegno è ragionevole. L'uomo modesto vede che le lodi non gli ricordano che una parte di sè, e quella appunto che è già inclinato a considerare e a ingrandire, mentre, per conoscersi bene, ha bisogno di considerare tutto sè stesso; vede che le lodi lo trasportano facilmente ad attribuire a sè ciò che è dono di Dio, a supporre in sè una eccellenza sua propria, e quindi a ingannarsi deplorabilmente e colpevolniente. Perciò le sfugge, perciò nasconde le sue belle azioni, perciò conserva i suoi sentimenti più nobili nella custodia del suo core; avvertito appunto dallo studio sincero di sè medesimo, che tutto ciò che lo porta a farne mostra, è un desiderio superbo d'esser distinto, osservato, stimato, non quello che è, ma il meglio possibile.

Ma, se la verità e la carità lo richiedono, anche l'uomo modesto lascia apparire il bene che è in lui, e se ne rende testimonianza. Ne è uno splendido modello la condotta di san Paolo, quando l'utile del suo ministero l'obbliga a rivelare ai Corinti i magnifici doni di Dio. Costretto a parlare di ciò che lo può elevare agli occhi altrui, ne restituisce a Dio tutta la gloria, e confessa spontaneamente le miserie più umilianti in un apostolo, in cui la dignità della missione par che escluda l'idea, non solo della caduta, ma della tentazione. Nell'animo sublimato alla intelligenza delle arcane parole che non è lecito a un uomo di proferire, (189) chi avrebbe ancora supposta viva la guerra dell'inclinazioni del senso? Egli stesso ne parla; egli discende dalle caste e alte visioni del terzo cielo, a mostrarsi nell'arena de' combattenti carnali: costretto a rivelare il segreto del suo animo, lo rivela tutt'intero per esser tutto conosciuto. (190)

Se la modestia è l'umiltà ridotta in pratica, non si può combinare con l'orgoglio, che è il contrario di questa; e non ci sarà alcun giusto orgoglio. L'uomo che si compiace di sè stesso, che non riconosce in sè quella legge delle membra che contrasta alla legge della mente, (191) l'uomo che osa promettere a sè stesso, che, per la sua forza sceglierà il bene nell'occasioni difficili, è miserabilmente ingannato e ingiusto; l'uomo che s'antepone agli altri è temerario; è parte, e si fa giudice. Che se, per un giusto orgoglio, s'intende riconoscere la verità del bene che s'è fatto, senza attribuirlo a sè, e senza invanirsene, sarà questo un sentimento legittimo, anzi un sentimento doveroso; ma l'umiltà non l'esclude, ma è l'umiltà stessa, ma la condotta contraria è proscritta dalla morale cattolica come menzognera e superba; poichè chi crede che, facendo un giusto giudizio di sè, avrebbe di che gloriarsi, e che, per poter esser umile, abbia bisogno di contraffarsi, è un povero superbo; ma finalmente bisogna permetterci di chiamare questo sentimento altrimenti che orgoglio; non per cavillare su una parola, ma perché questa è consacrata a significare un sentimento falso e vizioso in tutti i suoi gradi. E poichè la condotta esterna può essere in molti casi la medesima in chi ha il sentimento dell'umiltà, e in chi non l'ha, importa di conservare il suo senso alla parola che è appunto destinata a specificare il sentimento. L'orgoglio non può dunque esser mai giusto; quindi non può mai essere, nè un sostegno alla debolezza umana, nè una consolazione nell'avversità.

Questi sono frutti dell'umiltà: è essa che ci sostiene contro la nostra debolezza, facendocela conoscere e ricordare ogni momento; l'umiltà che ci porta a vegliare e a pregare Colui che comanda la virtù e che la dà; è essa che ci fa alzar lo sguardo ai monti donde ci viene l'aiuto. (192) E nelle avversità, le consolazioni sono per l'animo umile, che si riconosce degno di soffrire, e prova il senso di gioia che nasce dal consentire alla giustizia. Riandando i suoi falli, le avversità gli appariscono come correzioni d'un Dio che perdonerà, e non come colpi d'una cieca potenza; e cresce in dignità e in purezza, perchè, a ogni dolore sofferto con rassegnazione, sente cancellarsi alcuna delle macchie che lo deformavano. Che più? arriva fino a amare l'avversità stesse, perchè lo rendono conforme all'immagine del Figliuolo di Dio; (193) e in vece di perdersi in vane e deboli querele, rende grazie in circostanze, nelle quali, se fosse abbandonato a sè stesso, non troverebbe che il gemito dell'abbattimento, o il grido della ribellione. Ma l'orgoglio! Quando Iddio avrà umiliato il superbo come un ferito, (194) l'orgoglio sarà per lui un balsamo? A cosa può servire l'orgoglio nelle avversità, se non a farle odiare come ingiuste, a suscitare in noi perpetuamente un irrequieto e doloroso paragone tra quello che ci par di meritare e quello che ci tocca soffrire? Il punto di riposo per l'uomo, in questa vita, è nella concordia della sua volontà con la volontà di Dio sopra di lui; e chi n'è più lontano che l'orgoglioso, quando è percosso? L'orgoglio è garrulo nella sventura, quando trovi ascoltatori; s'agita e si consuma a dimostrar che le cose non dovrebbero essere come Dio l'ha volute: se si chiude in sè, il suo silenzio è amaro, sprezzante, imposto dal sentimento della propria impotenza, e per fino dal timore della commiserazione altrui. Quelle vantate consolazioni dell'uomo che, nell'avversità, afferma di trovare un compenso in sè, quando questo compenso non sia rassegnazione e speranza, non sono, per lo più, se non un artifizio dell'orgoglio stesso, che rifugge dal lasciar vedere uno stato d'abbattimento, che potrebb'essere un grato spettacolo all'orgoglio altrui. Dio sa quali siano queste consolazioni; e basta leggere le Confessioni dell'infelice Rosseau per averne un'idea, per vedere quale sia lo stato d'un core che, ammalato d'orgoglio, cerca nell'orgoglio il suo rimedio. Nella solitudine, dove s'era promessa la pace, ritorna col pensiero sull'umiliazioni sofferte nella compagnia degli uomini, ne rammemora le più piccole circostanze. Colui che aveva parlato e scritto tanto sulla corruttela dell'uomo sociale, non aveva un animo preparato all'ingiustizia: quando n'è colpito, non se ne può dar pace. Si paragona con quelli che l'offesero, che lo trascurarono; si trova tanto dappiù di essi, e si rode pensando che questi appunto l'abbiano offeso o trascurato. Le parole, gli sguardi, il silenzio, tutto ripensa nell'amaritudine dell'anima sua: i patimenti del suo orgoglio si possono misurare dall'avversione che prova per coloro che l'hanno irritato: come li giudica, come li dipinge! Può esser certo d'aver comunicato all'animo di migliaia di lettori l'odio e il disprezzo che lo tormentano; e quando pare che sia vendicato, esclama: cela me passoit, et me passe encore. (195) Eppure, se ci fu mai, secondo il mondo, un giusto orgoglio; se un ingegno lodato anche dagli avversari; se una parola che si fa sentire pertutto dove c'è qualche coltura, una parola che agita, sorprende, comanda; se una fama che, levando alla folla degli scrittori anche il pensiero della rivalità, soffoga in essi l'invidia, e la fa nascere in que' provetti, che credevano di non aver più altro a fare che incoraggire il merito nascente, senza timore di competenze; se l'esser, non solo mostrato a dito, ma spiato, appostato da una curiosità ammiratrice, ricercato, nella più umile fortuna, da quelli che sono ricercati per la loro fortuna, sono titoli d'un giusto orgoglio, chi n'ebbe di maggiori? E, tra tanti motivi, non dirò di consolazione, ma di trionfo, quali sono poi finalmente i suoi dolori? È un amico del mondo, che vuol fargli l'uomo addosso, e prescrivergli ciò che deva fare; è un altro che, protetto da lui altre volte, vuol parere il suo protettore, e gli leva il posto alla tavola d'un'altra amica dello stesso genere. Ah! certo non bisogna usar parsimonia nel dispensare la compassione, nè pesare sulla nostra bilancia i dolori degli altri: l'uomo che soffre, sa lui quello che soffre; e se è la debolezza dell'animo suo, che ingrandisce il male, questa debolezza, comune a tutti, è quella appunto che merita una maggior compassione. Ma, quando si pensa alle ingiustizie sofferte dai grandi del cristianesimo; quando si pensa alle persecuzioni, alle calunnie, ai disprezzi di cui furono colmati i santi, e alla gioia con cui li sopportarono, alla pazienza con cui aspettarono la manifestazione della verità, senza pretenderla in questa vita, alla delizia che provavano a sfogarsi soli con Dio, e che i loro sfoghi erano azioni di grazie, e tutto ciò perchè erano umili; allora si riconosce dove l'uomo possa trovar davvero un sostegno contro la sua propria debolezza, e una consolazione nell'avversità.

Ah! se nella vita che ci resta a percorrere, ci sono preparati de' passi difficili e dolorosi, se per noi s'avvicina il momento della prova, preghiamo che ci trovi nell'umiltà, che il nostro capo sia pronto a chinarsi sotto la mano di Dio, quando sia per passarci sopra.

Da ciò che s'è detto intorno all'umiltà viene di conseguenza che, se c'è sentimento che distrugga il disprezzo insultante per gli altri, è l'umiltà certamente. Il disprezzo nasce dal confronto di sè stesso con gli altri, e dalla preferenza data a sè stesso: ora, come mai questo sentimento potrà prender radice nel core educato a considerare e a deplorare le proprie miserie, a riconoscere da Dio ogni suo merito, a riconoscere che potrà trascorrere a ogni male, se Dio non lo rattiene?




CAPITOLO XVIII

SUL SEGRETO DELLA MORALE, SUI FEDELI SCRUPOLOSI, E SUI DIRETTORI DI COSCIENZE

La morale est devenue non–seulement leur science, mais leur secret (des docteurs dogmatiques). Le dépôt en est tout entier entre les mains des confesseurs et des directeurs des consciences. Pag. 421.

Se i confessori in Italia hanno fatto della morale un segreto, si sono dunque dimenticati che il Salvatore e Maestro di tutti aveva detto agli apostoli: Dite in pieno giorno quello che io vi dico all'oscuro, e predicate sui tetti quello che v'è stato detto in un orecchio; (196) si sono dimenticati che, negli ultimi momenti del suo soggiorno sulla terra, aveva rinnovato un tal precetto, con quelle solenni parole: Istruite tutte le genti... insegnando loro d'osservare tutto quello ch'io v'ho comandato. (197)

Ma quali sono tra di noi i libri riservati ai soli dottori dommatici? Come si trasmettono essi questo segreto? Non ha detto poco sopra l'illustre autore, che la morale proprement dite n'a pas cessé d'être l'objet des prédications de l'Église? Di cosa parlano i parrochi dall'altare, di cosa parlano tutti i trattati di morale, che ognuno può consultare?

Le fidèle scrupuleux doit, en Italie, abdiquer la plus belle des facultés de l'homme, celle d'étudier et de connoître ses devoirs. Ivi.

Ma il clero in Italia non cessa di gridare contro la negligenza nell'istruirsi in quella legge sulla quale saremo giudicati; ma inculca ai parenti l'obbligo d'ammaestrare i loro figli in tutti i loro doveri; ma, lungi dal far abdicare ad alcuno la facoltà di conoscerli, intima a tutti, che essa diverrà la condanna di chi non avrà voluto usarla.

On lui recommande de s'interdire une pensée qui pourroit l'égarer, un orgueil humain qui pourroit le séduire. Ivi.

Chi vorrà discolpare su questo punto il clero italiano? Se così è, non resta a desiderare altro se non che sia sempre così, e che queste raccomandazioni siano universali, costanti, figlie della scienza e della carità, che il clero non abbia mai altro linguaggio; poiché è quello del Vangelo.

Del resto, al fedele scrupoloso (intendendo questo termine nel suo stretto senso) si raccomanda in Italia, come altrove, d'interdirsi l'eccessive a lunghe considerazioni sopra ogni azione e sopra ogni pensiero, e di fermarsi sull'idee ilari e confortevoli di fiducia in Dio, e della sua misericordia.

Non sarà qui fuori di proposito l'osservare come questa malattia morale attesti nello stesso tempo, e la miseria dell'uomo, e la bellezza della religione. Lo scrupoloso ci mette del suo l'incertezza, la trepidazione, la perturbazione, la diffidenza, disposizioni pur troppo naturali all'uomo, e che in alcuni sono predominanti a segno che governano, o piuttosto intralciano tutte le loro operazioni. Ma è una cosa molto notabile, che quell'angustia che l'avaro mette nella conservazione della roba, l'ambizioso nel mantenimento e nell'aumento della sua potenza, quella penosa e minuta sollecitudine che tanti hanno, per gli oggetti delle loro passioni, si eserciti da alcuni cristiani, intorno a che? all'adempimento de' loro doveri. La tendenza alla perfezione è tanto propria alla religione, che si manifesta perfino ne' traviamenti e nelle miserie dell'uomo che la professa. Un animo occupato dal timore di non essere giusto abbastanza, fino a perderne la tranquillità, potrebbe quasi parere un miracolo di virtù, se la religione stessa, tanto superiore al discernimento umano, non ci facesse vedere in quell'animo delle disposizioni contrarie alla fiducia, all'umiltà e alla libertà cristiana; se non ci desse l'idea d'una virtù da cui è escluso ogni movimento disordinato, e la quale, quanto più si perfeziona, tanto più si trova vicina alla calma e alla somma ragione.

Et toutes les fois qu'il rencontre un doute, toutes les fois que sa situation devient difficile, il doit recourir à son guide spirituel. Ainsi l'épreuve de l'adversité, qui est faite pour élever l'homme, l'asservit touours davantage. Ivi.

Non c'è forse scoperta più amara all'orgoglio, che l'accorgersi d'essere stato, per troppa semplicità, un cieco istrumento d'un'astuta dominazione, d'avere ubbidito a de' voleri ambiziosi, credendo di seguire de' consigli salutari. A quest'idea, le passioni compagne dell'orgoglio si sollevano con tanto più di veemenza, in quanto trovano un appoggio nella ragione. Perchè, è certo che Dio vuole che la mente si perfezioni nella considerazione de' suoi doveri, è nella libera scelta del bene; e l'uomo che si lascia rapire arbitrariamente il governo della sua volontà, rinunzia alla vigilanza delle sue azioni, delle quali non renderà meno conto per ciò. Il solo sospetto di questa debolezza può quindi portar l'uomo ai pensieri più inconsiderati, e fargli dire senza cagione, e a suo gran danno: Spezziamo le loro catene, e buttiamoci d'addosso il loro giogo. (198) Importa perciò sommamente di separare la voce dell'orgoglio da quella della ragione, perchè unite non ci facciano forza, e d'esaminare tranquillamente quale deva essere, in questa parte, la condotta ragionevole e dignitosa d'un cristiano.

Si possono considerare nel sacerdozio due sorte d'autorità: quella che viene da Dio, e forma l'essenza della missione, l'autorità d'insegnare, di sciogliere e di legare; e un'altra autorità che può esser data volontariamente, in riguardo della prima, da questo e da quel fedele, a questo o a quel sacerdote, per una venerazione e per una fiducia speciale. In quanto alla prima, essa è essenziale al cristianesimo: il sottomettercisi non è servitù, ma ragione e dignità. Non c'è atto di questa, che non sia un atto di servizio, in cui il sacerdote non comparisca come ministro d'una autorità divina, alla quale è sottomesso anche lui, come tutti i fedeli; non ce n'è alcuno che offenda la nobiltà del cristiano.

Sì, noi, cioè tutti i cattolici, e laici e sacerdoti, principiando dal papa, c'inginocchiamo davanti a un sacerdote, gli raccontiamo le nostre colpe, ascoltiamo le sue correzioni e i suoi consigli, accettiamo le sue punizioni. Ma quando un sacerdote, fremendo in spirito della sua indegnità e dell'altezza delle sue funzioni, ha stese sul nostro capo le sue mani consacrate; quando, umiliato di trovarsi il dispensatore del Sangue dell'alleanza, stupito ogni volta di proferire le parole che danno la vita, peccatore ha assolto un peccatore, noi alzandoci da' suoi piedi, sentiamo di non aver commessa una viltà. C'eravamo forse stati a mendicare speranze terrene? Gli abbiamo forse parlato di lui? Abbiamo forse tollerata una positura umiliante per rialzarcene più superbi, per ottenere di primeggiare sui nostri fratelli? Non s'è trattato tra di noi, che d'una miseria comune a tutti, e d'una misericordia di cui abbiamo tutti bisogno. Siamo stati a' piedi d'un uomo che rappresentava Gesù Cristo, per deporre, se fosse possibile, tutto ciò che inclina l'animo alla bassezza, il giogo delle passioni, l'amore delle cose passeggiere del mondo, il timore de' suoi giudizi; ci siamo stati per acquistare la qualità di liberi, e di figliuoli di Dio.

In quanto all'autorità del secondo genere, essa è fondata su un principio ragionevolissimo; ma può avere e ha purtroppo i suoi abusi. Per non giudicare precipitosamente in ciò, un cristiano dove, a mio credere, non perder mai di vista due cose: una, che l'uomo può abusare delle cose più sante; l'altra, che il mondo suol dare il nome d'abuso anche alle cose più sante. Quando siamo tacciati di superstizione, di fanatismo, di dominazione, di servilità, riconosciamo pure, che la taccia può pur troppo esser fondata; ma esaminiamo poi se lo sia, giacché queste parole sono spesso impiegate a qualificare l'azioni e i sentimenti che prescrive il Vangelo.

Ricorrere, per consiglio, alla sua guida spirituale, ne' casi dubbi, non è farsi schiavo dell'uomo; è fare un nobile esercizio della propria libertà. E è forse superfluo l'osservare che una tal massima e una tal pratica non sono punto particolari all'Italia, ma comuni ai cattolici di qualunque paese.

L'uomo che deve esser giudice in causa propria, e che desidera d'operare secondo la legge divina, non può a meno di non accorgersi che l'interesse e la prevenzione inceppano la libertà del suo giudizio; e è savio se ricorre a un consigliere, il quale, e per istituto e per ministero, deve aver meditata quella legge, e esser più capace d'applicarla imparzialmente; a un uomo che dev'esser nutrito di preghiera, e che, avvezzo alla contemplazione delle cose del cielo, e al sacrifizio di sè stesso, deve sapere, in particolar maniera, stimar le cose col peso del santuario.

Ma del consiglio che gli vien dato, è sempre giudice lui: la decisione dipende dal suo convincimento; tanto è vero, che gli sarà chiesta ragione, non solo di questa, ma della scelta medesima del consigliere. E non s'è mai lasciato di predicare nella Chiesa, che Se un cieco ne guida un altro, tutt'e due cadono nella fossa. (199)

Purtroppo, quelle due miserabili e opposte tendenze di servilità e di dominazione hanno radice l'una e l'altra nel nostro core indebolito dalla colpa. Pigri e irresoluti, buttiamo volentieri sugli altri il peso dell'anima nostra, e siamo facili a contentarci di tutto ciò che ci risparmia una deliberazione. E dall'altra parte, quando un uomo confidi in noi, rincorati dal suffragio, superbi d'estendere il dominio della nostra piccola volontà, siamo subito tentati di servire a questa più che all'utilità degli altri, siamo tentati di dimenticare che l'uomo è nato a un ben più alto esercizio delle sue facoltà, che a signoreggiare le altrui. Queste debolezze della natura umana possono pur troppo produrre degl'inconvenienti nell'uso del consiglio; e ciò dev'essere per tutti i cristiani un soggetto di confusione e di vigilanza. Ma abbandonare le guide che Dio ci ha date, ma buttar via il sale della terra, (200) ma privarsi d'un aiuto necessario perchè può aver con sè de' pericoli, ma non vedere altro che dominatori e che intriganti, tra tanti pastori zelanti e disinteressati, che tremano nel dare il consiglio, e che si riputerebbero stolti, se volessero usurpare un'autorità eccessiva, e esporsi con ciò a un giudizio spaventoso; lungi da noi questi pensieri che ci condurrebbero a rendere in parte inutile il ministero istituito per noi.

Et celui même qui a été vraiment et purement vertueux, ne sauroit se rendre compte des règles qu'il s'est imposées. Ivi.

I precetti del Decalogo, le massime e lo spirito del Vangelo, le prescrizioni della Chiesa, ecco le regole che il cattolico virtuoso si propone, e delle quali può rendersi conto quando voglia.




CAPITOLO XIX

SULLE OBIEZIONI ALLA MORALE CATTOLICA DEDOTTE DAL CARATTERE DEGLI ITALIANI

Aussi seroit–il impossible de dire à quel degré une fausse instruction religieuse a été funeste à la morale en Italie. Il n'y a pas en Europe un peuple qui soit plus constamment occupé de ses pratiques religieuses, qui y soit plus universellement fidèle. Il n'y a pas un qui observe moins les devoirs et les vertus que prescrit ce christianisme auquel il paroit si attaché. Chacun y a appris non point a obéir à sa conscience, mais à ruser avec elle; chacun met ses passions à leur aise par le bénéfice des indulgences, par des réservations mentales, par le projet d'une pénitence, et l'espérance d'une prochaine absolution; et loin que la plus grande ferveur religieuse y soit une garantie de la probité, plus on y voit un hornme scrupuleux dans ses pratiques de dévotion, plus on peut à bon droit concevoir contre lui de défance. Pag. 421–422.

Ecco in poche parole una condanna tanto assoluta, quanto forte. Il popolo italiano è il meno fedele ai doveri e alle virtù del cristianesimo, e quindi il peggior popolo d'Europa. E in esso i peggiori sono quelli che osservano più scrupolosamente le pratiche di divozione.

Come s'è accennato fino dal principio, non è nostra intenzione di confutare un tal giudizio, nè di far l'apologia dell'Italia, e molto meno un'apologia comparativa: assunto d'un genere che richiede o piuttosto richiederebbe due condizioni, una delle quali difficilissima, per non dire impossibile, cioè la cognizione de' fatti necessaria al confronto; l'altra, difficile anch'essa non poco, se si deve argomentare da quello che si vede, cioè l'imparzialità necessaria al giudizio. Si potrebbe, con molto maggior facilità, e senza metterci nulla del nostro, opporre affermazioni a affermazioni, sentenze a sentenze, raccogliendo anche una piccola parte di quelle che da scrittori di ciascheduna parte d'Europa sono state pronunziate contro ciaschedun'altra. Qual è la qualità bassa, ridicola, scellerata, che non sia stata attribuita o all'una o all'altra, o anche a ognuna? Qual è il termine di disprezzo, la formola d'esecrazione, che non sia stata adoprata a un tal uso? Qual è il popolo d'Europa, che non sia stato qualche volta, e più d'una volta, chiamato il peggio d'Europa? Ma il cielo ci guardi dal rimestare una materia simile. Sono giudizi suggeriti dalle passioni; e tra queste, anche quando non è l'unica, ha sempre una bona parte l'orgoglio, che ci fa trovare la nostra esaltazione nell'abbassamento altrui: tanto sente, suo malgrado, il bisogno di cercar qualche aiuto al di fuori. Lasciamo questi giudizi, così vasti e così turbolenti per noi, e ne' quali siamo sempre giudici non abbastanza informati, e quasi sempre parte appassionata, lasciamoli a Quello che, conoscendo ogni cosa, e non avendo bisogno d'innalzarsi per mezza de' paragoni, nè d'accattar lustro da nessuna compagnia, giudica i popoli nell'equità. (201)

Del resto, il giudizio di cui si tratta qui specialmente, è espresso in termini tali, che l'accettarlo qual è sarebbe, di certo, oltrepassar l'intenzione dell'autore. Perchè, di certo, dicendo che, in Italia ognuno ha imparato, non a ubbidire alla sua coscienza, ma a giocar d'astuzia con essa; che ognuno mette al largo le sue passioni col comodo dell'indulgenze, con delle restrizioni mentali, con de' progetti di penitenza, e con la speranza d'una prossima assoluzione, non ha voluto dire ciò che dicono queste parole. Non ci sarebbe tra di noi uno solo che ubbidisca sinceramente alla sua coscienza! Nessuno di noi potrebbe sperare d'avere un amico virtuoso, d'esserlo lui medesimo! E le gioconde emozioni della stima e della fiducia, e la gioia che è dato all'uomo di provare, allorché, stringendo la mano dell'uomo, sente con sicurezza che un core risponde al suo, non sarebbe concessa a nessuno di noi! Nel passo medesimo che precede immediatamente quello che stiamo esaminando, si troverebbero, se ce ne fosse bisogno, parole che non permettono d'intendere, senza contradizione, quest'ultime nel loro significato proprio e naturale. Il dire che tra i cattolici d'Italia, anche l'uomo che è stato veramente e puramente virtuoso, non saprebbe rendersi conto delle regole che s'è imposte, è dire indirettamente, ma espressamente, che, anche in Italia, e tra i fedeli scrupolosi d'Italia, ci può essere, se Dio vuole, qualche uomo veramente e puramente virtuoso, e del quale, per conseguenza, sarebbe troppo strano che s'avesse ragione di diffidare in un grado speciale.

Ma ciò che importa non è di vedere qual sia, secondo una o un'altra opinione, lo stato morale dell'Italia, in paragone di quello degli altri popoli d'Europa. Ciò che importa o, possiam dire, ciò che importava, era di vedere se, di quel tanto o quanto male morale che c'è sicuramente in Italia, cioè anche in Italia, sia stata cagione un'influenza speciale della religione cattolica. Ora, in questo forse troppo lungo esame, abbiamo visto che, delle dottrine citate come cagione dell'asserito speciale pervertimento,

1°. alcune, veramente opposte alla morale, non hanno, nè ebbero mai corso in Italia, nulla più che tra i cattolici dell'altre nazioni;

2°. altre, che furono e sono insegnate in Italia, lo furono e lo sono ugualmente in tutti i paesi cattolici, come parte essenziale di questa, religione. E abbiamo veduto che queste sono consentanee al Vangelo, e, per natural conseguenza, consentanee insieme e superiori alla ragione. Sull'autorità della religione in punto di morale, sulla distinzione dei peccati in mortali e veniali, sulla dottrina e sulle forme della penitenza, sull'efficacia del pentimento, sulla forza e sulla sanzione de comandamenti della Chiesa, sui motivi dell'elemosina, sull'astinenza, sull'umiltà, su tutti i punti insomma, ch'erano allegati come prova di differenza, l'esame ci ha fatto trovare unità di fede e d'insegnamento.

E torna qui a proposito il rammentare una cosa che s'è accennata da principio, cioè che, nel testo medesimo che abbiamo esaminato, la cagione di quello speciale pervertimento, è attribuita, più d'una volta, non già a dottrine particolari all'Italia, ma alla Chiesa nominatamente. La Chiesa, è detto in quello, s'impadronì della morale, come di cosa tutta sua, e sostituì l'autorità de' suoi decreti e le decisioni de' Padri ai lumi della ragione e della coscienza, lo studio de' casisti a quello della filosofia, un'abitudine servile al più nobile esercizio dello spirito. La Chiesa collocò i suoi precetti accanto alla gran tavola delle virtù e de' vizi ... e diede loro un potere, che le leggi della morale non poterono ottener mai. Accuse, delle quali, con poverissime forze, ma col potentissimo aiuto della verità, abbiamo cercato di far vedere l'insussistenza: ma che, anche senza essere esaminate, si manifestano da sè come incapaci di dimostrare l'effetto speciale e d'eccezione, ch'era proposto a dimostrare. Il resto poi della colpa è attribuito quasi sempre ai casisti; i quali non sono certamente la Chiesa, ma non sono nemmeno una classe d'uomini particolare all'Italia.

E in quanto agli abusi nell'applicazione della dottrina cattolica, che possono esistere in Italia, abbiamo visto che non vengono dall'insegnamento, poichè questo non è altro che l'insegnamento cattolico; il quale li denunzia e li combatte, e gli avrebbe levati di mezzo affatto e per sempre, se l'uomo non avesse il terribile potere d'alterare a sè stesso la verità, e di piegar le dottrine alle passioni. E abbiamo visto che, gli abusi, come vengono da queste cagioni, umane pur troppo e non italiane, così è stato e è necessario di denunziarli e il combatterli in altri paesi cattolici; e che il rimedio a questo, come a tutti i mali morali, è per tutti la cognizione della dottrina, e l'amore di essa, che è il mezzo sicuro d'intenderla rettamente.




APPENDICE AL CAPITOLO TERZO

DELLE OSSERVAZIONI SULLA MORALE CATTOLICA

----------------

DEL SISTEMA CHE FONDA LA MORALE SULL'UTILITÀ

Nella prima edizione, si contenevano alcuni cenni intorno a questo sistema, per ciò che riguarda la sua applicazione, o piuttosto la sua applicabilità, alla pratica. Ma erano cenni rapidi e leggieri; e essendo questo il più accreditato tra i sistemi che vogliono distinta affatto, e separata per principio la morale dalla teologia, abbiamo creduto che non sarebbe fuori di proposito di farci sopra qualche osservazione più estesa. Ci limiteremo però, per quanto sarà possibile, a considerarlo da quell'aspetto solo; perchè, da una parte, il suo vizio più essenziale e più immediato, cioè l'assoluta mancanza di moralità, è già stato messo da altri in piena luce; e dall'altra, il chiarirlo inapplicabile (logicamente, s'intende) è un'altra maniera di dimostrarlo falso.

Questo sistema pone che la vera utilità dell'individuo s'accorda sempre con l'utilità generale, dimanierachè l'uomo, giovando agli altri, procaccia il maggior utile a sè stesso. E da ciò vuol che si deva ricavare la regola morale delle deliberazioni umane. Il nostro assunto principale è d'esaminar se si possa. Supponiamo dunque, prescindendo da ogni altra considerazione, un uomo persuaso della verità di questo principio, e disposto sinceramente a uniformarcisi nella pratica; supponiamolo, dico, alla scelta d'un'azione, in una cosa dove sia interessata la moralità. Qual è il criterio che il sistema gli potrà somministrare per far questa scelta.

Fatto non già unico, ma notabile certamente i due criteri invece d'uno non dirò somministra, ma implica questo sistema. Dico due criteri d'uguale autorità, e independenti l'uno dall'altro; giacchè, se l'interesse individuale s'accorda sempre con l'interesse generale, è evidente che trovarne uno è averli trovati l'uno e l'altro; e che, per conseguenza, farebbe una fatica assurdamente superflua chi, dopo essersi persuaso che l'azione intorno alla quale delibera sarà utile, a lui, si mettesse, per assicurarsi della moralità di essa, a cercare se sarà utile anche agli altri, e viceversa. Ma quest'abbondanza apparente non è, nè potrebb'essere altro, che una mancanza reale. Ogni duplicità non ha la sua ragione e la sua concordia, che in un'unità superiore, la quale in questo sistema manca affatto, anzi n'è esclusa; giacchè, nè esso pretende di dare, nè avrebbe di che dare, una ragione per la quale l'utilità dell'individuo operante deva necessariamente accordarsi con l'utilità generale. Appunto perchè non può somministrare un unico, supremo, assoluto criterio, come la ragione richiede, ne implica, come s' è detto dianzi, due d'ugual valore, cioè ugualmente congetturali; e ciò per effetto della loro comune natura, Cos'è infatti l'utilità avvenire, sia individuale, sia generale, riguardo alla cognizione umana, se non una cosa di mera congettura? Perché, non è essa punto una qualità che l'osservazione possa riconoscere come inerente, o no, all'azione da farsi, o da non farsi, alla quale il criterio dev'essere applicato; è un effetto che potrà venire, o non venire da quell'azione; dependentemente dall'operazione eventuale d'altre cagioni. E quindi, proporre l'utilità per criterio primario, anzi unico, della moralità dell'azioni umane, come fa quel sistema, è proporre un criterio, non dirò ingannevole, ma inapplicabile, tanto nell' una, che nell'altra maniera.

Che se, in una cosa tanto evidente, potesse parer necessaria una più particolare dimostrazione, si veda, di grazia, come mai un uomo qualunque possa giudicare anticipatamente con certezza, se una data azione sia per riuscire più utile che dannosa a lui medesimo; che, delle due ricerche, può parere, a prima vista, la meno difficile. Ha forse l'avvenire davanti a sè? Conosce gli effetti degli effetti, le circostanze independenti dalla sua azione, e che opereranno sopra di lui in conseguenza di quella? le determinazioni ch'essa potrà suggerire ad altri uomini, noti, ignoti a lui, a seconda di loro interessi, di loro opinioni, di loro capricci? Conosce il cambiamento possibile dei suoi sentimenti stessi? la durata della sua vita, da cui può dipendere che un'azione la quale, fino a un certo tempo, aveva portato utile, porti danno, e viceversa? Quale sarà la guida che possa condurlo al termine d'una tale ricerca?

L'esperienza, dicono.

Guida eccellente, senza dubbio, ma fin dove può arrivare essa medesima. L'autorità dell'esperienza, riguardo ai fatti contingenti avvenire, è fondata sulla supposizione tacita (che la riflessione poi dimostra ragionevolissima) d'un ordine che comprende ugualmente i fatti che sono stati e quelli che sono, e quelli che saranno; e del quale, per conseguenza, i primi, cioè quelli tra i primi, che possiamo conoscere, sono per noi una certa qual manifestazione limitata e parziale, e quindi un indizio de' futuri. Se poi anche il sistema deduca da quest'ordine l'autorità dell' esperienza, e se possa ammetterlo senza rinnegar sè medesimo; o su che altro fondi quell'autorità, e se ci sia altro su di che fondarla, non occorre qui di farne ricerca. Basta al nostro assunto quella verità innegabile, che dall'esperienza non si può ricavare, riguardo al futuro, nulla più che un indizio di maggiore o di minor probabilità. E l'esperienza medesima, facendoci, per dir così, passar davanti agli occhi tanti e tanti fatti prodotti da cagioni imprevedute e imprevedibili, attesterebbe, se ce ne fosse bisogno, che non si può da essa ricavare una regola certa dell'utile o del danno individuale che possa risultare da un'azione; e non occorre aggiungere: dell'utile e del danno generale. Anzi, a prima vista, come ho già accennato, questa seconda scoperta può parere la più difficile. Ma chi appena ci rifletta deve vedere che non si tratta qui di maggiòre o minor difficoltà: sono due scoperte ugualmente impossibili. A far conoscere il futuro l'esperienza è inetta per chi non conosce il tutto, superflua per Chi lo conosce. All'uomo non basta; Dio non n'ha bisogno.

Ma, replicano, quando mai ci siamo noi sognati di chiedere e d'attribuir tanto alla previsione umana? Chi non sa che l'esperienza non può condurre alla cognizione assolutamente certa del futuro? che l'utile e il danno avvenire non possono esser altro che materia di probabilità? E appunto perchè l'uomo non possiede l'onniscienza, deve contentarsi della semplice probabilità.

Se fossero veramente persuasi di ciò, non si vede come potrebbero credere che ci sia una scienza della morale: e lo credono però certamente, poichè dicono d'averne trovato il vero fondamento. Cosa sarebbe infatti una scienza fondata su un principio, e armata d'un criterio, volendo applicare il quale, non si trovasse a ogni immaginabile quesito altra risposta che : forse sì, e forse no? Cosa sarebbe, non dico una scienza, nell'applicazione della quale l'uomo potesse qualche volta rimaner dubbioso (che questa è una condizione di tutte le scienze, o piuttosto dell'uomo); ma una che, al dubbio di chi ricorre ad esso, non potesse mai rispondere se non col dubbio? Per avere delle nozioni certe, non è punto necessaria, l'onniscienza, basta l'intelligenza; anzi non ci sarebbe intelligenza senza di questo. E si noti che, nell'altre scienze, il dubbio, oltre all'essere solamente parziale, anzi per questo esser solamente parziale, è anche relativo al momento in cui viene espresso. . Finora, si dice in que' casi, non s'è potuto, su questo e su quel punto, arrivare ad altro che a dell'opinioui più o meno probabili. Delle nove e più attente osservazioni, una qualche accidentale e felice scoperta, una di quelle occhiate penetranti di qualche grand'ingegno, potranno sostituire all'opinioni una cognizione certa, da aggiungere a quelle che già la scienza possiede. -- La sola scienza della morale avrebbe per sua condizione universale e perpetua la probabilità! val a dire, sarebbe condannata al dubbio su tutti i punti e per sempre! Ma se fosse tale, il chiamarla scienza non sarebbe altro che una contradizione. Il dubbio parziale e accidentale limita la scienza: il dubbio universale e necessario la nega.

Ma, come accennavo, non credono davvero loro medesimi che nella morale non ci sia altro che probabilità; e quando mettono in campo una così strana sentenza, non lo fanno già per esserci stati condotti da una serie di osservazioni e di ragionamenti; ma perchè è l'unica replica che possano fare a chi oppone al loro sistema la mancanza d'un criterio assoluto. Allegando da principio l'esperienza, non avevano pensato a esaminare la natura e i limiti della sua autorità. Tenendola per una buona guida, com'è tenuta universalmente, e com'è infatti dentro que' limiti, supponevano gratuitamente e in confuso, che dovesse bastare al loro intento. Quando poi si sentono opporre che l'esperienza non può somministrare altro che un criterio di probabilità, dicono che la probabilità sola deve bastare. È l'usanza dell' errore, darsi a intendere d'avere scelto il posto dov'è stato cacciato, e chiamare inutile o impossibile ciò che non può dare. Ma non ne sono veramente persuasi, nemmeno dopo averlo detto. E se paresse una temerità il voler così entrare nella mente degli altri, non c'è nulla di più facile che il far dichiarare la cosa a loro medesimi, cun risolutezza, anzi con emozione. Domando infatti a qualsiasi di loro, se, per esempio, uccidere l'ospite addormentato, per impossessarsi del suo danaro, sia o non sia un'azione che cada sotto un giudizio della moralità. E sottintesa la risposta, che non può esser dubbia, ragiono così: O il criterio della morale non può farci arrivare che a un giudizio di mera probabilità; e si dovrà dire che uccidere l'ospite addormentato, per impossessarsi del suo danaro, è un'azione probabilmente, nulla più che probabilmente, contraria alla morale; e che, per conseguenza, c'è anche una probabilità, piccola quanto si vuole, ma una probabilità, che possa essere un'azione morale; o .... Ma non mi lascia finire: non può sentire senza indegnazione enunciar come problematico un tale giudizio. Eppure, per avere il diritto d'enunciarlo assolutamente, il diritto di dire: no, non c'è, nè ci può essere probabilità, nè grande, nè mezzana, nè minima, che una tale azione sia conforme alla morale, non c'è altro mezzo che dire: l'utilità futura, essendo materia: di mera probabilità, non può essere il criterio della morale. O rinunziare al sistema, o rinunziar all'indegnazione.

Ma, dicono ancora, cos'altro facciamo noi, che osservare i fatti, e fatti essenziali della natura umana, e esporli? Siamo forse noi che abbiamo suggerito agli uomini d'appetire l'utilità, e di procurarsela? Siamo noi che abbiamo inventata l'usanza di prenderla per motivo nella scelta dell'azioni, e di crederla un motivo legittimo e ragionevole? È una condizione della natura umana il pensar, prima di tutto, al proprio interesse. (202) Prendetela con la natura umana; prendetela col senso comune, che la nostra teoria non ha fatto altro che interpretare, riducendo i suoi giudizi uniformi e costanti a una sintesi precisa e fedele. Andate a dire a tutti gli uomini, che il criterio di cui si servono perpetuamente per la scelta delle, loro azioni, è immorale e antilogico.

Non ci vuol molto a scoprir qui un falso ragionamento fondato sull'alterazione d'un fatto. Altro è che l'utilità sia un motivo, cioè uno de' motivi per cui gli uomini si determinano nella scelta dell'azioni, altro è che sia, per tutti gli uomini, il motivo per eccellenza, l'unico motivo delle loro determinazioni. Non hanno osservato que' filosofi, o piuttosto sono riusciti a dimenticarsi (giacchè è un'osservazione che non hanno potuta non fare migliaia di volte, e non solo sugli altri, ma sopra loro medesimi) che, per gli uomini che si propongono d'operar moralmente (e la questione, essendo sulla moralità, non contempla se non questi), l'utilità è bensì un motivo, ma un motivo subordinato e secondario; e che, lungi dall'esser presa per criterio in una questione di moralità, la suppone già sciolta, o che non ci sia neppure il bisogno d'esaminarla. È verissimo che, in molte, anzi in moltissime deliberazioni, anche questi uomini non considerano altro che l'utilità: Ma quando e perchè? Quando si tratti di scegliere tra delle azioni, ognuna delle quali sia, riguardo alla moralità, conosciuta, eleggibile, e conosciuta tale per un criterio affatto diverso, e che contempla, non gli effetti possibili e ignoti dell'azioni, ma la loro essenza medesima; cioè per la nozione della giustizia. Un galantuomo che deliberi intorno al comprare una cosa qualunque, nelle circostanze che rendono legittima una tale azione, potrà bilanciar lungamente l'utile dell'acquisto e l'inconveniente della spesa, senza che gli venga neppure in mente che ci sia una moralità al mondo. Ma qual maraviglia che una considerazione non entri dov'è sottintesa? che la mente non cerchi in un'azione la qualità ch'era già associata ad essa? che la prudenza parli sola, quando la giustizia non ha che dire? Ecco dove l'esperienza è una bona guida: dove basta ciò che essa può far trovare, e che non si troverebbe senza il suo aiuto: cioè una maggiore probabilità. Ecco fin dove è tenuta tale dal senso comune, al quale, così a torto, s'appella il sistema. L'errore, inetto a scoprire, non ha che l'abilità d'alterare; e qui ha preso al senso comune il metodo d'applicare il criterio dell'utilità e i dati dell'esperienza a una categoria, e categoria subordinata, di deliberazioni; e, per farne una cosa sua, e dargli una nova forma apparente, non ha fatto altro, che trasportarlo a tutte le deliberazioni; da un posto secondario, dove aveva la sua ragion d'essere, al primo, anzi a un unico posto, dove non n'ha veruna.

Ma oltre i casi, frequentissimi senza dubbio, ne' quali la considerazione della moralità non dà nell'occhio, perchè sottintesa, ce ne sono; eccome! di quelli in cui entra esplicitamente, sia per riprovare un'azione come, ingiusta, sia per esaminare se un'azione sia giusta o ingiusta, lecita o illecita. E in questi casi, l'utilità, non che esser presa (s'intende sempre dagli uomini che si propongono d'operar moralmente) nè per il solo, nè per il preponderante criterio, non è nemmeno presa in considerazione.

So bene che i propugnatori del sistema dell'utilità dicono che questa è una mera illusione; che, in fatto, ciò che si considera anche in que' casi, è l'utilità e il danno; e che le parole «giusto» e «ingiusto» quantunque presentino in apparenza e confusamente un altro significato, tornano in ultimo a quel medesimo: cioè che « giusto » non significa in fondo, se non ciò che porta più utile che danno; e « ingiusto, » ciò che, quando pure paresse avere, o avesse anche con sè una qualche utilità immediata, porta alla fine un danno superiore ad essa.

Ma questo è evidentemente sostituire all'esame del fatto un'induzione, e un'induzione, non dirò solamente forzata, ma opposta all'evidenza: il fatto da esaminare, è se veramente gli uomini, per « giusto » intendano più utile, e, per « ingiusto » il contrario. Ma che dico, esaminare? e a chi verrebbe in mente che ce ne potesse esser bisogno, se a que' filosofi non fosse venuto in mente d'affermare una cosa simile? Come! Uno che non si curi o si curi poco della moralità, propone come utile un'azione a un altro, il quale non accetta il consiglio, dicendo che non la trova giusta; il primo, affine di persuaderlo, adduce novi argomenti d'utilità; l'altro ripete che non si tratta di questo, che lui non va a cercare se l'azione porterà utile o danno, che, per astenersene, gli basta che non sia giusta; e questo uomo vuol dire: l'azione che mi proponete non è abbastanza utile? In verità, la cosa è tanto forte, che uno a cui riuscisse nova, avrebbe qualche ragione di domandare se c'è proprio stato qualcheduno che l'abbia detta espressamente, o se non siamo piuttosto noi che la facciamo dire al sistema per via d'induzione. Eccola dunque detta espressamente dal Bentham, a proposito del giudizio dato da Aristide sul bel progetto di Temistocle, di dar foco alle navi de' Greci alleati d'Atene, che si trovavano riunite a Pagasa . e ciò affine di procurare agli Ateniesi il dominio sulla Grecia intera. Quelli, dice, che dalla lettura degli Ufizi di Cicerone e de' libri de' moralisti platonici hanno ricavata una nozione confusa dell'Utile, come opposto all'Onesto, citano spesso il detto d'Aristide sul progetto che Temistocle volle rivelare a lui solo. Il progetto di Temistocle è utilissimo, disse. Aristide all'adunanza del popolo ateniese, ma è ingiustissimo. Credono di veder qui un'opposizione manifesta tra l'utile e il giusto. Errore: non c'è altro che un bilancio di beni e di mali. Ingiusto è una parola che presenta il complesso di tutti i mali che derivano da uno stato di cose, nel quale gli uomini non possano più fidarsi gli uni degli altri. Aristide avrebbe potuto dire: « Il progetto di Temistocle sarebbe utile per un momento, e dannoso per de' secoli: quello che ci farebbe acquistare non è nulla in paragone di quello che ci farebbe perdere. » (203)

A questo segno potè una preoccupazione sistematica far travedere un uomo d'Ingegno, e osservator diligente, quando voleva. Non s'avvide nemmeno che, essendo nella proposizione sulla quale argomentava il progetto di Temistocle chiamato, non utile semplicemente, ma utilissimo, la sua interpretazione farebbe dire a Aristide: Il progetto di Temistocle è utilissimo, ma dannosissimo. E gli Ateniesi, per utilissimo, avrebbero dovuto intendere: utile per un momento, e dannoso per de' secoli! Che se, come accenna il Bentham, si vuol credere apocrifo il fatto, e considerarlo semplicemente come un esempio ipotetico, si può affermare senza esitazione, che a qualunque moltitudine avente una lingua, nella quale ci siano i vocaboli utile e giusto, fosse proposta la cosa in que' termini, s'intenderebbe che gli si vuol parlare di due qualità diverse. Per darsi a intendere che utilità e giustizia siano un concetto medesimo, con la sola differenza del più e del meno, ci vuole un lungo e ostinato studio di far parere a sè stesso ciò che non è, e di dimenticare ciò che è: studio, del quale una moltitiudine non è capace. E se si domanda, con qual ragione una moltitudine qualunque o, in altri termini, il senso comune ammetta e tenga ferma questa distinzione tra i due concetti d'utilità e di giustizia, la risposta è inclusa nella domanda: sono due concetti, come sono due vocaboli. Uno è il concetto d'una legge de' voleri e dell'azioni, fondata nella natura degli esseri; l'altro è il concetto d'un'attitudine delle diverse cose a produrre degli stati piacevoli dell'animo. E siccome questi concetti s'applicano moltissime volte da tutti gli uomini, e le più di queste separatamente e ognuno da sè; siccome dico, si può pensare, e si pensa effettivamente, alla giustizia d'un'azione, senza pensare nè punto nè poco alla sua utilità, e viceversa; così non c'è nulla per il comune degli uomini (come non c'è nulla di ragionevole per nessuno), che porti a dubitare della duplicità di que' concetti, a perder di vista una distinzione tanto manifesta e tanto costante, tra due oggetti del pensiero.

Ma se dicessimo che anche il Bentham l'intendeva in fondo come il popolo d'Atene e come ognuno; che concepiva anche lui la giustizia come un'essenza distinta dall'utilità, e avente de' suoi attributi propri, che non appartengono a questa, sarebbe ora una temerità davvero? Meno che mai, perchè qui non c'è bisogno di presumere: ha detta la cosa lui medesimo in un momento di distrazione. Distrazione un po' forte, perchè venuta subito dopo aver affermato il contrario; ma non c'è da meravigliarsi che uno sia distratto facilmente da ciò che non ha davvero nell'animo. In una nota al luogo citato dianzi, dopo aver detto che uno storico inglese ha dimostrato falso l'aneddoto, aggiunge: Plutarco che voleva far onore agli Ateniesi, sarebbe stato impicciato bene a conciliare con questo nobile sentimento di giustizia la maggior parte della loro storia.

Nobile sentimento di giustizia? Cosa salta fuori ora? Sentimento d'utilità, doveva dire, se non si trattava d'altro che d'un bilancio di beni e di mali. Ma allora cosa ci ha che fare la nobiltà del sentimento? Rifiutare un progetto che farebbe perdere incomparabilmente più di ciò che farebbe acquistare, è senza dubbio una determinazione giudiziosa; ma qual ragione di chiamarla nobile? Non voler comprare in grande una merce, quando si prevede che sia per rinviliare, l'avrebbe il Bentham chiamato un nobile sentimento? E se la giustizia, per chi non si lascia portar via dalle parole, ma ne indaga l'intimo significato, non vuol dir altro che utilità, perchè applicare a una denominazione la qualità che non s'applicherebbe all'altra? Singolare parola questa « giustizia, » che, non volendo dir nulla per sè, e non essendo altro che un mezzo indiretto e improprio di significare una cosa, può ricevere un titolo bellissimo, che al nome vero della cosa non starebbe bene! un titolo che, in morale, non avrebbe significato veruno, non si sarebbe mai potuto pensare a applicarlo a nessun sentimento, a nessuna azione umana, se la giustizia non fosse altro che utilità! Come si spiega un simile imbroglio? L'abbiamo detto. Il Bentham credeva in fondo che la giustizia ha un oggetto distinto dall'utilità, e che appunto per questo l'amore della giustizia è un sentimento nobile; e gli scappò fuori ciò che aveva in fondo. Habemus confitentem ... virum bonum. È l'onesta natura e il senso retto dell'uomo, che scacciati dalla trista forca del sistema, tornano indietro di corsa. (204)

Che se paresse a qualcheduno, che questo sia quasi un cogliere un uomo in parole sfuggite senza considerazione, e non richieste nemmeno dall'argomento, risponderemmo che la contradizione che abbiamo notata, è bensì, riguardo al Bentham, un fatto accidentale; giacchè non c'era nulla che lo costringesse a dare in una nota il contrario di ciò che voleva stabilire nel testo; ma è un fatto prodotto da una causa permanente e fecondissima, cioè dall'opposizione dell'assunto con ciò che attesta l'intimo senso: un fatto, per conseguenza, che si riprodurrà necessariamente ogni volta che quell'assunto sia messo a fronte dell'intimo senso. E nulla di più facile, diremo anche qui, che il farne la prova.

Supponiamo dunque che un uomo si proponga, nelle circostanze più favorevoli che si possano immaginare, d'impiegare un grosso capitale nel dissodare un suo terreno, nel farci di gran piantagioni, e nel fabbricarci delle case, per stabilirci delle famiglie miserabili e chiedenti lavoro, con gli attrezzi e il bestiame necessario alla coltura; e che questo brav'uomo si rivolga a un seguace del sistema dell'utilità, e gli dica: Credete voi che questo mio disegno sia conforme alla morale ? . Non è egli vero che il filosofo si mette a ridere d'un dubbio di questa sorte? Supponiamo ora che l'altro soggiunga: . Vorrei anche sapere se, mettendo a esecuzione questo disegno, procurerò un vantaggio a me e agli altri. . Gli sarà risposto che, con quelle circostanze tanto favorevoli, e quando la cosa sia fatta a dovere, c'è tutto il fondamento di sperare un tal resultato. Ma se (è un apologo che facciamo) insiste e dice: -- Vorrei che mi deste una sicurezza uguale a quella che mi avete data dianzi con quel ridere più significativo di qualunque parlare; perchè mi preme, è vero, soprattutto di non fare una cosa che non sia conforme alla morale; ma mi preme anche molto di fare una cosa utile. Ridete, di grazia, anche di questo mio dubbio; e assicuratemi in questa maniera, che è assurdo il supporre la possibilità d'un resultato contrario; -- cosa risponde il filosofo? Ha riconosciuta la distinzione tra l'utilità e la moralità; in due volte, è vero, ma l'ha riconosciuta: si sente ora di ritrattarsi? Rispondo arditamente di no. Come una repugnanza morale non gli permise poco fa d'ammettere che la morale non sia capace se non d'un criterio di probabilità, così una repugnanza logica non gli permette ora d'attribuire all'utilità un criterio di certezza. E questo è un riconoscer di novo, che la questione della moralità, e quella dell' utilità sono due, non una sola espressa in diversi termini.

Allunghiamo un pochino l'apologo, e supponiamo che, compita l'impresa, e al momento di raccogliere i primi frutti, venga un terremoto e subissi ogni cosa, salvandosi il padrone a stento, di mezzo alle rovine. Ognuno chiamerà disgraziata un'impresa che, invece dell'utile sperato, ha prodotto uno scapito effettivo: ci sarà alcuno che la chiami immorale? Eppure è il giudizio che ne dovrebbe portare chiunque fosse persuaso davvero che l'utilità è il criterio della morale, che il merito e il demerito de' nostri sentimenti e delle nostre azioni non dipendono dalle loro cause, ma da' loro effetti, per servirmi delle parole d'un celebre sostenitore di quella dottrina, smentita nobilmente dalla sua vita. (205)

Dico forse troppo? Vediamo; perchè non c'è dubbio che potrebbe benissimo esimersi dal proferire una così strana sentenza, dicendo in vece: . Non precipitiamo il nostro giudizio. Il sistema prescrive di dedurlo dagli effetti; e possiamo noi dire di conoscere gli effetti di quell'impresa? Ne conosciamo alcuni, i più immediati; ma alcuni effetti è forse lo stesso che gli effetti? Sappiamo noi quante sorte di consolazioni e di compensi potrà trovare quell'uomo? Non potrebbe dalla disgrazia medesima essere stimolato a tentar dell' altre imprese, e da successi più fortunati, dall'attività medesima impiegata a rifare il suo capitale, ricavar più soddisfazione, che non n'avrebbe avuta dal goderlo e dall'accrescerlo? Il piacere che può dar la ricchezza è forse necessariamente proporzionato alla quantità di essa? E in quanto a quelli che sono morti nella catastrofe, già è ciò che o presto o tardi, gli doveva accadere; e chi può decidere se sia stato peggio o meglio per loro il morir quella volta piuttosto che un'altra, forse dopo malattie dolorosissime, forse in una qualche maniera più atroce? Riguardo poi a un interesse più generale, chi sa se l'esempio dato da quell'uomo, l'aver visto, anche per poco, tante campagne floride dove prima non c'era che una sodaglia, non possa eccitare un'emulazione, la quale porti un aumento di produzione e di prosperità, da compensare, da sorpassar di molto il capitale ingoiato dal terremoto? . Non c'è dubbio, ripeto, che, con questi e con altri argomenti dello stesso genere, potrebbe, sospendere il suo giudizio; ma a condizione di tenerlo sospeso per sempre. Potrebbe schivar lo sproposito; ma a condizione di riconoscere che il criterio proposto dal sistema è inapplicabile. Conclusione alla quale s'arriva senza fatica, e quasi senza avvedersene, da qualunque parte si prenda a esaminarlo.

Dicendo però che Aristide, in quella sua famosa sentenza, intese manifestamente d'opporre il giusto all'utile, come cose che possano essere qualche volta inconciliabili, abbiamo forse voluto anche dire che avesse ragione d'intenderla così? Tutt'altro. Crediamo anzi col Bentham, ma per una ragione affatto diversa dalla sua, e della quale faremo un cenno tra poco, che una tale opinione non possa venire, se non da nozioni confuse e dell'utile e del giusto. Dove Aristide, se il fatto è vero, l'intendeva bene, o dove, per andar più al sicuro, l'intese bene quella volta, (206) fu nel rivendicare la ragione di criterio anteriore e supremo alla giustizia, lasciata fuori perversamente da Temistocle. Ma, questa cosa bona, la fece male. Uno che avesse avute nozioni abbastanza chiare e del giusto e dell'utile, e, per conseguenza, della loro relazione necessaria, non avrebbe mai fatta quella strana concessione, che un progetto di quella sorte si potesse chiamare utilissimo. O avrebbe detto: La cosa che Temistocle vi dà per utilissima sarebbe ingiustissima; o fidandosi nella forza di questa seconda parola, nella repugnanza che gli uomini provano, per vergogna, anche quando non è per coscienza, a accettar la cosa quand'è chiamata col suo nome, si sarebbe contentato di cambiar la questione (come si deve fare con le questioni piantate in falso), e di dire semplicemente: Ciò che Temistocle propone sarebbe una grand'ingiustizia, o meglio, un'abbominevole scelleratezza.

Ma altro è il dire che, tra la giustizia e l'utilità, non ci possa essere una vera e definitiva opposizione; altro è il dire che siano una cosa sola, cioè che la giustizia non sia altro che utilità. La prima di queste proposizioni esprime una di quelle verità che, più o meno distintamente e fermamente riconosciute, fanno parte del senso comune; la seconda, è diremo anche qui, un'alterazione, una trasformazione di questa verità che il sistema ha presa dal senso comune: perchè, col mezzo proposto da esso, non si sarebbe trovata in eterno.

Infatti, se si domanda al sistema, come mai s'arrivi a conoscere che l'utilità è sempre d'accordo con la giustizia, o, per dirla con altri suoi termini, che l'azione utile al pubblico torna sempre utile al suo autore, e viceversa; se si domanda, dico, come s'arrivi a conoscere una tal cosa, con tanta certezza, da farne il fondamento e la regola della morale; il sistema risponde, come s'è visto, che ce l'insegna l'esperienza. Ma s'è anche visto che, dall'esperienza, per quanto sia vasta e oculata, non si può cavar nessuna conseguenza certa riguardo all'avvenire, e quindi nessuna regola certa per la scelta dell'azioni. E dopo di ciò, non è certamente necessario l'esaminare quale e quanta sia l'esperienza, sulla quale il sistema pretende fondare quello che chiama il suo principio. Ma, per vedere con qual leggerezza proceda in tutto, e per sua natural condizione, non sarà inutile l'osservare di quanto poco si contenti, anche dove sarebbe affatto insufficiente il molto, anzi tutto l'immaginabile di quel genere. Cos'è, dunque, l'esperienza posseduta, sia direttamente, sia per trasmissione, da quelli che credono di poterne ricavare una tal conclusione? e suppongo che siano gli uomini che ne possiedano il più. È la cognizione d'un piccolissimo numero d'azioni umane, relativamente a quelle che hanno avuto luogo nel mondo, e d'un numero de' loro effetti incomparabilmente minore; giacchè chi non sa quanto numerosi, mediati, sparsi, lontani, eterogenei, possano esser gli effetti d'un'azione umana? effetti, de' quali una parte, Dio sa quanta e quale, non è ancora realizzata; giacchè come s'è accennato dianzi, chi potrebbe dire che sia compita e chiusa la serie degli effetti d'un'azione antica quanto si voglia? E con un tal mezzo sarebbero arrivati a scoprire una legge relativa a tutte l'azioni passate, presenti e possibili? Che! non avrebbero nemmeno potuto pensare a cercarla; perchè il concludere dal particolare al generale, che è il paralogismo fondamentale del sistema, non sarebbe nemmeno un errore possibile, se l'uomo non avesse, per tutt'altro mezzo, l'idea del generale, che di là, non potrebbe avere. Quella che pretendono d'aver ricavata dall'esperienza, è una verità che hanno trovata stabilita, e ab immemorabili, nel senso comune.

Il senso comune tiene infatti, che l'utilità non possa, in ultimo, trovarsi in opposizione con la giustizia. E lo tiene, non già per mezzo d'osservazioni che non potrebbero mai arrivare all'ultimo; ma per una deduzione immediata, ovvia e, direi quasi, inevitabile, dal concetto di giustizia. In questo concetto è compreso quello di retribuzione, cioè di ricompensa e di gastigo; e il concetto di giustizia si risolverebbe in una contradizione mostruosa, o, per dir meglio, non sarebbe pensabile, se la retribuzione dovesse compirsi alla rovescia, e dall'opera conforme alla giustizia venir definitivamente danno, che è quanto dire gastigo, al suo autore; e viceversa. Ma come poi, e con qual ragione, dal semplice concetto di questa retribuzione, il senso comune corre, con tanta fiducia, a concludere e a credere che deva realizzarsi del fatto? Ciò avviene perché il concetto di giustizia si manifesta alla cognizione come necessario; e quindi non può entrare nel senso comune che cessi d'esser tale, riguardo alla realtà, alla quale si riferisce, e si riferisce con uguale necessità; giacchè si può ben pensare la giustizia, senza farne alcuna speciale applicazione, ma non si potrebbe pensarla come priva di ogni applicabilità. E non già che il comune degli uomini riconosca riflessamente, e pronunzi espressamente, che ciò che è necessario in un modo non può mai diventar contingente in nessun altro; ma, appreso una volta un concetto come necessario, continua naturalmente e senza studio, senza aver nemmeno bisogno del vocabolo, a riguardarlo come tale nell'applicazioni che gli avvenga di farne. Si domandi a un uomo privo di lettere, ma non di buon senso, per qual ragione non si potrebbe supporre una combinazione di cose, per la quale, in un dato caso; dall'operar rettamente potesse resultare un danno stabile e definitivo, e dall'operare iniquamente uno stabile e definitivo vantaggio. Risponderà probabilmente: non può essere, perchè allora non ci sarebbe la giustizia. E sarà una risposta tanto concludente, quanto sarà stata irragionevole la domanda, domanda che sottintende non saprei dir quale di due cose ugualmente assurde: o che il concetto di giustizia non importi necessità; o che nella realtà possa avverarsi il contrario di ciò che è necessario per essenza.

Questo non vuol dire certamente, che tutti gli uomini abbiano sempre presente una tal verità; che essa sia sempre stata e sia sempre la regola de' loro giudizi; che sia stato un fenomeno straordinario il sentir un uomo chiamare ingiustissima e utilissima una cosa medesima. È, come tutte le verità morali, una verità esposta nella pratica alle passioni e all'incoerenza parziali e accidentali degli uomini. E non c'è quindi da maravigliarsi che i successi temporariamente prosperi di tante azioni ingiuste, e gli avversi di tante giuste, e anche eroiche, ci portino qualche volta a dubitare di questa verità, e fino a negarla iracondamente, dimenticando che, nell'idea di retribuzione, non c'è punto compreso che deva realizzarsi nel momento che può parere a noi. Ma è una di quelle verità che, esprimendo una relazione immediata e necessaria tra due oggetti de' più facilmente presenti a qualunque intelligenza, non lasciano a verun filosofo il carico nè il tempo di ritrovarle, e non potrebbero esser perdute di vista dall'umanità, se non quando fossero da essa dimenticati gli oggetti medesimi. Finchè i concetti di giustizia e d'utilità vivranno nelle menti degli uomini, il concetto della loro finale e necessaria concordia rimarrà, in mezzo a delle dimenticanze parziali, e a delle negazioni incostanti, perpetuo e prevalente nel senso comune.

E è di qui, che il sistema cava tutta la sua forza apparente; come, del resto, ogni errore dalla verità che altera. Appoggiati a questo sentimento universale, i partigiani del sistema dicono a' suoi oppositori: Alle corte; o questa parola « giustizia, » che vi preme tanto, e levata la quale, vi pare che scomparisca ogni idea di moralità, significa qualcosa di definitivamente e necessariamente utile; e allora perchè l'opponete all'utilità, proposta da noi per il vero criterio della morale? O credete che significhi qualcosa che possa in ultimo riuscire dannosa, e è per questo, che volete separarla dall'utilità; allora siete voi che levate di mezzo davvero la moralità, mettendola in contradizione con la natura umana; perché, se c'è una certezza al mondo, è questa, che l'uomo non può volere il suo proprio danno. Ma la risposta è facile. Che la giustizia sia utile o, in altri termini, che la giustizia dell'azioni sia causa d'utilità ai loro autori, eccome lo crediamo! Ma appunto per questo, appunto perchè non possiamo credere che la cosa e la sua qualità, che la causa e l'effetto, siano quel medesimo, non possiamo credere che la giustizia e l'utilità siano quel medesimo. E opponiamo la giustizia all'utilità, non come due cose inconciliabili: neppur per idea l'opponiamo come la norma vera e razionale in questo caso, a una fuor di proposito. Non già che questa sia falsa in sè; che anzi è la vera e razionale norma della prudenza, la quale si contenta, e deve contentarsi d'una mera probabilità. Ma è una norma falsissima quando s'applichi alla moralità, la quale rimane una parola vota di senso, se non ha un criterio di certezza. Voi, supponendo affatto arbitrariamente, e solo perchè il vostro sistema n'ha bisogno, che, per giustizia non si possa intendere che, o l'utilità, o qualcosa di contrario ad essa, c'intimate di scegliere tra codesta supposta identità, e codesta supposta opposizione. Ma noi passiamo in mezzo al vostro dilemma, col dire: nè l'uno, nè l'altro; anzi il contrario o dell'uno e dell'altro, cioè distinzione e concordia. Distinzione, perchè sono due nozioni; concordia, perchè sono nozioni aventi tra di loro una relazione necessaria.

Ma a che parlare della cognizione d'una tal verità, quale gli uomini potevano averla dalla sola ragione? La concordia finale dell'utile col giusto, alla quale credevano in astratto, senza poterne vedere il modo, e come costretti solamente dalla forza di quell'essenze medesima; questa concordia è stata, spiegata dalla rivelazione, la quale ha insegnato il come, per mezzo della vera giustizia, si possa arrivare alla perfetta felicità. E l'ha insegnato, non a qualche scola di filosofi, ma ai popoli interi; ha messa, in una uova maniera, questa verità nel senso comune; cioè in quella maniera unicamente sua, di render comunissime le cognizioni, rendendole elevatissime. Sicchè il sistema, formato (o riformato, che qui è tutt'uno) nella mirabile luce (207) del cristianesimo, ha trovata quella verità, non più sparsa e vagante, e come involuta, nel senso comune, ma espressa e ferma nell'insegnamento e, dirò così, nel senso comune cristiano. E, per appropriarsela, l'ha mutilata, staccandola dalla sua condizione essenziale. Ha levata dal conto la cifra della vita futura; e il conto non torna più, o, per dir meglio, non c'è più il verso di raccoglierlo. Perciò, nelle false religioni medesime, la tradizione d'una vita futura, nella quale abbia luogo una finale e infallibile retribuzione, s'è conservata forse più di qualunque altra, quantunque diversamente alterata. Era abbracciata e, per dir così, tenuta stretta, in qualunque forma, come un aiuto potente al bisogno razionale di credere alla concordia dell'utilità con la giustizia: aiuto potente, e quasi necessario contro la forza di tanti fatti, che, nel corso ristretto delle vicende mondiali, può parere che la smentiscano apertamente. E un esempio notabile ce ne presenta un filosofo dell'antichità, il quale certamente avrebbe potuto, al pari di chiunque altro, o più di qualunque altro, far di meno d'un tale aiuto, se ce ne fosse stato il mezzo: voglio dire il Socrate di Platone, nel Gorgia. Dopo avere, con quella sua soda e profonda argutezza, con quel mirabile giro d'argomenti verso delle conclusioni tanto irrepugnabìli quanto imprevedute, sostenuto successivamente contro tre avversari, che dall'ingiustizia non si può mai, in questo mondo, ricavare una vera utilità; e dopo averli ridotti, l'uno dopo d'altro, a non saper più cosa si dire, rimane sopra di sè, come non soddisfatto lui medesimo della sua vittoria, e aggiunge che il discendere nelle tenebre con l'anima carica di iniquità, è l'estremo de' mali. E domandato all'ultimo interlocutore, se ne vuol saper la ragione, e rispostogli di sì, prosegue: Senti dunque, come si suol dire, una bellissima storia, la quale ho paura che a te parrà una favola; ma io la ho per una storia vera; e come tale te la racconto. E passa a raccontare quella per noi poverissima favola in effetto, ma che a uno privo del lume della rivelazione poteva (direi quasi, con ragione, se ci fosse vera ragione fuori della verità) parer meglio che nulla; cioè quella di Minosse, Radamanto e Eaco. E lui medesimo esprime questo sentimento, soggiungendo: Già, a te non pare altro che una novella da donnicciole, e non ne fai caso veruno: e non me ne maraviglierei se, a forza di cercare, si potesse trovar qualcosa di meglio e di più vero.

Ho detto dianzi, che, levata dal conto la vita futuro, non c'è il verso di raccoglierlo. E infatti, implica contradizione il voler far resultare la felicità, cioè uno stato identico e permanente dell'animo, dal bilancio di momenti diversi e successivi dell'animo. Fingiamo anche, per fare una strana ipotesi, che un uomo potesse riconoscere e ragguagliare i momenti piacevoli e i momenti dolorosi d'una vita intera, e trovasse i primi superiori ai secondi, e di numero e d'intensità. Avrebbe da questo ragguaglio una quantità riunita, un residuo netto, di momenti piacevoli: ma questa riunione veduta dalla mente, alla quale i diversi e separati momenti possono esser presenti insieme come oggetti ideali, e quindi immuni dalle leggi del tempo; dalla mente, che in essi contempla l'unità dell'essenza, in quanto sono piacevoli, e li riferisce all'unità del soggetto in cui sono avvenuti in un modo moltiplice; questa riunione, dico, non sarebbe punto esistita nella realtà di quella vita, composta in effetto di momenti successivi, e in parte eterogenei. Dove dunque potrebb'essere collocata la felicità d'una vita temporale, per quanto si volesse restringere, impiccolire, alterare in somma, il senso della parola « felicità? » Non nell'aggregato de' momenti piacevoli, che, in quanto aggregato, non è una realtà, ma relazioni vedute dalla mente; non in alcuno de' momenti reali, ognuno de' quali non sarebbe che una parte della felicità da trovarsi. La felicità non può esser realizzata fuorchè in un presente il quale comprenda l'avvenire, in un momento senza fine, val a dire l'eternità. Senonchè la religione può darci una specie di felicità anche in questa vita mortale, per mezzo d'una speranza piena d'immortalità. (208) Speranza che unifica, in certa maniera, in una contentezza medesima; (209) i più diversi e opposti momenti, facendo vedere in tutti ugualmente un passo verso il Bene infinito; speranza che non può illudere, perchè congiunta con la carità infinita diffusa ne' cori; (210) la quale, quel Bene medesimo che promette nell'avvenire, lo fa sentir nel presente, in una misura limitata bensì; e come per saggio, ma con un effetto che nessun sentimento avente un termine finito può contraffare. (211) Così la giustizia misericordiosa di Dio predomina anche neL tempo, dove non si compisce perchè, se è decreto di sapienza e di bontà, che la giustizia dell'uomo, non pura nè perfetta in questa vita, soffra per mondarsi, e combatta per crescere, repugna che sia veramente infelice: repugna che l'aderirà della volontà al Bene infinito comunicantesi all'anima, non partorisca un gaudio prevalente al dolore cagionato dalla privazione di qualunque altro bene. (212) Cosa mirabile! dice il Montesquieu, la religione cristiana, la quale pare che non abbia altro oggetto, se non la felicità dell'altra vita, ci rende felici anche in questa. (213) Riflessione ingegnosa, senza dubbio; ma una riflessione più prolungata fa dire: Cosa naturale.

Ci si opporrà qui probabilmente, che il sistema non ha mai messa in campo la pretensione di procurare agli uomini una felicità perfetta e immune dai mali prodotti dalle necessità fisiche; che il suo assunto, molto più modesto, non è altro che di dirigere le loro determinazioni al fine di conseguire la massima utilità, in quanto possa dipender da loro; che, del rimanente considerato in sè, cioè lasciando da una parte l'opinioni particolari che l'uno o l'altro de' suoi partigiani gli possa attaccare, non nega punto la possibilità d'una vita futura, nella quale l'opere fatte in questa ricevono un'altra retribuzione; e tanto non lo nega, che non entra neppure in questa materia; che, per conseguenza, chi crede di dover ammettere, sia come opinione umana, sia come domma religioso, questa vita futura, il sistema glielo permette ampiamente.

Strana parola in un sistema filosofico, permettere! Dico, permettere ciò che è inconciliabile con esso. Ma è uno degli esempi tanto comuni di quell'incertezza, di quella diffidenza di sè, di quello scetticismo in somma, che, in tutte le dottrine morali che non tengon conto della rivelazione, si nasconde sotto il linguaggio più affermativo, e l'apparato piu solenne della dimostrazione. La ragione, che non conosce tali condiscendenze, non permette che s'ammetta una vita futura, se no a patto di rifiutare il sistema: Infatti, ammettere una vita futura, nella quale l'azioni della vita presente siano e premiate e punite, è ammettere una legge morale, secondo la quale, e in virtù della quale, abbia luogo una tale retribuzione; e ammessa una tal legge, tutto il sistema va a terra nel momento. Non è più un calcolo congetturale d'utili e di danni possibili nella vita presente, che s'abbia a prendere per criterio della morale: è quella legge. Ammettere la vita futura è riconoscere che l'utilità e il danno definitivo, da cui il sistema vuole che si ricavi la norma dell'operare, sono fuori della vita presente; e quindi, che c'è contradizione nel ragionare come se si trovassero in essa. È riconoscere che l'effetto più importante dell'azioni umane, riguardo ai loro autori, non ha luogo nel mondo presente; e quindi che è contradittorio un sistema, il quale, pretendendo fondarsi sul solo calcolo degli effetti, prescinde appunto dal più importante, anzi da quello che è importante in una maniera unica, poichè viene dopo tutti gli altri, e per non cessar mai. È dunque un'illusione il credere che un tal sistema possa conciliarsi con una tale credenza; e, volendo stare attaccato a quello, bisogna anche affermare che la vita futura non è altro che una falsa opinione. So bene, anche qui, che una tal conseguenza sarà rigettata con indegnazione dalla più parte de' seguaci del sistema, Ma non si può altro che dire anche qui: o rinunziare al sistema, o rinunziare all'indegnazione.

L'idea però della moralità, quale l'ha rivelata il Vangelo, è tale che nessun sistema di morale venuto dopo (meno forse quelli che negano apertamente la moralità stessa) non ha potuto lasciar di prenderne qualcosa: Osserviamo brevemente un tal effetto in questa sistema medesimo che si separa dalla morale del Vangelo in due punti così essenziali, come sono il principio e la sanzione.

I diversi sistemi morali de' filosofi del gentilesimo non proponevano, almeno direttamente, a chi li volesse adottare e seguire, altra felicità che la sua propria. La virtù degli stoici era in fondo egoista come la quiete degli epicurei, e la voluttà de' cirenaici. Il sistema di cui trattiamo, formato o riformato, come s'è detto, nella luce del cristianesimo, al suono di quelle divine parole: Amerai il tuo prossimo come te stesso, (214) e: Fate agli altri ciò che volete che facciano a voi, (215) fu avvertito e come forzato a estendere a tutti gli uomini il vantaggio che quelli restringevano ai discepoli, e a proporre all'individuo il bene altrui come condizione del proprio. Questo miglioramento parziale, se si può chiamar così, lungi dal dar consistenza al sistema, non può altro che farne risaltar più vivamente la contradizione intrinseca e incurabile.

Infatti, perchè mai i suoi autori, dopo aver posto che futilità era il principio, la cagione sufficiente e unica della moralità (e senza di ciò, il sistema non sarebbe più, nemmeno in apparenza), non dissero poi, che ogni utilità, senza cercar di chi sia, è morale di sua natura, come doveva venir di conseguenza? È egli mai venuto in mente a nessuno di quelli che vedono la moralità nella giustizia, di dire che la giustizia, è o morale, o no, secondo a chi vien fatta? Perchè mai, dico, quegli autori distinsero, non due gradi, ma due generi d'utilità, una che non è punto morale da sè, cioè l'utilità dell'operante, e una che è necessaria per render morale la prima, cioè l'utilità generale? Dove trovavano nel loro principio la ragione, il pretesto, il permesso d'una tal distinzione? Non ci potevano trovar che il contrario; e questa distinzione la fecero perchè credevano anch'essi una cosa che, fuori del cristianesimo, potè esser messa in dubbio e anche negata, e da ingegni tutt'altro che volgari, ma che, dove regna il cristianesimo, non è, direi quasi, possibile di non credere; cioè che dall'uomo qualcosa è dovuta agli altri uomini. E sta bene; ma era un confessare tacitamente, e senza avvedersene, che l'utilità, per esser morale, deve prender la moralità d'altronde, e da qualcosa d'anteriore e di superiore ad essa; e che, per conseguenza, non può essa medesima essere il principio, la causa, il criterio della moralità.

Non vogliamo qui certamente rifarci a domandare come mai un uomo possa conoscere (cioè provvedere) futilità generale, e la relazione di essa con l'utilità privata. Pare anzi, che i seguaci stessi del sistema abbiano trovata quell'espressione d'utilità generale, o troppo indeterminata, o troppo forte. Perchè, se, per quelle parole, non s'aveva a intendere l'utilità di tutti gli uomini presenti e futuri, non si sapeva di quali uomini s'avesse a intendere; se di tutti, s'aveva a intender l'impossibile. Non saprei almeno vedere altra ragione dell'aver sostituito, come fecero dopo qualche tempo, all'utilità generale, quella del maggior numero d'uomini possibile. A ogni modo, con questa trasformazione il sistema ha perduta in gran parte la sua apparenza di moralità; è l'impossibilità dell'applicazione (s'intende sempre logica) gli è rimasta, nè più nè meno.

E in quanto al primo che il riguardo all'utilità altrui, a un'utilità diversa da quella dell'operante, sia ciò cha dà al sistema un'apparenza di moralità, oltre che è una cosa evidente per sè, si può dedurre dalla confessione medesima dei suoi seguaci. Infatti, a chi gli nega una tal qualità, perchè non è fondato che sull'interesse, rispondono gli ultimi, come rispondevano i primi: Avreste ragione se il sistema non contemplasse che l'interesse di chi delibera sull'azione da farsi o no; ma attribuirgli questo solo intento, è un calunniarlo, mentre pone per condizione essenziale anche l'interesse degli altri. . Ora, chi sono quest'altri? Qual'è la qualità che ha potuto determinare gli autori e i seguaci del sistema a farceli entrare? È evidente che, in quella tesi, è fatta astrazione da ogni qualità distintiva tra uomo e uomo, e non c'è contemplato altro che la qualità, o piuttosto l'essere d'uomo. E la formula « utilità generale, » che nella sua indeterminatezza non comprende espressamente tutti gli uomini, ma non n'esclude espressamente nessuno, poteva far credere in confuso che quella condizione del riguardo dovuto a ogn'uomo come uomo, fosse mantenuta nel sistema. In vece, il dire che ciò che costituisce la moralità d'un'azione, è il riguardo all'utilità del maggior numero d'uomini possibile, è dire che questo riguardo è dovuto ad essi, non in quanto son uomini, ma in quanto sono i più. È dire, per conseguenza, che ci sono degli uomini ai quali si può non aver riguardo di sorte veruna, e operar nondimeno moralmente, purchè siano il minor numero.

So bene che non fu questa l'intenzione di quelli che modificarono la formula del sistema. Fu solamente di levarne una condizione manifestamente ineseguibile, quando ci si voglia trovare un senso chiaro. Videro, o piuttosto badarono (giacchè è una di quelle cose, che non si può non vederle: si può bensì dimenticarle, principalmente nel fabbricare un sistema), badarono, dico, che l'utilità temporali, le sole che il sistema contempli, sono di tal natura, che in moltissimi casi, non possono gli uni goderne, senza che gli altri ne rimangano privi; e che, per conseguenza, l'aver riguardo all'utilità di tutti gli uomini sarebbe una cosa impossibile. Credettero quindi di levar quella contradizione (che non era, del resto, la sola, nè la principale), col sostituire all'utilità generale quella de' più. E chi si trova tra i meno? Suo danno. Potrà strillare, se gli porta sollievo; ma, qualunque sia il danno che riceve, non potrà allegare alcun titolo per il quale, col farglielo soffrire, sia offesa la moralità. Anzi, se l'errore potesse esser consentaneo a sè stesso fino all'ultimo, è a quel paziente che, secondo il sistema, si potrebbe dire: Siete voi che offendete la moralità col bestemmiare un'azione, nella quale, con l'utilità del maggior numero unita a quella dell'operante, è realizzata la moralità medesima. Tali sono le conseguenze necessarie e immediate di quella formula; e le migliori intenzioni del mondo non faranno mai che si possa stabilire per unica condizione della moralità l'utile del maggior numero, senza escludere ogni e qualunque altro titolo. Che se ne viene ammesso uno qualunque, il principio è andato, e il sistema con esso. O piuttosto, quello di cui il sistema ha fatto il principio supremo della morale, rimane ciò che era, è e sarà, cioè una verità secondaria, condizionata, e nota, del resto, quanto si possa dire.

Infatti, chi dubita che il procurare l'utilità di quanti più uomini si possa; non sia un intento e un fatto conforme alla moralità? È una di quelle verità che non s'enunciano forse mai, appunto perchè si sottintendono sempre. Ma si sottintende anche sempre, che questa utilità si procuri senza fare ingiustizia a nessun altro. Si suppone adempita la condizione suprema della moralità; s'intende di lodare la beneficenza, non di verificare la moralità necessaria; s'intende che è una cosa morale, non che sia la morale. E con quella condizione, è messo interamente in salvo il riguardo dovuto a tutti gli uomini. Vuol forse dire che ogni uomo, per esser morale, deva esercitare la giustizia verso tutti gli uomini? Oh appunto! Una cosa simile non potrebbe mai entrare ne' pensieri d'un uomo, non che nel pensar comune degli uomini. Vuol dire che ogni uomo deve esercitare la giustizia verso di quelli, coi quali si trovi in relazioni tali, da dovere per necessità essere verso di loro, o giusto o ingiusto, sia con azioni, sia con omissioni. E con questo, il riguardo dovuto a tutti è mantenuto interamente, come dicevamo; perché, essendo la giustizia una e assoluta (e non si potrebbe nemmeno pensare priva di questi attributi), non può in nessun caso trovarsi in opposizione con sè stessa; e implica contradizione, che, col dare a uno quanto è dovuto a lui, si possa sottrarre nè punto nè poco di ciò che sia, o sia mai per esser dovuto a degli altri: mentre l'utilità, essendo relativa, non repugna punto alla sua essenza, che ciò che è utile a uno torni in danno d'un altro, anzi di lui medesimo, in un altro momento. In un'azione utile, c'è dell'utilità; in un'azione giusta, c'è la giustizia; direttamente e positivamente, riguardo a quelli che ci hanno un diritto; indirettamente e negativamente, riguardo a tutti gli altri, che non ce n'hanno veruno.

E perciò, quando si vuol lodare l'intento di procurare l'utilità d'altri uomini, non si dice, e non s'ha bisogno di dire, come fa il sistema, l'utilità del maggior numero possibile. Per il senso comune, quanti più sono gli uomini a cui uno vuol procurare utilità, tanto più il suo intento è lodevole; ma è lodevole, o molti o pochi che siano, e foss'anche uno solo. E non ci vorrebbe che un pazzo, per dire: prima di lodar quell'intento bisogna vedere se contempli la metà degli uomini, più uno almeno. Ma questa osservazione medesima sarebbe rigorosamente a proposito, chi la facesse a un partigiano del sistema così modificato, perchè, secondo questo, da quella maggioranza numerica dipende, non già che l'intento sia più o meno bello, e l'azione più o meno utile; ma che sia o non sia morale. Risponderebbe forse, che questo è un rigore pedantesco, e che, dicendo il maggior numero, s'intende naturalmente a un di presso? Sarebbe un dir di novo, che la morale è una scienza di mera probabilità, cioè che non è una scienza, come s'è visto. E s'è visto anche, sia detto a onore de' seguaci del sistema, quanto sia facile il far loro disdire e detestare una tal proposizione. Non potrebbe, mi pare, rispondere se non che è un chiedere l'impossibile: ed è appunto la seconda cosa che abbiamo accennata; cioè che, con questa trasformazione, il sistema è rimasto inapplicabile nè più nè meno. Il riconoscere l'interesse del maggior numero degli uomini non è punto più possibile che il riconoscere quello di tutti: anzi è la stessa cosa, con un'operazione di più; giacchè, per riconoscere la maggior parte, è necessario separarla dal tutto, il che non si può fare senza averlo riconosciuto. Ma non c'è nemmeno bisogno di quest'argomento. L'impossibilità primitiva e intrinseca d'applicare il sistema, in questa come in quella, come in ogn'altra escogitabile forma, viene dal mettere che fa il suo criterio in un incognito; come abbiamo cercato di dimostrare, in diverse e forse troppe maniere.

Eppure, tanto l'affetto a un sistema può far travedere! uno de' vantaggi principali che gli utilitari attribuiscono al loro, è la facilità d'applicarlo, e d'applicarlo universalmente e concordemente. Sentiamo anche qui il più celebre, se non m'inganno, de' suoi autori, il Bentham.

« Partigiano » dice « del principo dell'utilità è quello che approva o disapprova un'azione privata o pubblica, in proporzione della tendenza di essa a produrre o dolori o piaceri; quello che adopra i termini giusto, ingiusto, morale, immorale, bono, cattivo, come termini collettivi che comprendono l'idee di certi dolori e di certi piaceri, senza dare a questi termini verun altro significato. E s'intende che queste parole, dolore e piacere, io le prendo nel loro significato volgare, senza inventar distinzioni arbitrarie per escludere certi piaceri, o per negar la realtà di certi dolori. Non sottigliezze, non metafisica: non c'è bisogno di consultare nè Platone, nè Aristotele. Dolore e piacere è ciò che ognuno sente come tale; il contadino come il principe, l'ignorante come il filosofo. » (216)

Cosa da non credersi, che un uomo d'ingegno e di studio come fu quello, abbia potuto confondere, in una maniera tanto strana, il dolore e il piacere congetturato col dolore e col piacere sentito! Certo: per conoscere che quello che si sente è o dolore o piacere, non c'è bisogno nè di Platone, nè d'Aristotele. Ma per conoscere la somma de dolori o de' piaceri che potranno venir in conseguenza d'un'azione, affine di poterla chiamar giusta, morale, bona, o il contrario, non basta nè Platone, nè Aristotele, nè tutte le scole antiche, moderne e future, nè l'umanità intera: la quale, del resto, non ha mai messa in campo una pretensione simile. Ha bensì sempre tenuto che la probabilità dell'utile o del danno che possa derivare da un'azione, sia materia e studio della prudenza: non ha mai pensato a fondarci sopra il criterio supremo della moralità.

È manifestò in quel raziocinio del Bentham quel paralogismo che consiste nell'addurre tutt'altro che ciò che può servire alla dimostrazione della tesi. Questa richiedeva che si dimostrasse la possibilità di riconoscere effetti futuri; e l'autore allega la facilità, grandissima senza dubbio, di riconoscere uno stato attuale del proprio animo.

Dove, in vece, trova tutto oscurità è nell'idea dell'obbligazione: oscurità la quale, dice, non potrà esser dissipata, che dalla luce dell'utilità. Quale sia questa luce, se n'è parlato più che abbastanza; e in quanto a quell'oscurità, non ci sarà, credo, bisogno d'una lunga osservazione per scoprire nella prova che il Bentham intende di darne, un'altra evidente fallacia. Gioverà, per maggior chiarezza, riferire per intiero il luogo dove tocca questo punto.

« Chiunque, in tutt'altra occasione, dicesse: . È così, perchè lo dico io, . a nessuno parrebbe che avesse concluso gran cosa; ma, nella questione intorno alla norma della morale, si sono scritti di gran libri, nei quali non si fa altro, dal principio alla fine. Tutta l'efficacia di questi libri, e il credere che provino qualcosa, non ha altro fondamento, che la presunzione dello scrittore, e la deferenza implicita de' lettori. Con una dose sufficiente di ciò, si può far passare ogni cosa. Da questo arrogarsi un'autorità è nata la parola obbligazione, dal verbo latino obligo (legare); e tale è là nuvola di nebbiosa oscurità, in cui è ravvolta questa parola, che, per dissiparla, si sono scritti de' volumi intieri. L'oscurità rimane nondimeno fitta come prima; e non potrà esser dissipata, che col farci entrare la luce dell'utilità, co' suoi dolori e co' suoi piaceri, e con le sanzioni e i motivi che ne derivano. » (217)

In verità, ci volle anche qui tutta la prepotenza d'un sistema, per far cadere così un uomo tutt'altro che volgare in quell'errore volgarissimo, di fermar l'attenzione sopra alcuni fatti che escono dell'ordinario, e perciò danno più nell'occhio, senza farsi caso d'altri fatti innumerabili, che costituiscono appunto l'ordinario, e de quali si deve intendere, quando si dice collettivamente: il fatto. Guardò fisso alle ricerche e alle dispute d'alcuni dotti intorno all'obbligazione, agl'intieri volumi scritti su quella materia; non badò ai milioni e milioni di consensi che hanno luogo ogni giorno nell'applicazione di quella parola, cioè del concetto che esprime; ai milioni e milioni di casi, ne' quali dicendo uno: c'è obbligazione di fare o di non fare una tal cosa, gli altri ripetono: c'è obbligazione; non già perchè l'ha detto quello, ma perchè l'avrebbero detto loro ugualmente. Non badò ai casi, anche più frequenti, ne' quali quel concetto è sottinteso da chi sente, come da chi parla. Che su quell'applicazione medesima nascono anche dei dubbi e de dispareri, chi lo potrebbe o lo vorrebbe negare? Ma quest'incertezza di qualche volta, quest'oscurità parziale e occasionale nell'applicazione del concetto ai fatti, o al da farsi, è forse una condizione speciale del concetto d'obbligazione? No davvero: è la condizione dell'uomo nell'applicazione di qualunque concetto. Non si saprebbe da dove prenderne a preferenza le prove, appunto perchè ce n'è pertutto; se non che ce ne somministrano una affatto a proposito i concetti del dolore e del piacere, messi in campo dal Bentham. Certo, sono concetti chiari quanto si possa dire, e per tutti gli uomini ugualmente. Ma cos'accade poi nell'applicazione? Lo stesso per l'appunto, che in quella del concetto d'obbligazione; cioè che c'è un numero grandissimo d'effetti che gli uomini chiamano concordemente o piacevoli o dolorosi; ce ne sono alcuni, dove altri trovano piaceri, altri dolore. Dolore e piacere è ciò che ognuno sente come tale; ma non sempre ognuno sente o dolore o piacere per le stesse cagioni. E del pari, obbligazione è ciò che ognuno intende come tale, quantunque non in tutti i casi ognuno intenda ugualmente che c'è obbligazione. E questi dispareri attestano, non meno de' consensi, che l'idea è intesa da tutti. Infatti, come mai si potrebbe discordare sul quando uno sia o non sia moralmente obbligato, se non s'avesse in comune l'idea d'obbligazione morale? Cosa non sa trovare la malafede, per scapolare da un'obbligazione incomoda? Interpretazioni stiracchiate, falsi titoli d'eccezione, vane ragioni d'equità, impossibilità immaginarie, pretese obbligazioni opposte e prevalenti, e che so io? Ma non credo che a nessuno de' più sottili maestri di quell'arte sia mai venuto in mente di dire: . Voi mi parlate d'obbligazione: cosa vuol dire obbligazione? Si tratta di moralità; e se c'è una materia nella quale importi aprir gli occhi, è questa sopra tutte. Come volete che un galantuomo par mio si regoli, in una tale materia, sull'autorità d'un termine involto in una nuvola di nebbiosa oscurità? Esaminiamo il caso alla luce dell'utilità; e quando m'avrete fatto vedere, non con l'autorità d'assiomi dottorali, ma con argomenti speciali e concludenti per questo caso, che il far io ciò che chiedete sarà confacente prima di tutto all'utile generale, o del maggior numero possibile, come vi piace, e poi anche al mio, com'è giusto, sarò prontissimo a compiacervi. . Al contrario, con quell'altre gretole che vanno cercando, confessano e attestano, se ce ne fosse bisogno, che anche loro intendono a maraviglia cosa voglia dire obbligazione.

Ecco come questa parola è oscura per il comune degli uomini. Ma quando anche si voglia non contar questi per niente, e non considerar altro che gli autori e gli studiosi de' volumi intieri che trattano dell'obbligazione, se ne potrà forse inferire quella pretesa oscurità? Niente di più. Infatti, le ricerche e le dispute di que' volumi s'aggirano, o anch'esse sull'applicazione, cioè sua lcune applicazioni del principio di obbligazione, o sulla ragione fondamentale di essa; non già sulla sua essenza medesima, la quale è, all'opposto, il dato necessario delle questioni sull'applicazione, come abbiamo già osservato, e non meno di quelle che riguardano la ragione fondamentale. Non si fanno ricerche e dispute sul perchè e sul come l'uomo possa esser moralmente obbligato, se non in quanto s'ha in comune il concetto d'obbligazione morale: è una condizione indispensabile per i dotti, come per gl'ignoranti. Dire che il dubbio o il dissenso intorno a questo perchè, provano che non s'ha dell'obbligazione un concetto abbastanza chiaro, sarebbe quanto il dire che l'uomo non possa conoscer chiaramente, e posseder con certezza, e con legittima certezza, se non le verità delle quali abbia trovata e riconosciuta esplicitamente la ragione fondamentale. Il che implicherebbe una contradizione manifesta; giacchè l'uomo così fatto avrebbe a essere capace d'un'altissima riflessione, e incapace di cognizioni sulle quali poterla esercitare. I libri sull'obbligazione, allegati dal Bentham, non provano l'oscurità di questo concetto, più di quello che i libri i quali trattano della natura e delle cagioni del piacere provino l'oscurità di quest'altro: libri, ne' quali ci potranno ugualmente essere delle sottigliezze; della metafisica poi ce ne sarà, di sicuro, in tutti. Che se, con un argomento derivato da quella filosofia sulla quale è fondato anche il sistema morale dal Bentham, ci si dicesse che il paragone non quadra, perchè il vocabolo piacere esprime il concetto d'una cosa che si sente, e quindi è chiaro di necessità; risponderemmo che la chiarezza de' vocaboli non dipende dal significare oggetti d'una specie più che d'un'altra, ma dal significar degli oggetti, cioè degl'intelligibili di loro natura. E il Bentham, adoprando, in uno de' passi citati dianzi, il vocabolo principio (per non citarne che uno il quale non può dar luogo a controversia), confidava di certo, e con tutta la ragione, che sarebbe inteso; quantunque un principio non sia una cosa che si possa sentire più d'una obbligazione.

Non possiamo qui lasciar di fare qualche osservazione anche sull'origine attribuita dal Bentham al concetto d'obbligazione morale, con quella proposizione già citata: « Da questo arrogarsi un'autorità è nata la parola obbligazione, dal verbo latino obligo. » E perchè questa proposizione s'intenda meglio, gioverà citare anche un passo che la precede quasi immediatamente, e al quale essa si riferisce.

« Per disgrazia gli uomini si mettono a discutere delle questioni molto importanti, già determinati a scioglierle in un dato senso. Hanno, per dir così, preso l'impegno con sè stessi di trovar che certi fatti saranno giusti, e cert'altri ingiusti. Ma il principio dell'utilità non permette questo sentenziar perentorio, e richiede che, prima di chiamar riprovevoli de' fatti, si dimostri che tornino a scapito della felicità degli uomini. Una tale ricerca non fa per l'istruttore dommatico; quindi egli non vorrà aver che fare col principio dell'utilità. N'avrà in vece un altro adattato ai fatti suoi. Dirà con un'asseveranza che basti: Io pronunzio che queste cose non sono giuste; ergo non sono giuste. » (218)

Quale argomento adduce il Bentham, per dimostrare che da questo arrogarsi un'autorità di sentenziare sulla giustizia o sull'ingiustizia di certe cose, sia nata la parola obbligazione, cioè sia entrato nelle menti il concetto d'obbligazione morale? Nessuno: lo dà per un fatto. È lui medesimo che, in questo caso, viene a dire: è così perchè io dico che è così. Eppure, se c'è qualcosa che abbia bisogno di prove, è certamente un fatto (lasciamo da una parte l'entità speciale di questo, che riguarderebbe un concetto così importante, così comune e così causale), è, dico, un fatto asserito per la prima volta da uno che sicuramente non ne fu testimone, e non ne potrebbe citar nessuno, nè vivo, nè morto; giacchè dove si trovano documenti o tradizioni d'un'epoca, in cui gli uomini non avessero il concetto dell'obbligazione morale?

In mancanza d'ogni prova di questo genere, ha almeno il Bentham tentato di dimostrare la necessità logica di quella supposta origine? Neppure; anzi si può credere che, se avesse intrapresa una tale ricerca, avrebbe messa quella supposizione da una parte; perchè si sarebbe dovuto accorgere che implicava contradizione.

Infatti, come mai, dall'aver sentiti, degli uomini affermare, con quanta prosopopea si voglia, che le tali e le tali cose non erano giuste, avrebbero degli altri uomini, ligi quanto si voglia all'autorità di quelli, potuto inferire che c'era obbligazione di non farle, se non avessero veduta o creduta vedere, se par meglio, una relazione tra la giustizia e l'obbligazione morale? Che un dottorone, per un'autorità conferitasi da sè medesimo, dica: Io pronunzio che queste cose non sono giuste; ergo non sono giuste; e degli uomini di testa debole ripetano docilmente: ergo non sono giuste; ci vedo un effetto possibilissimo del concorso di quelle due cause, presunzione degli uni, e deferenza degli altri. Ma perchè quest'altri vadano avanti e dicano: ergo c'è obbligazione di non farle, è proprio necessario l'intervento d'un'altra causa, cioè del concetto d'obbligazione morale, di cui quest'ergo è un'applicazione, e di cui i dottoroni non avevano neppur fatto cenno. La deferenza, quando non è regolata dalla ragione, può produrre de' miserabili, e anche de' perniziosissimi effetti; ma non degli effetti per i quali si richieda un'altra causa. E il Bentham (sia detto col riguardo dovuto al suo ingegno, ma con la libertà necessaria alla ricerca del vero) ha voluto far nascere il concetto dall'applicazione del concetto medesimo; che è quanto dire, l'istrumento dall'operazione, la possibilità dal fatto, la causa dall'effetto.

Che il vocabolo obbligazione, in senso morale, sia un traslato del verbo latino, obligo, non ne può nascer dubbio. Ma perchè un traslato ottenga il suo effetto, che è di far pensare una cosa, col nominarne un'altra, bisogna assolutamente che gli elementi necessari a costituire il novo concetto, o si trovino indicati nell'espressione adoprata a quest' intento, o la mente gli abbia d'altronde. Ora il vocabolo legare non esprime che un'operazione, e sottintende, non solo qualcosa a cui quest'operazione si faccia, ma qualcosa che la faccia. E quindi nessuna mente potrebbe mai passare, per mezzo d'un tal vocabolo, a ideare l'effetto morale che s'intende per obbligazione, se non avesse l'idea di qualcosa che possa produrre quest'effetto nell'ordine della moralità. È evidente che l'autorità non è quest'idea, come suppone il Bentham. L'autorità, in quanto autorità, non fa altro che attestare: è una ragione estrinseca al concetto che pronunzia: potrà farlo accettare, a diritto o a torto, senza prove e senza dimostrazione; ma non può entrare a costituirlo. Se un dottore dommatico qualunque, col solo mezzo dell'Ipse dixit, e senza trovare preparato nelle menti l'elemento causale e necessario del concetto d'obbligazione, avesse detto addirittura: -- Io pronunzio che siete obbligati a fare, o a non fare, -- avrebbe predicato nel deserto: non sarebbe stato creduto, perché non sarebbe stato inteso; e non sarebbe stato inteso, per mancanza di materia intelligibile. Il vocabolo obbligazione, non trovando nelle menti il mezzo indispensabile per esser trasferito a un significato morale, non avrebbe destato in esse altro che il suo concetto proprio d'un legar materiale. Ma che dico? quest'ipotesi stessa è assurda: come mai sarebbe arrivato lui medesimo al concetto d'obbligazione morale, per imporlo agli altri, senza una causa relativa ad esso, e distinta e affatto diversa dalla sua persona? E si veda l'autore stesso, mentre vuol far nascere, e immediatamente, quel concetto dall'autorità del dottore, gli fa dire: Io pronunzio che queste cose non sono giuste. Ci mette di mezzo, senza avvedersene, l'idea della giustizia: e con questo, viene, per una di quelle, direi quasi, insidie della verità, a riconoscere implicitamente quella che, come passiamo a osservar brevemente, è la vera generazione logica del concetto d'obbligazione.

È un fatto, tanto manifesto quanto universale, che gli uomini applicano a un genere di cose l'idea di giustizia, e, per conseguenza, a un altro genere opposto l'idea negativa d'ingiustizia; e ciò per una speciale convenienza che trovano nell'une, e per una speciale repugnanza che trovano nell'altre. Trovano, per esempio, quella speciale convenienza, un naturale incontro, un affarsi e un comporsi tranquillamente di cose, nel mantenere i patti, nel rendere il deposito, nel rispettare la vita, la persona e la roba altrui, nel ricompensare il merito, e simili. Trovano quella speciale repugnanza e contradizione di cose nell'affermare ciò che si sa non esser vero, nel far suo l'altrui, o per forza o per arte, nel contraccambiare un benefizio con un'offesa, e simili. Quando poi tali cose si considerano in relazione col potere che l'uomo ha di farle o di non farle, di volerle o di rifiutarle, con atti del suo libero arbitrio, allora ciò che, riguardo all'intelletto, era semplicemente verità, cognizione, prende naturalmente, riguardo a quell'altra facoltà, la forma di legge. Ed ecco come. L'operazione alla quale l'uomo è eccitato in que' casi, è quella di scegliere. E tra quali cose? Tra una conosciuta dall'intelletto come giusta, e un'altra come ingiusta. Ora, c'è contradizione nel dire che una cosa la quale si manifesta all'intelletto come repugnante, possa diventar conveniente riguardo alla volontà; in altri termini, che una cosa muti la sua essenza, passando dall'esser semplicemente conosciuta, a essere appetita. Rimane dunque che, delle due determinazioni, tra le quali l'uomo è messo in que' casi, una sola può esser retta, quella cioè che è consentanea alla giustizia.

Ed è appunto questo esser l'uomo ridotto a non si poter determinar giustamente, che in una sola maniera; questo essere aperta alla rettitudine una sola delle due strade aperte al libero arbitrio; questo trovarsi la volontà soggetta a un comando, a un divieto, che può esser trasgredito col fatto, ma che ha in sè una ragione assoluta; è questo, dico, che s'intende significare col termine d'obbligazione morale, o con quello di dovere, o con qualunque altro vocabolo, o forma verbale s'adoperi a significare il concetto medesimo. (219) Ho detto, qualunque forma verbale, perchè a significare un concetto, o (per non andar senza bisogno nelle generali) a significar quello di cui si tratta, non è punto necessario un vocabolo che ne rappresenti l'essenza direttamente e in astratto, e sia per dir così, il suo nome proprio. Questo può esser nato molto tardi, da un'osservazione più avanzata, e per opera, sia de' filosofi, sia della filosofia che lavora secretamente anche nelle teste degli uomini che non ne fanno professione. È un vocabolo utile senza dubbio, ma, come dico, non necessario; e n'è la prova, che anche in lingue, dove pure c'è, e ce n'è più d'uno, si continua, in moltissimi casi, a esprimere il concetto, senza ricorrere a questi. Così è comune a diverse e probabilmente a molte di queste lingue, il dire che una cosa non si può fare, per significare che non è lecita. E, certo, non si vuol dire che non si possa assolutamente, in nessuna maniera; anzi si dice in opposizione al potere che l'uomo ha di farla in effetto: si vuol dire che non si può farla, e operar rettamente. Così, di chi abbia a scegliere tra due o più partiti diversi o anche opposti, ma nessuno de' quali sia opposto alla giustizia, si dice che è libero di prendere quello che più gli piace. E si vuol forse dire che l'uomo sia libero solamente in que' casi? Tutt'altro: si vuol dire che, in que' casi, non è legato dalla giustizia a non poter prendere rettamente che un partito solo. Così si dice che la giustizia vuole, esige, richiede, prescrive, comanda, permette o non permette, esimili: tutte locuzioni che equivalgono al dire: c'è obbligazione di fare, o di non fare.

Questa è la ragione semplicissima, per cui il concetto d'obbligazione morale è pensato, significato, inteso pertutto dove s'intende che ci sono delle cose giuste e delle cose ingiuste; cioè pertutto dove ci son uomini. È un concetto che deriva da quello di giustizia; e non già, come in altri casi, da lontano, e per una lunga serie di concetti intermedi, dimanierachè potesse rimaner latente per un tempo indefinito, e finchè venisse un qualche gran pensatore che, di deduzione in deduzione, arrivasse a cavarnelo; ma ne deriva immediatamente e, dirò così, ne scappa fuori da sè. Qual uomo ha potuto dire: non sono cose giuste, o sentir queste parole intendendole, senza trovarci dentro subito, che si deve non farle?

Ma anche qui il Bentham non tarda a contradirsi, e nella stessa maniera che abbiamo osservata l'altra volta; cioè rinnegando implicitamente, per la forza del bon senso e del senso morale, ciò che aveva affermato per esser fedele al sistema. Poche righe dopo il passo che s'è esaminato ora, dice: Far risaltare la connessione tra l'interesse e il dovere, in tutte l'occorrenze della vita privata degli uomini, è il nostro assunto. Quanto più addentro s'esaminerà il soggetto, tanto più manifesta apparirà la concordia tra l'interesse e il dovere.

Ecco dunque quell'obbligazione (giacchè per dovere non si può qui intendere che la stessa cosa; e anche il Bentham fa vedere d'intenderla così, poichè usa promiscuamente i due vocaboli, (220) quel termine involto in una nuvola di nebbiosa oscurità, eccolo, tutt'a un tratto, diventato chiaro quanto mai si possa desiderare; giacchè, per poter riconoscere una connessione, una concordia manifesta tra due concetti, bisogna di necessità che siano chiari tutt'e due. Con un concetto tutto nuvole e nebbia non ci può essere nè concordia, nè contrasto, nè nulla. Ma lasciamo pure da una parte l'obbligazione, atteniamoci alla parola dovere; e vediamo che strane contradizioni, riguardo al sistema, escano dall'averlo ammesso, come fa il Bentham in quella proposizione, qualunque sia poi il posto che gli ha dato.

Quella proposizione implica necessariamente che il concetto del dovere sia, non solo chiaro, ma noto independentemente dal sistema; il quale, per cercar la moralità, non si serve punto di esso, anzi lo esclude, e non si serve, non parla d'altro, che dell'interesse. Quindi, per trovar la concordia del dovere con questo, bisogna aver già d'altronde la cognizione del dovere. E se, quanto più s'esamini, cioè quanto più chiunque esamini addentro il soggetto, tanto più gli appare manifesta una tal concordia, bisogna che la cognizione del dovere sia affatto comune.

Quella proposizione implica ancora, che il concetto del dovere contenga la verità; altrimenti, come potrebbe trovarsi d'accordo con l'interesse, che è posto dal sistema come la suprema verità morale?

Ora, chi dice dovere, dice una ragione di fare o di non fare: se si sottrae al vocabolo questo significato, non gliene rimane veruno. E dice di più una ragione morale; giacchè, levato da quest'ordine d'idee, il vocabolo perde ugualmente ogni significazione.

Avremo dunque, mettendo insieme quella proposizione col sistema, una ragione morale del fare e del non fare, chiara, nota, vera, e alla quale non si deve ricorrere per la scelta del fare e del non fare, in ciò che riguarda la moralità. Riguardo a questa s'ha a prendere una tutt'altra norma, quella dell'interesse: il dovere non c'è, che per trovarsi d'accordo con esso. La sua essenza è di prescrivere; e, tanto secondo il Bentham, quanto secondo la ragion delle cose, prescrive sempre ciò che è a proposito: secondo la ragion delle cose, perchè è un'applicazione diretta della giustizia, principio supremo della morale; secondo il Bentham, perchè concorda sempre con l'interesse, principio supremo della morale; e con tutto ciò, non s'ha a far caso nessuno delle sue prescrizioni. È una verità che non può essere applicata alla sua propria materia, una regola di condotta (cos'altro sarebbe?) che non potrà mai esser regola di condotta.

In queste o simili contradizioni sono caduti necessariamente tutti gli altri scrittori che, ponendo per principio della morale l'utilità, non hanno poi potuto a meno di non dare un posto qualunque a de' vocaboli esprimenti qualcheduna di quell'idee che appartengono davvero all'essenza della moralità. Tali idee, che tra di loro formano un bellissimo e pacatissimo ordine, trasportate in un ordine artifiziale e apparente di tutt'altre idee, ci portano uno scompiglio, una confusione stranissima; divengono inquiete, perturbatrici, in qualunque posto si mettano, perchè è della loro natura di volere il tutto. Vediamone un altro solo esempio.

Chiunque ammette il principio dell'utilità, dice un altro celebre scrittore, ammette anche il principio del giusto e dell'ingiusto. (221)

Ecco, come dicevamo, ciò che accade naturalmente, nel progresso della discussione, a chi pone per principio d'una scienza ciò che non lo è: ammetterne anche un altro, o degli altri; che è un contradire insieme e a sè stesso e alle leggi della ragione. Per principio s'intende una verità che includa virtualmente un ordine, un complesso di verità relativamente secondarie, che si possano cavar da essa, come conseguenze. Ogni principio quindi contempla un tutto, e comprende una serie intiera di conseguenze (quali e quante siano poi quelle che se ne ricavano in fatto); e c'è contradizione nel dire che due verità diverse possano essere insieme principi d'una scienza, cioè subordinare a sè tutte, e riguardo al numero, e riguardo all'essenza, le medesime conseguenze; giacchè, appunto per essere verità diverse, deve ciascheduna includerne delle sue proprie, non già opposte, ma diverse da quelle dell'altra.

So bene che alcuni negano che tutte le conseguenze d'un principio siano vere nell'applicazione, quanto il principio medesimo; e dicono che non ci sono princìpi senza eccezione. Ma una così strana sentenza non ha altro fondamento, o piuttosto non ha altra origine, che il ricavare il concetto della cosa dall'abuso di essa. Può accadere (e se accade!) che uno o alcuni o molti diano il nome e la forma apparente di principio a una massima più generale, più comprensiva di quello che la verità richieda e permetta. E che tali massime patiscano dell'eccezioni non c'è dubbio. Ma su cosa cadono quest'eccezioni? Su un principio? Neppur per idea: cadono su una massima predicata arbitrariamente, e a torto; come un principio. E farebbe, di certo, un'opera molto utile chi prendesse a esaminare di proposito quella sentenza, se a metterne in chiaro partitamente e alla distesa l'erroneità. Ma per dimostrarne la fallacia radicale (e il nostro argomento non richiede di più) possono bastare poche parole. Si domanda dunque, se l'eccezioni che, secondo alcuni, patisce in pratica ogni principio, cadano su tutte le sue conseguenze, o sopra una parte solamente. Non potranno dire che sopra tutte; giacchè allora sarebbe negazione d'ogni principio, non sarebbero eccezioni a ogni principio. Se dunque non cadono che sopra una parte, ne viene di necessaria conseguenza, che, fatte tutte l'eccezioni, rimanga qualcosa che non patisce eccezione. E questo è appunto il principio, assoluto di sua natura, nella sua sfera legittima. Ammettere e adoprare il vocabolo, e negar questo attributo al concetto, è quanto dire che c'è verità nel predicare d'una totalità di cose ciò che non sia vero se non d'una parte di esse.

Il preservativo naturale contro questo errore, che renderebbe impossibile il ragionamento, e che, non potendo far tanto, riesce però a perturbarlo, e non di rado con incalcolabili conseguenze, sarebbe d'osservare, prima di proporre o d'accettare una massima, se abbia veramente quella ragione così generale che è espressa ne' suoi termini. Ma ciò che impedisce di far uso, come si dovrebbe e si potrebbe, di questo preservativo, è che torna comodo alle volte di proporre o d'accettare come principio una sentenza dalla quale si possano cavare delle conseguenze che premono: sia poi, o non sia, ne' limiti del vero, non importa. Quando poi vengono avanti degli altri che, avendo presa la sentenza più sul serio, richiedono che se ne cavino dell'altre conseguenze che non piacciano ai primi, come si fa? Rinnegare il principio, non conviene, perchè se n'ha bisogno per mantenere quelle tante, per amore delle quali s'era proposto o accettato. Si dice dunque: -- Il principio? è sacrosanto: non crediate che vogliamo ritrattarlo. Ma badate che ogni principio patisce le sue eccezioni: non ci sono princìpi assoluti. Voi volete andar troppo avanti con la logica; e la logica conduce all'assurdo. –-

Senza dubbio, quando si prendono le mosse dall'assurdo. È il vizio naturale della logica, di condurre avanti l'uomo nella strada che ha preso lui.

E dove si troverà poi una regola per riconoscere fin dove le conseguenze d'un principio siano altrettante verità, e da quel punto in là diventino assurdi? È il bon senso dicono, che la fa trovare ne' diversi casi. Ma se il bon senso è in lite con la logica, di quale istrumento si potrà servire, per ragionarle contro? che obbligo può avere il bon senso di prestare il suo aiuto, in un'occorrenza di questa sorte? È forse lui che ha suggerito di proporre o d'accettare una proposizione battezzata col nome di principio, prima d'esaminare quali siano le sue conseguenze logiche? Abiurare la logica (giacchè mutilarla è abiurarla), per servire al comodo o alla precipitazione d'alcuni, è un sacrifizio che il bon senso non può assolutamente fare.

Ora, per tornare al punto speciale in questione, essendo impossibile il subordinare in fatto uno stesso intiero ordine d'idee e d'azioni a due princìpi, quand'anche fossero due verità; dev'esser anche troppo facile che chi ha detto di volerlo fare, dica il contrario in un altro momento. Così è avvenuto nel caso presente. Nello stesso scritto, e nello stesso paragrafo, l'autore citato dice espressamente: Il solo principio dell'utilità prescrive e proibisce (di credere e d'operare), perchè ne deve resultare o del bene o del male. Cedeva, in quel momento, all'esigenza della logica, ma insieme all'esigenza del sistema, il quale non ha la sua forma apparente e il suo nomen habes quod vivas, (222) se non da una tale esclusività. E per far credere a sè stesso di poter mettere insieme due cose tanto contrarie, fu ridotto a attribuire espressamente la forza di prescrivere o di proibire all'utilità, la quale può bensì essere un motivo di fare o di non fare, ma non contiene nella sua essenza nulla, nulla affatto d'imperativo; e a negar virtualmente quella forza alla giustizia, la quale, o prescrive e proibisce davvero, o è una parola senza senso, e quindi da non ammettersi, né sola, nè in compagnia.

Quando il bene prodotto diventa la preda di chi non ci ha alcun diritto, prosegue lo stesso autore, applicando alla morale il linguaggio dell'economia politica, è prodotta un'ingiustizia; ora, ogni ingiustizia è un male (qui nel senso di danno), prima per chi ne patisce, e poi per la società, perchè disanima dal fare il bene, è contraria a ciò che aumenta la somma de' beni, e insieme aumenta la somma de' mali.

Diritto? Ecco un'altra di quelle parole che il sistema non può accogliere impunemente. Certo, il diritto ha per oggetto o, dirò così, per materia un bene; ma non è, nè dalla natura, nè dalla quantità di questo bene, che nasca il diritto: tanto che, per servirci delle parole stesse dell'autore, un bene medesimo che per uno è materia di diritto, non è per un altro, che una preda. Il diritto, per conseguenza, porta con sè, dovunque e in qualunque maniera sia introdotto, una ragione sua propria che non lascia luogo a verun'altra; giacchè, o è anch'esso un vocabolo senza forza, e perchè metterlo in campo? o ha una forza, e è quella di prescrivere. E fitto questo, non rimane più ad altro nulla da fare.

Ogni ingiustizia è un male. Senza dubbio; ma quando si sa questo, che bisogno c'è di cercare un'altra norma per giudicare e per regolarsi, riguardo all'azioni dov'è interessata la giustizia? Che bisogno c'è di buttarsi nell'avvenire, per indovinare l'utilità o il danno che verrà da una azione, quando c'è un mezzo di saperlo, cioè il suo esser giusta o ingiusta? Con questa concessione, che non è, certo, esorbitante, e che era anzi naturalissima dalla parte d'un uomo onorato come fu l'autore che citiamo, viene a riconoscere che quand'anche l'utilità fosse quella che costituisse la moralità dell'azioni (il che non si vuol, certo, concedere), il criterio della moralità di esse si dovrebbe prendere dall'Idea della giustizia. Tanta, e così rigogliosa e rinascente è la forza de' vocaboli che rappresentano dei veri princìpi, e de' princìpi altissimi, come questo!

Non voglio dire che producano necessariamente e sempre un tale effetto. In un altro luogo di quel medesimo Saggio sul principio dell'utilità, l'autore dice solamente che, tanto nelle cose pubbliche, quanto nelle private, l'onesto è quello che c'è di più utile; e che, se si può citar qualche caso in cui un'azione contraria alla giustizia sia riuscita in profitto del suo autore, o de' suoi autori, se ne può citare dieci volte tanti del contrario. E da questo conclude che bisogna governarsi secondo il successo più probabile, cioè più sicuro e costante, malgrado alcuni esempi contrari. Qui non concede, è vero, ma si contradice. E tra l'ogni e la più parte, non ci corre una di quelle differenze che si possano trascurare, perchè non cadono nell'essenza della cosa. Non è differenza, è opposizione: E dove? Nel dato fondamentale del sistema.

E non è egli, diciamolo pure, una cosa deplorabile il vedere scrittori e celebri e benemeriti per altri titoli, condannati a questo perpetuo Exclusit revocat? (223) a eliminare virtualmente la giustizia e il dovere, per servire al sistema; e a riammetterli, in una maniera qualunque, per ubbidire al bon senso e al senso morale? a posarsi, ora sulla probabilità, perchè il sistema non può dar altro; ora sulla certezza, perchè la cosa ne richiede una?

E per liberarsi da tali contradizioni, quale studio, qual fatica, quale sforzo s'ha egli a fare, finalmente? Nient'altro che scotere il giogo pesante, ma posticcio e fragile, d'un sistema arbitrario; lasciar, per amore, la giustizia al suo luogo, in vece d'esser ridotti a dargliene uno per forza; lasciare al suo luogo la prudenza, in vece di collocarla in un'altezza solitaria, dove non si riesce a mantenerla; non darsi a credere, in somma, d'aver costruito un edilizio novo con lo spostar due cose tanto vecchie.

E avremmo finito; ma non ci pare inutile il prevenire un'obiezione, o un'osservazione, se si vuole, che potrebbe venirci da tutt'altra parte. Essendo già morti da qualche tempo i più celebri sostenitori del sistema, e sopite d'allora in poi le controversie che aveva fatte nascere, potrà dir qualcheduno, che è una questione oramai antiquata, e che non ci era quindi nessuna opportunità di rimetterla in campo. E potrà probabilmente aggiungere che sono venuti in campo tutt'altri sistemi; i quali non parlano, in vece, che di giustizia sociale; ma d'una giustizia nova, inaudita, portentosa in ciò che pretende, come in ciò che promette. Sistemi, dirà, che hanno fatto andare in obblivione quello, intorno al quale abbiamo spese tante parole, come il sollevarsi della burrasca fa scomparire l'onda leggiera del bel tempo.

A questo si potrebbe, prima di tutto, rispondere che il non esser più, da qualche o da molto tempo, una dottrina argomento di trattati e di controversie, è tutt'altro che un indizio sicuro dell'esser, nè cessata nè indebolita la sua efficacia pratica. Può anzi indicare il contrario, cioè che abbia ottenuto il suo effetto. Quando la materia messa nella caldaia del tintore ha preso il colore bene, la tinta si lascia andar via. E non già (come abbiamo accennato altrove, e come, del resto, nessuno ignora) che questa sia una dottrina affatto nova. Anzi, come errore pratico, è il più antico di quanti siano entrati nel mondo. Sarete come Dei, (224) è il primo consiglio d'utilità che sia stato opposto a una regola, e regola suprema, di giustizia, qual è l'ubbidienza della creatura al Creatore; come il più spaventoso di quanti ne vennero in conseguenza, fu quell'altro: Torna conto a voi che un uomo moia per il popolo. (225) L'utilità pubblica fu sempre un pretesto per violar la giustizia; essendo, come abbiamo anche accennato, il mezzo più spiccio di sostituire a una questione in cui non si troverebbero che argomenti contrari, e d'immediata riprovazione, un'altra dove ce n'è per una parte e per l'altra; e argomenti, i quali, a chi non riflette e, per conseguenza, non distingue, possono parer validi, perchè in un altr'ordine di cose, hanno un loro valore. Fu, come s'è visto, l'espediente adoprato da Temistocle, ma non inventato da lui. E anche speculativamente, la dottrina che fa derivare la morale dall'utilità, era stata enunciata più d'una volta, ma o con asciutte sentenze, o con applicazioni limitate e parziali. (226) Quello che ci fu di novo, fu il ridurla a sistema, con un metodo chiamato e creduto da molti scientifico, e con un'apparenza, quantunque superficiale e incostante, d'unità e d'universalità. E chi sa dire quanta autorità possa, non solo dare, ma mantenere a un sistema l'essere sostenuto da degli scrittori, l'autorità de' quali, in altri argomenti, s'è stabilita e si mantiene per bonissime ragioni?

Che se si dovesse (cosa, per fortuna, non richiesta in una questione accessoria) venire alle prove di fatto, noi crediamo che ci mancherebbe tutt'altro che la materia. Non so se ci sia mai stata un'epoca piena, quanto la presente, di fatti grandi e gravi, sia per questa o per quella nazione, sia per una parte più vasta dell'umanità; ma credo che, senza incontrare contradizione, si possa affermare che non ce ne fu alcuna in cui i fatti d'un tal genere siano stati come in questa, preceduti, mossi, spinti, attraversati, modificati, seguiti da dibattimenti pubblici, o da libri e scritti d'ogni genere, ragionamenti, storie, relazioni storiche, memorie, come le chiamano, diatribe, apologie e va discorrendo. Mai la parte della società, che legge e che scrive, non ebbe, come in quest'epoca, il campo e la voglia di far conoscere la sua maniera, cioè le sue maniere di pensare su un tal proposito. Ognuno può quindi, in quella farraggine di documenti, o anche semplicemente nelle sue rimembranze, o nelle cose del momento, osservare se sia stato e sia, o raro o frequente il caso di sentire proposta l'utilità (presunta, non si dimentichi) come l'unica e independente ragione della bontà delle risoluzioni da prendersi; raro o frequente il caso, che all'obiezioni o ai lamenti fondati (bene o male, non importa ) sul principio della giustizia e del diritto, si sia creduto e si creda di rispondere categoricamente e trionfalmente col dire che il danno sarebbe di pochi, e l'utilità d'un numero molto maggiore.

Ma un altro argomento da non trascurarsi, e da potersi anch'esso accennar brevemente, ce lo somministrano que' sistemi medesimi che ci potrebbero essere opposti da qualcheduno.

Cosa sono essi infatti, se non una nova fase del sistema utilitario, nove applicazioni di quel così detto principio? Parlano, è vero, di giustizia; (227) ma cosa intendono poi per giustizia? Null'altro che il godimento de' beni temporali ugualmente diviso. Ora, anche i primi utilitari erano pronti a permetter che s'usasse questa parola, a usarla loro medesimi, purchè non gli si desse altro significato che quello d'utilità, o anche d'un non so che altro, se si voleva, ma d'un non so che, il quale non avesse alcuna ragione sua propria, e non la potesse ricavare se non dall'utilità o dal danno che possa esser cagionato dall'azioni umane. Senonchè, quelli tra di loro che trattarono materie, sia di legislazione, sia d'economia politica, sia d'altri rami della scienza sociale, furono, come accade spesso ne' primi passi, ben lontani dall'applicare alla totalità di ciasceduna di quelle materie il prinpipio sul quale pretendevano che dovessero esser fondate. Ammisero a priori, e senza badarci (perchè della parola avevano orrore), un certo stato della società, certi princìpi di diritto pubblico e privato, ricevuti ugualmente e dalla scienza e dalla credenza comune; e a tutto ciò subordinarono, nella maggior parte de' casi, le loro ricerche intorno all'utilità. E questa loro infedeltà al sistema spiega, sia detto incidentemente, il come più d'uno di loro abbia potuto trovare, in questa e in quella materia, delle regole molto giudiziose, degli espedienti molto vantaggiosi, rimettere nel loro vero punto molte questioni, e combattere vittoriosamente degli errori accreditati, e dominanti nella pratica. Cercavano l'utilità; ma, in que' casi, la cercavano nell'ordine di cose secondario, dov'è ragionevole il cercarla; applicavano l'esperienza, l'osservazione de' fatti, ma ne' limiti della sua vera autorità. Quando poi, da tali verità secondarie, volevano salire a quelle più alte e più complessive, che si chiamano princìpi, trovavano la strada chiusa da un muro che s'erano lasciati alzare dietro le spalle, cioè da una filosofia, al dominio della quale s'erano assoggettati, e che li faceva voltare per luoghi senza strada, e correre a dell'apparenze chiamate arbitrariamente e contradittoriamente princìpi, senza poter nemmeno rimanerci poi di piè fermo.

Gli autori de' novi sistemi, trovando eccellente quello ch'era stato chiamato il principio dell'utilità; o, (che è lo stesso, se non di più) prendendo le mosse da quello, senza neppur pensare che si devano, nè che si possano prender d'altronde, videro quanto fosse inadequata l'applicazione che n'avevano fatta i loro antecessori. -- A noi, dissero a questi, o fu come se dicessero, a noi a far fruttare il gran principio che predicate e mettete in cima di tutto, senza intenderne il senso profondo, l'esigenza e la potenza. Utilità, avete detto; e avete spiegato benissimo che utilità, in ultimo, non significa altro che piacere, godimento, sia fisico, sia morale. Egregiamente. Godimento dunque (in questa vita, s'intende), ma per tutti e davvero, come richiede il principio. E cos'avete fatto finora voi altri economisti e legisti, per realizzarne l'intento? Vi siete baloccati intorno a dell'istituzioni secondarie e parziali, che ne suppongono delle primarie e generali, e di queste avete ammessa a credenza la necessità e la ragionevolezza, per l'autorità del fatto materiale e di consuetudini e d'opinioni formate e stabilite, da un pezzo senza dubbio, ma quando il gran principio non era apparso nella sua piena luce, e nemmeno entrato nella scienza. Avete cercato qual sia la maggior somma d'utilità, che si possa ottenere, date certe istituzioni; in vece di cercare, come richiedeva il principio, quali siano l'istituzioni adattate a produrre la maggior somma d'utilità per tutti. E dopo di ciò, avete lasciato all'individuo l'incarico di combinare il suo utile proprio con quello degli altri. Era un dire a alcuni: Voi, ai quali l'istituzioni sociali assicurano, per privilegio, una gran quantità di godimenti, sacrificate al vostro interesse ben inteso un di più che una cupidigia poco accorta potrebbe farvi desiderare. Era un dire a moltissimi: Voi altri poi, che l'istituzioni sociali privano di tanti e tanti di que' godimenti, il vostro interesse ben inteso vuole che vi contentiate de' pochi che vi concedono; perchè quell'istituzioni sono congegnate in maniera da farvi capitar peggio, se non ve ne contentate. È egli codesto un applicare sinceramente e logicamente il principio dell'utilità alla società umana? All'istituzioni, dunque, dev'esser commessa la grande impresa, non agl'individui, che, nella società come è stata accomodata, viene a dire alcuni che non vogliono, e moltissimi che non possono; a delle nove istituzioni; che costringano gli uni, e soddisfacciano gli altri. E siamo qui noi a proporle. –-

Come le proposte siano state concordi, ognuno lo sa: e si poteva prevedere; giacchè, quanto più si tenta d'applicar fedelmente e in grande un falso principio, tanto più si va lontano dal poterlo fare nella stessa maniera.

Alcuni di questi scrittori hanno negata, senza tergiversare, anzi con sdegno, la vita futura. E fu anche questo un progresso logico, come s'è toccato sopra, nell'applicazione del principio dell'utilità. Proporla per regola e per fine di tutte l'azioni umane, e restringerla in fatto al godimento de' beni temporali, lasciando poi in sospeso se, al di là della vita presente, ci siano per l'uomo altri beni e altri mali, è un contrasto troppo evidente tra la franchezza delle conclusioni e l'esitazione delle premesse. È lo stesso che se uno vi presentasse come definitiva una somma raccolta appiè d'una pagina d'un libro di conti, senza sapervi dire se sia o non sia l'ultima pagina. Che alcuni riescano, dirò così, a sonnecchiare fino alla fine in una tale indecisione, può darsi benissimo; ma tenerci tutti gli altri, no. E col moltiplicarsi il numero de' seguaci d'una dottrina che mette il tutto nell'utilità, e tutta l'utilità nella vita presente, dovevano, quasi di necessità, uscirne quelli che ci aggiungessero, come un postulato indispensabile, che il conto finisce con la morte.

Che se, finalmente, alcuno dicesse che sono questioni divenute antiquate anche queste, essendo tali novi sistemi stati tutt'a un tratto sepolti nel silenzio; risponderemmo in genere, che, quand'anche non dovessero più vivere altro che nella storia (e hanno fatto abbastanza per questo), non è mai superfluo il ricercare l'origine d'opinioni che abbiano trovati de' seguaci, tanto d'aver tentato di passare nella realtà e in una vastissima realtà; e risponderemmo in specie, che molto meno ci pare superfluo il dare occasione a tanti che trovano pure strani que' sistemi, d'esaminare più a fondo di quello che abbiamo saputo far noi, se non nascano direttamente e quasi inevitabilmente, da una dottrina che forse trovano molto sensata. Quel silenzio è venuto da un fatto; e i fatti non ottengono una vittoria finale, non solo sulla verità, ma nemmeno sull'errore, quando la più alta cagione di esso rimane viva e invulnerata nelle menti; e tanto più, se inavvertita. I princìpi veri e i falsi princìpi sono ugualmente fecondi; senonchè col dedurre dai primi, s'aggiunge; col dedurre dagli altri, si muta: e appunto perchè non si riesce mai a farne un'applicazione che soddisfaccia la logica, si continua, finchè conservano quella falsa autorità, a tentarne delle nove applicazioni, sia col fantasticare delle nove forme d'errore, sia col rimetterne in campo, a tempo più opportuno, di quelle che da altri si credevano sepolte per sempre.


________________

(1) Alii autem irridentes dicebant: quia musto pleni sunt isti. Act. Apost. II, 13.

(2) Quidam quidem irridebant, quidam vero dixerunt: audiemus te de hoc iterum. Act. Apost. XVII, 32.

(3) Unus Dominus, una fides, unum baptisma. Ad Ephes. IV, 5.

(4) Donec occurramus omnes in unitatem fidei, et agnitionis Filii Dei. Ibid. 13.

(5) Rationabile obsequium vestrum. Ad Rom. XII, 1.

(6) Inter attributa autem veri Dei ponitur quod sit Deus zelotypus; itaque cultus ejus non fert mixturam, nec consortium. Franc. Baconis, Sermones Fideles. III: De unitate Ecclesiæ.

(7) Dictionn. philosoph., art. Vertu.

(8) Mi pare che a torto G. G. Rousseau (Émile, liv. II) rida di coloro che ammirano il coraggio d'Alessandro nel bere la medicina presentatagli dal medico Filippo, dopo d'aver ricevuta una lettera di Parmenione, che l'avvertiva di guardarsi dal medico, come indotto, con doni e con promesse, da Dario a levargli la vita. Racconta che, essendo questa storia detta su da un ragazzo, a un desinare di molte persone, e i più biasimando quell'azione come temeraria, altri ammirandola invece come coraggiosa, lui aveva detto che se ci fosse entrata anche un'ombra di coraggio, essa non sarebbe stata, al parer suo, altro che una stravaganza. Concordando tutti ch'era una stravaganza, egli stava per riscaldarsi e per rispondere, quando una donna, che gli era vicina, gli disse all'orecchio: Tais-toi, Jean-Jacques; ils ne t'entendront pas. Que' signori non ebbero dunque la spiegazione: Rousseau la dà ai lettori, ma con quel tono sdegnoso e enfatico, che prende troppo spesso, principalmente in quel libro, dove alle volte pare che voglia persuadere i lettori, che non ne crede alcuno degno di sentire la verità, nè capace d'intenderla, e ostenta di voler far indovinare quello che poteva esser detto bonamente e amichevolmente. Ecco le sue parole: Quelques lecteurs, mécontents du tais-toi, Jean-Jacques, demanderont, je le prévois, ce que je trouve enfin de si beau dans l'action d'Alexandre. Infortunés! s'il faut vous le dire, comment le comprendrez-vous? C'est qu'Alexandre croyoit àla vertu; c'est qu'il y croyoit sur sa tête, sur sa propre vie; c'est que sa grande âme étoit faite pour y croire. Ô que cette médecine avalée étoit une belle profession de foi! Non, jamais mortel n'en fit une si sublime. Con tutto ciò mi pare che il coraggio sia appunto ciò che spicca in quell'azione. Credere alla virtù non bastava in un tal caso; bisognava credere alla virtù del medico Filippo; e, per crederci in quel momento, senza esitare, bisognava richiamare alla mente, e rivedere in compendio e pacatamente, le prove della sua fedeltà, e rimaner convinto che bastavano a levare ogni probabilità all'attentato; bisognava avere un animo tale, che l'idea d'un possibile avvelenamento non lo disturbasse dal fare, in una tal maniera, un tale giudizio; in somma aver coraggio. Il sentimento che porta il timoroso a ingrandire o a immaginarsi il pericolo, è quello stesso che lo fa fuggire dal pericolo reale, cioè un'apprensione della morte e del dolore corporale, che s'impadronisce delle sue facoltà, e leva la tranquillità alla mente. Il conservare questa tranquillità in faccia al pericolo o vero o supponibile, è l'effetto del coraggio. Se Alessandro avesse creduto probabile che Filippo volesse avvelenarlo nella medicina, sarebbe stata senza dubbio una stravagante temerità il prenderla; ma quella lettera venuta alle mani d'un uomo pusillanime, fosse pure stato fino allora persuasissimo della virtù del medico, l'avrebbe messo in una tale angustia e perplessità, che non avrebbe ragionato, ma sarebbe stato con violenza portato a schivare il rischio a ogni modo: avrebbe prese informazioni, fatto arrestare a bon conto il medico, e esaminare la medicina; avrebbe in somma fatto tutt'altro che inghiottirsela.

(9) Nec mihi, nec tibi sit; sed dividatur. III Reg. III, 26.

(10) Hist. des Répub. It. T. XVI, pag. 183.

(11) Lettre à M. Leibnitz, du 10 janvier 1692. Œuvres posthumes de Bossuet. T. I, pag. 349.

(12) Euntes ergo docete omnes gentes.... docentes eos servare omnia quæcumque mandavi vobis. Matth. XXVIII, 19, 20.

(13) Esprit des Loix, liv. XXIV, chap. I.

(14) Danger des entretiens des hommes, I.ère partie, chap. V.

(15) Il lettore intenderà che la parola legge è qui impiegata a significare, non ciò che si deve fare, ma ciò che gli uomini, generalmente parlando (se non sono sostenuti da un principio e da una forza soprannaturale), fanno così certamente, come se ci fossero astretti da una legge. Una splendida eccezione a questa sono i primi cristiani, i quali, in faccia alla persecuzione, seppero unire, in un grado mirabile, sincerità, pazienza e resistenza.
Che sapienza divina nel precetto di fuggire dalle persecuzioni ! Siccome non si poteva uscirne che con la morte o con l'apostasia, così l'uomo non doveva esporsi a una prova tanto superiore alle sue forze ma doveva sostenerla, quando fosse inevitabile. Non si sarebbe potuto immaginare un disegno che, secondo la prudenza mondana, desse meno speranza di riuscita, di quello che escludeva i vantaggi dell'audacia e quelli della destrezza, i vantaggi che vengono dal transigere, dal pigliar tempo, dall'ingannare chi vuole opprimere. La regola del cristianesimo non lasciava a' suoi difensori, quand'erano in presenza del nemico, altra scelta che quella di morire senza fargli danno. Certo, ogni saggio mondano avrebbe pronosticato che una tale religione, doveva rovinare infallibilmente e in poco tempo, meno che i suoi partigiani, avendo imparato subito, a loro spese, a conoscere un po' più gli uomini, non cambiassero il metodo di propagarla. Il mirabile è che si stabilì e si diffuse con la fedeltà a quelle prescrizioni.

(16) Questo capitolo era già steso quando seppi che la stessa questione era stata recentemente discussa da un rispettabilissimo apologista della religione (Analisi ragionata de' sistemi e de' fondamenti dell'ateismo e dell'incredulità. Dissertazione VI, cap. II). Nondimeno ho creduto bene di lasciarlo tale quale, non importando di trattar cose nove, ma cose opportune; e sono sempre tali quelle che riguardano un punto contrastato posteriormente da uno scrittore distinto.

(17) Saggio sull'intelletto, lib. I, cap. II. Dopo il Locke, si volle, da questi fatti e da altri di simil genere, cavare una tutt'altra conseguenza, cioè che la moralità stessa sia una cosa di mera convenzione. L'Helvetius ne citò anche di più, per provare che, in tutti i secoli e ne' diversi paesi, la probità non può essere altro che l'abitudine dell'azioni utili alla propria nazione. Disc. II, tap. XIII. Qualche scrittore, insorgendo, con ragione e con dignità, contro questo sofisma, che confonde l'idea della giustizia con l'applicazione di essa, parve quasi disapprovare la ricerca stessa di questi fatti. Philosophie de Kant, par C. Villers, pag. 378; e più espressamente Mad. de Staël; De l'Allemagne, 3.me partie, chap. 2: Qu'est-ce donc qu'un système qui inspire à un homme aussi vertueux que Locke de l'avidité pour de tels faits? Ma s'avvide subito essa medesima che questa non era un'obiezione; e difatti soggiunge: Que ces faits soient tristes ou non, pourra-t-on dire, l'important est de savoir s'ils sont vrais. Così è: l'unica cosa che si deve cercare ne' fatti è la verità: chi ha paura d'esaminarli dà un gran segno di non esser certo de' suoi princìpi. Ma, segue la celebre donna: Ils peuvent être vrais, mais que signifient ils? Significano che non c'è alcuna nozione di morale, innata nella mente umana; e contribuiscono a provare che non c'è in essa, nozione innata di sorte veruna. E se il Locke si fosse ristretto a combattere la supposizione contraria, avrebbe reso un servizio, non definitivo, di certo, ma importante, giacché non ci sono errori innocui in filosofia, e in morale specialmente; e il ritorno dall'errore all'ignoranza è un progresso. Ma, come oramai tutti ne sono d'accordo, il Locke non combatte quell'errore, che per sostituirgliene uno peggiore di molto; e è cosa ugualmente riconosciuta, che quella spropositata sentenza dell'Helvetius veniva senza sforzo dal principio posto da quello; per quanto si può chiamar principio un'ipotesi negativa e espressa con una metafora. -- E a questo proposito, mi si permetta un'osservazione non richiesta dall'argomento, ma brevissima, e intorno a un fatto che può parer singolare: ed è che i discepoli del Locke, i quali gridarono tanto contro i sistemi fondati su delle ipotesi, non abbiano badato che il loro maestro aveva prese le mosse da un « Supponiamo » (Let us then suppose). E cosa s'aveva a supporre? « Che la mente sia, come a dire, un foglio bianco, privo d'ogni carattere, senza idea veruna » (the mind to be, as we say, white paper, void of all characters, without any ideas). Ma per far davvero una tale supposizione, cioè per averne il concetto, e non una sola forma verbale, era necessario sapere cosa s'intendesse per mente; come, per supporre un foglio di carta privo di caratteri, é necessario (cosa del resto facilissima) sapere cosa s'intenda per foglio di carta; giacché, come concepire che sia nè fornito, nè privo d'una cosa qualunque, ciò che non si sa cosa sia? Ora, cos'è la mente priva di qualunque idea? A questo non pensò il Locke, parendogli che bastasse il vocabolo. Donde vengono alla mente tante idee? domanda poi a sè stesso; e risponde in una parola: « dall'esperienza. » To this I answer in one word, from experience (Saggio sull'íntelletto umano, lib. II, tap. I). Ma, di novo, per intendere come la mente acquisti ogni idea dall'esperienza, bisogna sapere cosa sia la mente, quando fa il suo primo atto d'esperienza. E di questo, nulla. Quindi la proposizione del Locke equivale a quest'altra: In quella maniera che concepite un foglio di carta privo di caratteri, sapendo benissimo cosa sia un foglio di carta, dovete poter concepire cosa sia una mente priva d'ogni idea, senza sapere, nè cercare cosa sia una mente. Dico: senza saperlo: e il Locke medesimo lo confessa implicitamente; giacchè, se avesse creduto che dovesse essere una cosa nota, non avrebbe detto: supponiamola. La mente è per lui un non so che, del quale si potrà ragionar con fondamento, quando s'aggiunga che in questo non so che non c'è niente: un'incognita, più il nulla. E siccome, in quel soggetto incognito, le prime idee, secondo gli esperimenti del Locke, erano prodotte e formate dalle sensazioni d'oggetti materiali, così non c'è da maravigliarsi che de' seguaci di quel filosofo, pensando (con ragione, ma troppo tardi) che si doveva pure cercare quale fosse quest'incognito soggetto dell'idee, abbiano creduto di trovarlo in un organo del corpo umano. É bensì un fatto memorabile, e utile a rammemorarsi spesso, che abbia potuto regnare in tanta parte d'Europa, per tanto tempo, e con tanto vari e vasti effetti, un sistema fondato sopra un'ipotesi negativa e verbale, fatta parer positiva e intelligibile da una metafora viziosa.

(18) Ne citerò due esempi, e perchè d'uomini tra i più illustri del gentilesimo, e perchè forse non abbastanza notati. Cicerone il quale, nel celebre passo dove descrive l'atroce supplizio inflitto da Verre a P. Gavio (in Verr. Act. II, lib. V, 61 et seq.), non sa vedere altra dignità offesa, altra persona straziata, che quella d'un cittadino romano, ci ha lasciato, in una delle sue lettere, un saggio ancor più tristo e più aperto, d'indifferenza per l'avvilimento e per gli strazi dell'uomo come uomo. Dico quella lettera dove loda il suo paesano M. Mario di non aver fatto il viaggio di Roma, per vedere gli spettacoli dati da Pompeo, nel suo secondo consolato. E tra gli altri, parla delle cacce (venationes); giacché con questo nome chiamavano anche quelle che si facevano, o, per dir meglio, si facevano fare, non contro le bestie, ma tra bestie e schiavi, per vedere chi la vinceva e chi ci rimaneva. « Magnifiche, » dice, « nessuno lo nega; ma che piacere può trovare un uomo d'un gusto scelto, nel vedere un uomo, così inferiore di forze, sbranato da una robusta fiera, o una superba fiera trafitta da uno spiedo? Cose che, se pure si devono vedere, l'hai viste abbastanza: noi che l'abbiamo viste anche in quest'occasione, non ci abbiamo trovato nulla di novo. » Reliquæ sunt venationes binæ per dies quinque, magnificæ, nemo negat. Sed quæ potest homini esse polito delectatio, quum aut homo imbecillus a valentissima bestia laniatur, aut præclara bestia venabulo transverberatur? quæ tamen, si videnda sunt, sæpe vidisti; neque nos qui hæc spectavimus, quidquam novi vidimus (Epist. 126). Davvero, tra l'avidità d'una moltitudine per un tale spettacolo, e la sazietà degli uomini colti, che lo trovavano insipido, si può dubitare quale indichi un più abietto e crudele pervertimento del senso morale.
L'altro è un fatto di Catone, quando s'era già condannato a morte, e nel momento che aveva finito di leggere, con tanto profitto, il Fedone. Avendo domandato a un servo, dove fosse la sua spada (che il figlio gli aveva portata via di nascosto), e non essendogli data risposta, aspettò un poco; e poi, dice Plutarco, « chiamò un'altra volta ad uno ad uno i suoi servi, e alzando maggiormente la voce, chiedea pur la spada; e ad uno di essi diede anche un pugno su la bocca con tanta forza, che ne riportò insanguinata la mano. » (Vita di Cat. trad. del Pompei). E s'ammazzava per non poter sopportare la superiorità (un po' meno esorbitante davvero) che Cesare voleva arrogarsi sopra di lui! É però da credere che, passato quel primo bollore, il celebre stoico sarebbe stato disposto a riconoscere una qualche colpa in quel suo atto brutale; ma per la sola ragione, che il sapiente non va in collera: Numquam sapiens irascitur, come Cicerone fa dire a lui medesimo (pro L. Murena, 30).

(19) Di tempo in tempo escono poi fuori degli scrittori che mettono in ridicolo queste discussioni: cosa tanto più facile, quanto esse s'attaccano da una parte a sistemi particolari di scole diverse, e più o meno ristretta, e dall'altra ai sentimenti più intimi dell'uomo: due gran fonti di ridicolo per un gran numero d'uomini colti. Il frasario stesso de' vari sistemi somministra agli scrittori burleschi de' materiali da mettere in opera senza grande studio. In ogni sistema, a misura che si classificano più idee, diventa o pare necessario inventare de' termini per nominare quelle classi, e per significare le loro relazioni. Questi vocaboli lontani dall'uso comune, ripetuti spesso dai filosofi per supplire a un periodo, e qualche volta a un trattato, e ripetuti per lo più con importanza, perchè rappresentano le idee cardinali del sistema; questi vocaboli soli, accumulati in uno scritto scherzevole, bastano a far ridere migliaia di lettori.
Nulla serve di più a far ridere gli uomini d'una cosa, che il ricordar loro, che per altri uomini quella cosa è seria ed importante: poichè ad ognuno pare un segno evidente della propria superiorità l'esser divertito da ciò che occupa e domina le menti altrui. Lo spettatore del Mariage forcé, smascellandosi dalle risa agli argomenti di Pancrazio, sulla forma e sulla figura, si sentiva come sollevato al disopra di tutta la schiera de' peripatetici. Ciò si vede ogni giorno, anche nelle relazioni ordinarie, e tra gli uomini d'ogni ceto, dove, quando si sappia che uno abbia un'affezione particolare a un'idea, gli altri si servono di quella per farsi beffe di lui, o contradicendolo, o secondandolo, ma sempre in maniera che quella sua affezione si mostri al massimo grado: e quest'usanza si può benissimo combinare con l'urbanità, la quale, separata dalla carità religiosa, è piuttosto le leggi della guerra, che un trattato di pace tra gli uomini.
Dalle Nubi fino al Fausto i sistemi de' filosofi sulla parte morale e intellettuale dell'uomo sono sempre, o al loro apparire o col tempo, caduti nelle mani di scrittori, comici; e il sentimento eccitato da questi è stato o gaio, o derisorio, o anche penoso, secondo che hanno più fatta risaltare la vanità de' sistemi particolari, o la vanità terribile della mente umana; il che è dipenduto dalla malignità, dalla vivacità o dalla profondità del genio de' diversi scrittori.
Quando le parole tecniche d'un sistema sono state messe in burla da uomini d'ingegno, pochi ardiscono più adoprarle sul serio, e le questioni paiono finite; ma riprincipiano sotto altri nomi. C'è nell'uomo un desiderio di conoscere la propria natura, di trovare una ragione de' suoi sentimenti, che non s'accheta con delle facezie.

(20) Lo scrittore anonimo della vita dell'Helvetius, dopo aver parlato d'alcuni suoi tratti di beneficenza, riferisce che disse al suo cameriere, il quale n'era testimonio: Vi proibisco di raccontare ciò che avete veduto, anche dopo la mia morte. Questo scrittore non rammenterebbe una tale circostanza, se non credesse che la volontà di nascondere i benefizi che si fanno è una disposizione virtuosa. Lo è senza dubbio; ma nel sistema di quel filosofo è impossibile classificarla tra le virtù.

(21) Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum cœlorum. Matth. V, 3.

(22) Cum autem venerit Filius hominis in maiestate sua, et omnes angeli cum eo, tunc, sedebit super sedem maiestatis suæ... Ibid. XXV, 31 et seq.

(23) Deum nemo vidit unquam: unigenitus Filius, qui est in sinu Patris, ipse enarravit. Ioan. I, 18.

(24) Estote ergo vos perfetti, sicut et Pater vester coelestis perfectus est. Matth. V, 48.

(25) Ut sint ununi, sicut et nos unum sumus. Ioan. XVII, 22.

(26) Petite, et dabitur vobis. Luc. XI, 9.

(27) Hæc locutus sum vobis, ut in me pacem habeatis. In mundo pressuram habebitis; sed confidite, ego vici mundum. Ioan. XVI, 33.

(28) Pater tuus, qui videt in abscondito, reddet tibi. Matth. VI. 4.

(29) Merces vestra copiosa est in cœlis. Id. V, 12.

(30) Beati qui esuriunt et sitiunt justitiam, quoniam ipsi saturabuntur. Ibid. 6.
Intorno a questo speciale carattere della ricompensa promessa dal Redentore, avremo occasione di dir qualcosa più in particolare nel Cap. XV.

(31) Il filosofo che ha data alla morale razionale la forma rigorosa di scienza, dimostrando la sua derivazione da una legge evidente e illimitatamente applicabile, e dimostrando di più il nesso naturale e necessario di questa legge col principio supremo e universale d'ogni verità (Rosmini, Princìpi della scienza morale), è anche quello che, con un'altezza e vastità d'argomenti dalla quale sono troppo lontani questi nostri cenni, ha dimostrata la deficienza naturale di questa scienza riguardo all'idea intera e perfetta della moralità, e la sua implicita dependenza dalla morale soprannaturale e rivelata, nella quale sola può trovare il suo compimento. Le quali due conclusioni, cioè verità e imperfezione della morale naturale, non che contradirsi, sono intimamente connesse e dedotte da uno stesso principio; giacchè, è appunto per mezzo dell'idea intera e perfetta della moralità quale c'è manifestata dalla rivelazione, che si dimostra come la morale naturale ne sia e un'applicazione legittima, e un'applicazione inadequata e tronca. V. specialmente la Teodicea e l'Introduzione alla filosofia (I, II, III e IV); e per l'uno e l'altro argomento, la Storia comparativa de' sistemi intorno al principio della morale, del medesimo autore.

(32) . . . quanto magis Pater vester de cœlo dabit spiritum bonum petentibus se? Luc. XI, 13.

(33) Non enim quod volo bonum, hoc facio; sed quod nolo malum; hoc ago. Ad Rom. VII, 19.

(34) . . . . . . . . . . . . . . aliudque cupido
        Mens aliud suadet: video meliora proboque;
        Deteriora sequor.

              Metam. VII, 19 et seq.

(35) Infelix ego homo! quis me liberabit de corpore mortis huius? Ad Rom. VII, 24.

(36) Donec corpus habemus, animusque poster tanto malo erit admixtus, etc. Plat. Phæd.

(37) Gratia Dei per Jesum Christum Dominum nostrum. Ad Rom. VII, 25.

(38) Chi non riflettesse che le scienze morali non seguono la progressione dell'altre, perchè non sono dipendenti dal solo intelletto, nè propongono di quelle verità che, riconosciute una volta, non sono più contrastate, e servono di scala ad altre verità, non saprebbe spiegare come la dottrina dell'Helvetius sia potuta succedere in Francia a quella de' gran moralisti del secolo decimosettimo. Stupito di vedere una scienza andare o piuttosto saltar così all' indietro, non saprebbe, delle due maniere di renderne ragione, quale ammettere come la meno strana: o che l'Helvetius, moralista di professione, non si fosse curato d'informarsi dello stato della scienza, e dell'opinioni di scrittori rinomatissimi e recenti; o che, leggendo le loro opere, non avesse veduto che le questioni che metteva in campo erano già completamente sciolte, e che la soluzione era sempre quella ch'egli doveva trovare la più nobile e la più utile, quella che avrebbe desiderato che ognuno adottasse nelle sue relazioni con lui; non avesse veduto come in que' libri tutto concordi con la cognizione che l'uomo ha di sè stesso, come i principi siano senza eccezione di tempi o di persone, come la perfezione sia ragionata; come la scienza abbia bisogno della rivelazione, non solo per sciogliere i più alti problemi della morale, ma per porli adequatamente.
A proposito di questo scrittore, ci si permetta di notar qui incidentemente una strana parzialità di giudizi. Il Pascal, per avere, in quegli staccati e preziosi appunti, a cui fu dato il titolo di Pensieri, osservati profondamente i mali dell'uomo, è stato le tante volte tacciato d'atrabiliario; e questa taccia non è forse mai stata data all'Helvetius che rappresenta la natura umana sotto l' aspetto il più tristo e desolante. Parzialità tanto più strana in quanto il Pascal, in quelle pagine, non respira che compassione di sè e degli altri, rassegnazione, amore, e speranza; egli riposa ogni tanto con gioia e con calma nel cielo lo sguardo turbato e confuso dalla contemplazione dell'abisso del core umano guasto com'è dalla colpa originale; e le riflessioni dell'Helvetius sono spesso amare, iraconde, insofferenti o d'una crudele festività. L'autore de' Pensieri è atrabiliario perchè dimostra la necessità di rimedi che ci dispiacciono più de' mali: l'autore dello Spirito cerca a ogni inconveniente morale una causa estranea; in vece d'urtare le passioni, le lusinga, insegnando a ognuno a attribuire i vizi alla necessità o all'ignoranza altrui, e non alla propria corruttela.
È stato detto più volte, che il Pascal deprime troppo la ragione umana, e qualche volta pare fino che le neghi ogni autorità, per far più sentire la necessità della fede. E quando pure questa critica abbia un qualche ragionevole motivo, cosa si sarebbe poi dovuto dire di chi, esaltando in apparenza questa ragione, col dichiararla il solo e sovrano giudice della verità, e non trovando però la maniera di spiegare per mezzo di quella i più nobili e anche i più universali sentimenti dell'uomo, la degrada fino a darle l'incarico, grazie al cielo, ineseguibile, di dimostrarli insussistenti.

(39) Domine, ad quem ibimus? verba vitæ æternæ habes. Ioan. VI, 69.

(40) Qui non colligit mecum, dispergit. Luc. XI, 23.

(41) Non potest civitas abscondi sopra montem posita. Matth. V, 14.

(42) Ecclesia Dei vivi, columna et firmamentum veritatis. I ad Timoth. III, 15.

(43) Quoniam mille anni ante oculos tuos tamquam dies hesterna quæ præteriit. Ps. LXXXIX, 4.

(44) ... mundum tradidit disputationi eorum. Eccles: III, 11.

(45) Deum time, et mandata eius observa: hoc est enim omnis homo. Ibid., XII, 13.

(46) Cum autem venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem. Ioan. XVI, 13.

(47) Sine pœnitentia enim sunt dona et vocatio Dei. Ad Rom. XI, 29.

(48) Non ho citata, tra queste, la parola « libertà » o « libero arbitrio », perchè, quantunque il suo significato sia essenzialissimo al concetto della morale, è parola più della scienza, che dell'uso comune. Questo fa, se è possibile, più che pronunziarla, col sottintenderne il valore in ogni approvazione, in ogni biasimo, in ogni giudizio sul merito e sul demerito di qualunque azione e affezione umana. Essendo questa libertà un fatto noto per intima esperienza, l'uomo non scienziato non s'immagina neppure che alcuno lo possa mettere in dubbio; e quindi non ha il bisogno nè l'occasione di rappresentarselo alla mente in astratto, e di nominarlo. E come mai potrebbe immaginarsi una cosa simile, quando sente tutte le persone con cui gli occorre di tener discorso, esprimere, secondo il caso, o l'approvazione, o il biasimo, giudizi che implicano la libertà della scelta? Come potrebbe indovinare che tra quelle persone (giacchè coloro che negano il libero arbitrio, fanno in ciò nè più nè meno degli altri) ce ne siano alcune che tengono una dottrina, secondo la quale ogni approvazione e ogni biasimo sarebbe un giudizio assurdo per sè, e independentemente dalla qualità del caso? La libertà dell'arbitrio è da quell'uomo sottintesa ogni volta ch'egli esprime un giudizio morale: tant'è vero, che se, dopo aver qualificata di scelleratezza un'azione che senta raccontare, gli viene assicurato che l'autore di quella è un pazzo, muta subito il giudizio e il vocabolo, e la chiama disgrazia. Figuriamoci se gli potrebbe venir in mente che ci siano di quelli che, riguardo alla moralità, non ci mettono differenza.

(49) Nolite putare quoniam veni solvere legem aut prophetas: non veni solvere, sed adimplere. Matth. V, 17.

(50) La contradizione c'è bensì in quest'accusa medesima, poichè è fondata su due supposizioni opposte tra di loro, e insieme necessarie all'assunto: cioè che l'ordine morale, relativamente all'uomo, si deva compire in questa vita, e che tutto per l'uomo finisca con la morte. Dico necessarie all'assunto; giacchè, se s'ammette che l'ordine morale non si compisca che al di là di questa vita, e che, per conseguenza, tutto non finisca con la morte, l'accusa cade da sè. Dico poi, supposizioni che, oltre all'essere totalmente arbitrarie, si contradicono. Infatti, il supporre un ordine compito in questa vita, è supporre che l'uomo la passi tutta, non solo nell'integrità dell'innocenza, ma nel perfetto esercizio della virtù; e d'altra parte, il supporre che per l'uomo tutto finisca con la morte, è supporre che quest'uomo, dotato com'è di mente e di volontà e, per una conseguenza necessaria, d'un amore intelligente e illimitato del proprio essere, ne sia spogliato in un dato momento: cioè riceva la più ineffabile pena, in uno stato d'innocenza e di virtù. Non si può negare più apertamente di quello che faccia questa seconda supposizione, l'ordine che è l'oggetto della prima. È poi, nello stesso tempo, la più dimessa confessione d'ignoranza, e la più altera pretensione di sapienza, il dire che non s'intende punto come l'ordine ci sia, e che s'intende benissimo come ci potrebb'essere.

(51) L'illustre autore, dopo aver detto: L'Église s'empara de la morale, aggiunge: comme étant purement de son domaine: parole che non esprimono esattamente la dottrina cattolica, e perciò richiedono un'osservazione. La Chiesa non dice che la morale appartenga puramente (nel senso d'esclusivamente) a lei; ma che appartiene a lei totalmente. Non ha mai preteso che, fuori del suo grembo, e senza il suo insegnamento, l'uomo non possa conoscere alcuna verità morale: ha anzi riprovata quest'opinione più d'una voltar perché è comparsa in più d'una forma. Dice bensì, come ha detto e dirà sempre, che, per l'istituzione che ha avuta da Gesù Cristo, e per lo Spirito Santo mandatole in suo nome dal Padre, essa sola possiede originariamente e inamissibilmente l'intera verità morale (omnem veritatem), nella quale tutte le verità particolari della morale sono comprese; tanto quelle che l'uomo può arrivare a conoscere col semplice mezzo della ragione, quanto quelle che fanno parte della rivelazione, o che si possono dedurre da questa; come fa la Chiesa stessa, con assoluta autorità, nelle nove decisioni che siano richieste da novi bisogni; e come si fa nella Chiesa, con autorità condizionata e sottomessa, da quelli che hanno da essa l'incarico d'istruire i fedeli nella legge di Dio; e come si fa anche da' semplici fedeli medesimi, senza autorità, ma senza usurpazione, quando riconoscano questa mancanza in loro d'ogni autorità, e abbiano l'intenzione sincera di non dipartirsi dagl'insegnamenti della Chiesa, e di sottomettersi in ogni caso a ogni sua decisione.

(52) Quærite primum regnum Dei, et iustitiam eius: et hæc omnia adiicientur vobis. Matth. VI, 33.

(53) Quamdiu fecistis uni ex his fratribus meis minimis, mihi fecistis. Matth. XXV, 40.

(54) Mœurs des Chrétiens 4.me partie, LXIV. Multitude des des Docteurs.

(55) Ego sum Dominus Deus tuus. Exod. XX, 2.

(56) Initium sapientiæ timor Domini. Psal. CX. 10. Eccl. 1, 16. Prov. I, 7. Ibid. IX, 10.

(57) Et ut oppropinquavit, videns civitatem, flevit super illam. Luc. XIX, 41.

(58) Nella tesi sostenuta in Lipsia contro Giovanni Echio, l'anno 1819.

(59) Ideo dixi nullum esse peccatum natura sua veniale, sed omnia damnabilia: quod autem venialia sunt, Dei gratiæ, quæ mognipendenda est, tribuendum est. Luth. Resolutiones super propositionibus suis, Lipsiæ disputatis. Opp. T. I, fol. CCCIIII recto; Witebergæ, 1515. -- La proposizione a cui allude qui, è la seguente: In bono peccare hominem, et peccatum veniale, non natura sua, sed Dei misericordia solum esse tale, aut in puero post baptismum peccatum remanens, negare, hoc est Paulum et Christum semel conculcare. Ibid. fol. CCXLI recto.

(60) Habeant filii Dei, omne peccatum mortale esse; quia est adversus Dei voluntatem rebellio, quæ eius iram necessario provocat; quia est Legis prævaricatio, in quam edictum est, sine exceptione, Dei iudicium; sanctorum delicta venialia esse, non suapte natura, sed quia ex Dei misericordia veniam consequuntur. Calvini, Institutio Christianæ Religionis, cap. III, 90.

(61) Sunt autem quædam quæ levissima putarentur, nisi in Scripturis demonstrarentur opinione graviora. S. August. Enchirid. de Fide, etc., c. 79. Quæ sint autem levia, quaæ gravia peccata, non humano, sed divino sunt pensanda iudicio. Ibid, c. 78.

(62) Non afferamus stateras dolosas, ubi oppendamus quod volumus, et quomodo volumus, pro arbitrio nostro dicentes, hoc grave, hoc leve est: sed afferamus divinam stateram de Scripturis Sanctis, tamquam de thesauris dominicis, et in illa quod sit gravius appendamus, immo non appendamus, sed a Domino appensa recognoscamus. De Baptismo, contra Donatistas. Lib. II, 9.

(63) Delicta quis intelligit? Psal. XVIII, 12.

(64) Justus autem ex fide vivit. Paul. ad Rom. I, 17, e altrove.

(65) Omnis qui odit fratrem suum homicida est. Ioan. Epist. I, III, 15.

(66) Secundum autem (mandatum) simile est illi: Diliges proximum tuum tamquam te ipsum. Maius horum aliud mandatum non est. Marc. XII, 31.

(67) Nos scimus quoniam translati sumus de morte ad vitam, quoniam diligimus fratres. Ioan. Epist. I, III, 14.

(68) 31 Ottobre 1531.

(69) 16 Marzo 1569.

(70) 8 Novembre 1620.

(71) Filioli mei, non diligamus verbo, neque lingua, sed opere et veritate. Ioan. Epist. I, III, 18.

(72) Sic enim Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret. Ioan. III, 16.

(73) Testes deposuerunt vestimenta sua secus pedes adolescentis, qui vocabatur Saulus... Saulus autem erat consentiens veci ejus. Act. Apost. VII, 57, 59.

(74) Non est in alio aliquo salus. Act. Apost. IV, 12.

(75) Vas electionis est mihi iste. Ibid. IX, 15.

(76) Émile, liv. IV, not. 40.

(77) Si enim, cum inimici essemus, reconciliati sumus Deo per mortem Filii eius; multo magis reconciliati, salvi erimus in vita ipsius. Ad Rom. V, 10.

(78) Nescit homo, utrum amore, an odio dignus sit. Eccl. IX, 1.

(79) Domine, ne statuas illis hoc peccatum. Et cum hoc dixisset, obdormivit in Domino. Act. Apost. VII, 59.

(80) Considérations sur la révolution françoise, par Mad. de Staël. Tom. III, pag. 382.

(81) Non tibi vile sit neque contemptibile, fili honorabiliter dilectissime, quod vos rogamus ne occidantur, pro quibus Dominum rogamus ut corrigantur. August. Donato procons. Afr. Epist. C., tom. II, pag. 270, edit. Maur.

(82) Robertson, Storia dell'America. Pisa 1789, vol. II, pag. 421.

(83) Ecce ego mitto vos sicut agnos inter lupos. Luc. X, 3.

(84) Quibus dignus non erat mundus. Ad Hebr. XI, 38.

(85) Tillemont, Saint Ignace.

(86) Rara temporum felicitate, ubi sentire quæ velis, et quæ sentias licere licet. Histor. lib. I.

(87) Actum quem debuisti, mi Secunde, in excutiendis causis eorum, qui Christiani ad te delati fuerant, secutus es. Neque enim in universum aliquid quod quasi certam formam habeat constitui potest. Conquirendi non sunt, si deferantur et arguantur, puniendi sunt; ita tamen, ut qui negaverit se Christianum esse, idque re ipsa manifestum fecerit, id est supplicando diis nostris, quamvis suspectus in præteritum fuerit, veniam ex poenitentia impetret. Sine auctore vero propositi libelli nullo crimine locum habere debent; nam et pessimi exempli, nec nostri sæculi est. Traianus Plinio, in Plin. Epist. X, 98.

(88) Nec mediocriter hæsitavi, sit ne aliquod discrimen ætatum, an quamlibet teneri nihil a robustioribus differant.... nomen ipsum, etiam si flagitiis careat, aut flagitia cohoerentia nomini puniantur. Confidentes iterum ac tertio interrogavi, supplicium minatus: perseverantes duci jussi. Neque enim dubitabam, qualecumque esset quod faterentur, pertinaciam certe et inflexibilem obstinationem debere puniri. -- Alii, ab indice nominati, esse se Christianos dixerunt, et mox negaverunt: fuisse quidem, sed desiisse... Omnes et imaginem tuam, Deorumque simulacra venerati sunt: ii et Christo maledixerunt. Affirmabant autem... se sacramento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta, ne latrocinia, ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum appellati abnegarent. Plinius Traiano Epist. X, 97.

(89) Intraverunt in civitateni Samaritanorum -- et non receperunt eum -- Cum vidissent autem discipuli eius Iacobus et Ioannes, dixerunt: Domine, vis dicimus ut ignis descendat de coelo et consumat illos? Et conversus increpavit illos, dicens: Nescitis cuius spiritus estis. Luc. IX, 52, 53, 51, 55.

(90) Et quicumque non receperit vos, neque audierit sermones vestros; exeuntes foras de domo, vel civitate, excutite pulverem de pedibus vestris. Matth. X, 14.

(91) Defendenda enim est religio, non uccidendo sed moriendo; non sævitia, sed patientia; non scelere, sed fide: illa enim malorum sunt, hæc bonorum. Et necesse est bonum in religione versari, non malum. Nam si sanguine, si tormentis, si malo religione defendere velis, iam non defendetur illa, sed polluetur, atque violabitur. Nihil tam voluntarium quam religio, in qua si animus sacrificantis aversus est, iam sublata, iam nulla est. Lactantii, Divin. Institut. Lib. V, c. XX.

(92) Si quis dixerit sola fide impium justificari, ita ut intelligat nihil aliud requiri, quod ad justifcationis gratiam consequendam cooperetur, et nulla ex parte necesse esse eum suæ voluntatis motu proeparari atque disponi; anathema sit. Sess. VI. De Justificatione, Canon. IX. -- Vana hæc et ab omni pietate remota fiducia. Ibid. Decreturn de Justificatione, cap. IX.

(93) Contritio, quæ primum locum inter dictos pœnitentis actus habet, animi dolor ac detestatio est de peccato commesso, cum proposito non peccandi de coetero... Declarat igitur Sancta Synodus, hanc contritionem, non solum cessationem a peccato, et vitæ novæ propositum, et inchoationem, sed veteris etiam odium contenere... Docet præterea, etsi contritionem hanc aliquando charitate perfectam esse contingat, hominemque Deo reconciliare, priusquam hoc sacramentum actu suscipiatur; ipsam nihilominus reconciliationem ipsi contritioni, sine sacramenti voto, quod in illa includitur, non esse adscribendam. Conc. Trid. sess. XIV, De sacram. pœnit. cap. IV.

(94) Iniuria est Sacramenti, et desperationis machina, non credere absolutionem, dona certa sit contritio. -- De veritate inquirenda, et oneratis conscientiis consolandis. Luth. Opp. Tom. I, fol. LIII, verso.

(95) Contritionem, primam obtinendæ veniæ partem faciunt; eamque debitam exigunt, hoc est iustam et plenam: sed interim non constituunt quando securus aliquis esse possit, se hac contrizione ad iustum modum defunctum esse. Equidem sedulo et acriter instandum esse fateor, ut quisque amare deflendo sua peccata, se ad eorum displicentiam et odium magis acuat... Sed ubi exigitur doloris acerbitas, quæ culpæ magnitudini respondeat, et quæ in trutina appendatur cum fiducia venite; hic vero miseræ conscientim miris modis torquentur et exagitantur, dum sibi debitam peccatorum contritionem imponi vident, nec assequuntur debiti mensuram, ut secum decernere possint se persolvisse quod debebant. Si dixerint faciendum quod in vobis est, eodem semper revolvimur. Quando enim audebit sibi promittere quispiam omnes se vires contulisse ad lugenda peccata? Ubi ergo diu secum luctatæ, et longis certaminibus exercitæ conscientiæ, portum tandem, in quo resideant, non inveniunt; ut se aliqua saltem parte leniant, dolorem a se extorquent, et lacrymas exprimunt, quibus suam contritionem perfaciant. Calvini, Institut. Christ. Relig. III, cap. IV, 2.

(96) Certum est ergo remissa esse peccata, si credis remissa, quia certa est Christi Salvatoris promissio. Luth. Disputationes; Opp. T. I, fol. LIII verso

(97) Ita vides quam dives sit homo Christianus sive baptisatus, qui etiam volens non potest perdere salutem suam, quantiscumque peccatis, nisi nolit credere. Nulla enim peccata cum possunt damnare, nisi sola incredulitas. De captivitate Babylonica Ecclesiæ; Ibid. T. II, fol. 74 verso.

(98) ... Cum Christus ordinarit, ut nullum esset peccatum, nisi incredulitas, nulla iusticia, nisi fides. Ad lib. Ambros. Catharini, Ibid. T. II, fol. 157 recto

(99) Sola enim fides Christi necessaria est ut iusti simus. In Epist. Pauli ad Gal. Commentarius primus. Ibid. T. V, fol. 225 verso.

(100) Iam perspicit lector, quanta aquitate doctrinam nostram hodie sophistæ cavillentur, quum dicimus hominem sola fide iustificari. Fide iustificari hominem, quia toties in Scriptura recurrit, negare non audent, sed quum nusquam exprimatur sola, hanc adiectionem fieri non sustinent. Institut. Christ. Relig. Lib. III, cap. XI, 19.

(101) Ipse enim nolit abscondita cordis. Psalm. XLIII, 22.

(102) Propter quod dico tibi: Remittuntur ei pecata multa, quoniam dilexit multum... Dixit autem ad illam: Remittuntur tibi peccata. Luc. VII, 47, 48.

(103) Histoire des Variations des Églises Protestantes. Liv. I, XI.

(104) Egregia vero salutis fiducia nobis relinquitur, si ad præsens momentum nos esse in gratia, coniectura morali æstimamus, quid in crastinum sit futurum nescimus. Instit. Christ. Rel. III, II, 40.

(105) In summa, vere fidelis non est, nisi qui... divinæ erga se benevolentiæ promissionibus fretus, indubitatam salutis expectationem præsumit. Ibid. 16.

(106) Ut in summa nihil aliud sit spes, quam eorum espectatio, quæ vere a Deo promissa fides credidit. Ibid. 42.

(107) Prohibent capite decimo quarto, ne quis perseverandi constantiam sibi, absoluta certitudine, ex Deo polliceatur; tametsi firmissimam de illa spem in Deo collocari non improbant. Sed nobis primum ostendant quonam cemento coagmentari queant res tantopere dissidentes, firmissima spes, et suspensa expectatio. Antidotum Concilii Tridentini; in sextam sessionem.

(108) Nemo sibi certi aliquid (de perseverantiæ munere) absoluta certitudine polliceatur; tametsi in Dei auxilie firmissimam spem collocare et reponere omnes debent. Deus enim, nisi ipsi illius gratiæ defuerint, sicut c.pit opus bonum, ita perficiet, operans velle et perficere. Conc. Trid. Sess. VI, cap. XIII.

(109) Virtus in infirmitate perficitur. Ad Corinth. 11, XII, 9.

(110) Habemus autem thesaurum istum in vasis fictilibus. Paul. II ad Corinth. IV, 7.

(111) Le Catholicisme, en admettant les pratiques à compenser les crimes, en faisant acheter l'absolution par des aveux, et les faveurs par des offrandes, blessoit trop ouvertement les plus simples notion de la raison, pour pouvoir résister au progrès des lumières. Éducation pratique, trad. de l'anglais par M. Pictet. Genève, de l'imprimerie de la Bibliothèque Britannique. Preface du Traducteur, pag. VIII, e della seconda edizione pag. VII.
Senza dubbio una tal religione urterebbe le nozioni, più semplici della ragione. Ma, supponendo tale il cattolicismo, rimarrebbe da spiegare come tanti intelletti eminenti, quanti esso ne conta, e, ciò che è più, come tutti i cattolici siano indietro delle prime nozioni della ragione. Questa spiegazione però non è necessaria, non stando punto il fatto.
Non ci stenderemo sull'altre due tacce date al cattolicismo, perché non sono direttamente dell'argomento, e perchè implicitamente vengono sciolte anch'esse; giacché le pratiche del culto e l'offerte, con le condizioni delle quali s'è più volte parlato, sono convenientissime al fine di compensare i peccati, e d'ottenere i favori; e senza di quelle non sono nè proposte, nè valutate dalla dottrina della Chiesa. Volendo addurre un novo esempio di dottrine erroneamente apposte alla Chiesa nella materia della penitenza, ho scelto questo tra moltissimi, perchè, in un libro, dove vorrei che tutto fosse concordia e benevolenza, m'è parso bene di citare scrittori ai quali, ribattendo le loro opinioni, si possa dare un attestato di stima sentita e non comune.

(112) Si quis negaverit ad integram et perfectam remissionem requiri tres actus in pœnitente, quasi materiam Sacramenti Pœnitentiæ, videlicet Contritionem, Confessionem, et Satisfactionem... anathema sit. Conc: Trid. sess. XIV, can. IV.

(113) S'insiste particolarmente sulla necessità d'esaminare la dottrina, perché questo esame è ordinariamente omesso, e molti, dopo aver citata una qualche iniquità commessa da de' cattolici, credono d'aver giudicata la religione. Questa strana maniera, di ragionare è usitatissima in tutte le questioni che hanno relazione con la morale. Dove ci sono partiti, ognuno crede d'aver provata la bontà della sua causa, adducendo gl'inconvenienti dell'altra: ognuno paragona tacitamente la causa avversaria con un tipo di perfezione, e non gli è difficile dimostrare che ne sia lontana. Quindi quelle dispute eterne, nelle quali, lasciata indietro la questione essenziale, una parte espone, più o meno esattamente, la metà della questione accessoria, e trionfa; con questo che l'altra parte trionfi dal canto suo, esponendone l'altra metà.
Si citano de' fatti di prepotenza brutale sostenuta dagli usi, o anche dalle leggi; frivolezze tenute in gran conto, e cose importanti trascurate; scoperte del bon senso, o anche del genio, accolte come deliri; insistenze lunghissime degli uomini più accreditati, verso qualche scopo insensato, e sbaglio anche ne' mezzi per arrivarci; bone azioni cagione di persecuzione, e azioni triste, cagione di prosperità, ecc., ecc., e si conclude dicendo: « Ecco il buon tempo antico; » e se ne cava argomento per ammirare lo spirito de' tempi moderni. Da un'altra parte s'adducono imprese principiate in nome della giustizia e dell'umanità, e consumate col più tracotante arbitrio e con la più orribile ferocia; passioni preconizzate come un mezzo di perfezionamento individuale e sociale; la sapienza riposta da molti nella voluttà, e la virtù nell'orgoglio; e anche qui, come sempre e per tutto; la persecuzione della virtù e il trionfo del vizio, ecc., ecc., e si conclude dicendo: « Ecco il secolo de' lumi; » e si danno queste come bone ragioni per desiderare i tempi andati. Ammirazione e desiderio in cui si sprecano tanti pensieri che si potrebbero consacrare allo studio della perpetua corruttela dell'uomo e de mezzi veri per rimediarci, e all'applicazione di questa cognizione a tutte l'istituzioni e a tutti i tempi.
Queste riflessioni non si danno qui come recondite, ma come trascurate.

(114) Iustitia iusti non liberabit eum in quacunque die peccaverit; et impietas impii non nocebit ei in quacumque die conversus fuerit ab impietate sua.... Si autem dixero impio: morte morieris; et egerit panitentiam a peccato suo, feceritque iudicium et iustitiam, et pignus restituerit ille impius, rapinamque reddiderit, in mandatis vitæ ambulaverit, nec fecerit quidquam iniustum; vita vivet, et non morietur. Omnia peccata eius, quæ peccavit, non imputabuntur ei: iudicium et iustitiam fecit, vita vivet. Ezech. XXXIII, 12, 14, 15, 16. Vegg. pure il cap. XVIII, 21 e seg.

(115) Et vos estote parati: quia, qua hora non putatis, Filiushominis veniet. Luc. XII, 40.

(116) Videte itaque, fratres, quomodo caute ambuletis; non quasi insipientes, sed ut sapientes; redimentes tempus ... Ad Eph, V, 15, 16.

(117) Quapropter, fratres, magis satagite, ut per bona opera certam vestram vocationem et electionerre faciatis. II Petr. I, 10.

(118) Bossuet, Oraison fanèbre d'Anne de Gonzague.

(119) Bourdaloue, Sermon pour le lundi de la 2.e semaine du Carême, sur l'impénitence finale.

(120) Massillon, Sermon pour le lundi de la 2.e semaine, sur l'impénitence finale.

(121) Segneri, Predica XI.

(122) È noto che clinici furono chiamati quelli che, quantunque persuasi della verità del cristianesimo, continuavano a vivere gentilescamente, per non assoggettarsi al suo giogo, e proponevano di ricevere il battesimo in punto di morte.

(123) Non tardes converti ad Dominum, et ne differas de die in diem. Ecclesiast. V, 8.

(124) Venite, adoremus, et procidamus, et ploremus ante Dominum... Hodie si vocem eius audieritis, nolite obdurare corda vestra. Ps. XCIV, 6, 8.

(125) Quapropter contestor vos hodierna die, quia mundus sum a sanguine omnium. Paul. in Act. Apost. XX, 26.

(126) J. J. Rousseau, Émile. liv. 1V, not. 41,

(127) Lavamini, mundi estote, auferte malum cogitationum vestrarum ab oculis meis: quiescite agere perverse; discite benefacere; quærite iudiciutn, subvenite oppresso, iudicate pupillo, defendite viduam.Isai. I, 16, 17.

(128) Massillon, Discours Sinodaux, XIII, De la compassion des pauvres.

(129) Cum catholica ecclesia, Spiritu sancto edotta, ex sacris litteris et antiqua Patrum traditione, in sacris conciliis, et novissime in hac æcumenica synodo, docuerit purgatorium esse, animasque ibi detentas fedelium suffragiis, potissimum vero acceptabili altaris sacrificio iuvari; præcipit sancta synodus episcopis, ut sanam de purgatorio doctrinam, a sanctis patribus et a sacris conciliis traditam, a Christi ftdelibus credi, teneri, doceri et ubique prædicari diligenter studeant. -- Ea vero quæ ad curiositatem quamdam aut superstitionem spectant, vel turpe lucrum sapiunt, tamquam scandala et fidelium offéndicula pruhibeant.Conc. Trid. sess. XXV: Decret. de Purgatorio.

(130) Oltre il discorso citato, vedi il IX : De l'avarice des prêtres.

(131) Thesaurizate autem vobis thesauros in cœlo, ubi neque ærugo, neque tinea demolitur. Math. VI, 20.

(132) Et illi quidem ibant gaudentes a couspectu concilii, quoniam digni habiti sunt pro nomine Jesu contumeliam pati. Act. Apost. V, 41.

(133) Aggiunta all'Esposizione della dottrina cristiana, cavata dal Catechismo romano, ecc. Dell'Indulgenze.

(134) Exposition de la doctrine de l'Église catholique, § VIII.

(135) Non si deve qui intendere una conformità perfetta e d'ogni momento, che escluda ogni mancamento il più leggiero; la qual perfezione non è concessa ad alcuno de' discendenti d'Adamo, se non per un dono specialissimo, come fu della Madre del Salvatore. Bisogna qui rammentarsi la distinzione tra le colpe gravi, che fanno perdere la grazia di Dio, e le veniali; distinzione ammessa, in altri termini, dal'illustre autore, come dal senso comune. Vedi il Cap. VI.

(136) Ibid.

(137) Dante, Purgatorio, II, 95.

(138) Sacrosancta Sinodus... in his (indulgentiis) tamen concedendis moderationem, juxta veterem et probatam in Ecclesia consuetudinem, adhiberi cupit; ne nimia facilitate ecclesiastica disciplina enervetur. Sess. XXV. Decr. de Indulg.

(139) Procul dubio enim magnopere a peccato revocant, et quasi, freno quodam coercent hæ satisfactoriæ pœnæ, cautioresque et vigilantiores in futurum pænitentes efficiunt... et vitiosos habitus male vivendo comparatos contrariis virtutum actionibus tollunt. Sess. XIV, cap. VIII. De satisfactionis necessitate ac fructu.

(140) Quod ergo suis satisfactionibus promereri se imaginantur reconciliationem cum Deo (questo s'è già detto esser falso), pœnasque redimere ipsius iudicio debitas execrabilem esse blasphemiam, fortiter, sicuti est, asseveramus. Calv., De necessitate reformandæ Eccles.

(141) Quando ipse solus est Agnus Dei, solus quoque oblatio est pro peccatis, solus expiatio, solus satisfactio ... Honor ille quem sibi rapiunt qui Deum placare tentant suis compensationibus. Id. Instit. III, IV, 26.

(142) Ita non habet homo unde glorietur, sed omnis gloriatio nostra in Christo est; in quo vivimus, in quo meremur, in quo satisfacimus. Conc. Trid. Sess. XIV, cap. 8.

(143) Adimpleo ea, quæ desunt passionum Christi, in carne mea. Ad Coloss. 1, 24.

(144) Dicit ergo (Paulus) hoc restare passionum Christi, quod in seipso semel passus, quotidie in membris suis patitur. Eo nos honore dignatur Christus, ut nostras afflictiones suas reputet ac ducat. Instit. III, V, 4.

(145) ... ut integer et illibatus suus honor Christo servetur. Ibid. IV, 27.

(146) Omnia possum in eo qui me confortat. Ad Philip. IV, 13.

(147) Quorum remiseritis peccata, remittuntur eis; et quorum retinueritis, retenta sunt. Ioan. XX, 23.

(148) Ecce non est abbreviata manus Domini, ut salvare nequeat. Isai. LIX, 1.

(149) Ezech. loc. cit.

(150) Cum metu et tremore vestram salutem operamini. Paul. ad Philip. II, 12.

(151) Fidelis autem Deus est, qui non patietur vos tentari supra id quod potestis. Paul. I, ad Corinth. X, 13.

(152) Confidens hoc ipsum, quid qui coepit in vobis opus bonum, perficiet usque in diem Christi Iesu. Paul. ad Philip. 1, 6.

(153) Pone, Domine, custodiam ori meo. Ps. CXL, 3.

(154) È evidente che l'illustre autore non ha inteso di parlare puramente di quelli che, in senso stretto, e nel linguaggio catechistico, si chiamano Comandamenti della Chiesa; ma del complesso delle pratiche o comandate, o approvate da essa; e in questo senso li prenderemo anche noi.

(155) Si autem Ecclesiam non audierit, sit tibi sicut ethnicus, et publicanus. Matth. XVIII, 17.

(156) Non si dimentichi la distinzione tra le trasgressioni mortali e le veniali, la quale s'applica naturalmehte a' comandamenti della Chiesa, come a quelli di Dio.

(157) Quicumque autem totam legm servaverit, offendat autem in uno, factus est omnium reus. Jac. II, 10.

(158) Abrégé de l'Histoire de France. Liv. XII. Année 1472.

(159) Massillon, Sermon du jeudi de la II semaine de Caréme. Le mauvais riche.

(160) « La legge non ordinava di pagar la decima dell'erbe più minute. » Mons. Martini, in nota al passo citato.

(161) Væ vobis, Scribæ et Pharisæi hypocritæ, qui decimatis mentham et anethum et cyminum, et reliquistis quæ graviora sunt legis, iudicium, et misericordiam, et fidem: hæc oportuit facere, et illa non omittere. Matth. XXIII, 23.

(162) Nolite errare... neque maledici... regnum Dei non possidebunt. I Corinth. VI, 9, 10.

(163) Non maledices surdo. Levit. XIX, 14.

(164) V. per un esempio il Sermone di Massillon sulla maldicenza: è quello del lunedì della IV settimana.

(165) Si vis perfectus esse, vade, vende quæ habes, et da pauperibus, et habebis thesaurum in cœlo. Matth. XIX, 21.
Facite vobis amicos de mammona iniquitatis, ut, cum defeceritis, recipiant vos in æterna tabernacula. Luc. XVI, 9.
Tunc dicet Rex his qui a dextris eius erunt: Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi: esurivi enim, et dedistis mihi manducare; sitivi, et dedistis mihi bibere; hospes eram, et collegistis me; nudus, et cooperuistis me; infirmus, et visitastis me, in carcere eram, et venistis ad me... quamdiu fecistis uni ex fratribus meis minimis, mihi fecistis. Matth. XXV, 34 et seq.

(166) Non est enim ei bene qui assiduus est in malis, et eleemosynas non danti. Eccl. XII, 3.

(167) Benefacit animæ suæ vir misericors. Prov. XI, 17.

(168) Per questa ragione, si chiamano spesso indifferentemente, santi, o beati, quelli che possiedono la vita eterna.

(169) Pietas autem ad omnia utilis est, promissionem habens vitæ quæ nunc est, et futuræ. I Tim. IV, 8.

(170) Non pas méme sur les joies du Paradis, quoique ces joies du Paradis ne soient autre chose que le comble, la surabondance, la perfection de l'amour de Dieu! Bossuet Instruction sur les états d'oraison, III, 5; dove confuta la strana proposizime, che un'anima arrivata, nella vita presente, a un certo grado di perfezione, est dans une si entière désappropriation, qu'elle ne sauroit plus arréter un seul dèsir sur quoi que ce soit.

(171) Tale fu, come è noto, la dottrina sulla quale disputarono il Fenélon e il Bossuet. Il nome de' due gran contendenti ha attirata spesso l'attenzione de' loro posteri su questa controversia; e i giudizi che se ne fecero, sono molti e vari: il meno sensato di questi mi pare quello che la dichiara una questione frivola.
Questa è l'idea che ne volle dare il Voltaire (Siècle de Louis XIV, Chap. XXXVIII, du Quétisme). Certo, se ogni ricerca sulle ragioni di volere, e sui doveri, e sul modo di ridurre tutti i sentimenti dell'animo a un centro di verità, si riguarda come frivola, tale sarà anche questa, poiché è di quella categoria. Ma in quel caso, quale studio sarà importante all'uomo? I filosofi che vennero dopo il Voltaire continuarono a trattar questo punto di morale, benchè in altri termini, e lo considerarono come fondamenrale (V. tra gli altri « Woldemar par Jacobi, trad. de l'allemand par Ch. Wanderbourg. » T. I, pag. 151 e seg.). Le controversie sulla relazione dell'interesse con la morale, sull'amore della virtù per sè stessa, si riducono, nella parte essenziale a quella del Quietismo; a decidere cioè, se il motivo della propria felicità deva entrare nelle determinazioni virtuose. Senonchè, nelle dispute su questa materia, chiamate a torto filosofiche, nelle quali non si contempla che la vita presente, la questione è necessariamente piantata in falso: poichè, o c'è supposto tacitamente che non ci sia un'altra vita, o, ammettendola, almeno come possibile, non se ne fa caso: due modi di ragionare, de' quali non si saprebbe dire qual sia il più arti-filosofico. Nella disputa teologica di cui s'è fatto cenno, l'errore aveva qualcosa di più strano, appunto perchè la questione era posta nella sua integrità. Quest'errore, confutato dal Bossuet con quella sua sapiente eloquenza, non tendeva niente meno che a metter l'amor di Dio in opposizione con una legge necessaria dell'animo, qual è il desiderio della felicità, e a far posporre la perfezione possibile, e promessa, a una perfezione arbitraria e assurda. È inutile aggiungere che queste conseguenze erano ben lontane dall'intenzioni del Fénelon. La sua pronta e costante sommissione alla condanna delle sue proposizioni, l'altre sue opere, e tutta la sua vita sono una prova della sincerità con cui non cessò mai di protestare che non intendeva, nè di proporre, nè d'accettare cosa alcuna che deviasse menomamente dalla fede della Chiesa.

(172) Maiores divitias æstimans thesauro Ægyptiorum, improperium Christi: aspiciebat enim in remunerationem. Paul. ad Hebr. XI, 26.

(173) Ut sit eleemosina tua in abscondito; et Pater tuus, qui videt in abscondito, reddet tibi. Matth. VI, 4.

(174) De quo non implevit manum suam qui metit. Psal. CXXVIII, 7.

(175) Misereor turbæ, quia triduo jam perseverant mecum, et non habent quod manducent; et dimittere eos jejunos nolo, ne deficiant in via. Matth, XV, 32.

(176) Vita della virtuosa matrona milanese, Teresa Trotti Bentivogli Arconati; pag. 82.

(177) Il Cristiano istruito. Parte I. Ragionamento 18°.

(178) Méditations sur l'Évangile; Sermon de Notre Seigneur sur la montagne, XLVIII jour.

(179) Abstulerunt ergo filii Israel Baalim, et Astaroth, et servierunt Domino soli.... et jéjunaverunt in die illa. I Reg. VII, 4, 6.
Astaroth, greges, sive divitiæ; Baalim, idola, dominantes. Nominum interpretatio in Bibl. jussu cler. gallic. edita. Paris, Vitré, 1652.

(180) Et præedicavi ibi jejunium juxta fluvium Ahava, ut affligeremur coram Domino Deo nostro, et peteremus ab eo viam rectam nobis et filiis nostris, universæque substantiæ nostræ. I Esdr. VIII, 21.

(181) Cum autem jejunans, nolite fieri sicut hypocritæ tristes: exterminant enim facies suas, ut appareant hominibus jejunantes. Amen dico vobis, quia receperunt mercedem suam. Tu autem, cum jejunas, unge caput tuum, et faciem tuam lava; ne videaris ab hominibus jejunans, sed Patri tuo: et Pater tuus, qui videt in abscondito, reddet tibi. Matth. VI, 16, 17, 18.

(182) Tunc jejunantes et orantes, imponentesque eis (Saulo et Barnabæ) manus dimiserunt illos. Act. XIII, 3.

(183) Sermon sur le jeûne. È il primo della Quaresima

(184) Fleury, M.urs des Chrétiens. IX. Jeûnes.

(185) Omnis autem, qui in agone contendit, ab omnibus se abstinet; et illi quidem, ut corruptibilem coronam accipiant; nos autem incorruptam. I Cor. IX, 2

(186) De virginibus autem prceceptum Domini non habeo; consilium autem do, tamquam misericordiam consecutus a Domino, ut sim fidelis. Existimo ergo hoc bonum esse propter instantem necessitatem, quoniam bonum est homini sic esse. Alligatus es uxori? noli quærere solutionem. Solutus es ab uxore? noli quærere uxorem. I Cor. VII; 25, 26, 27.

(187) Essai sur l'entendement humain. Livr. III, Chap. X. De l'abus des mots. § 22.

(188) Quis enim te discernit? Quid autem habes, quod non accepisti? Si autem accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis? I Corinth. IV, 7.

(189) Quoniam raptus est in Paradisum, et audivit arcana verba, quæ non licet homini loqui. II Corinth. XII, 4

(190) Et ne magnitudo revelationum extollat me, datus est mihi stimulus carnis meæ, angelus Satanæ, qui me colaphizet. Ibid. 7.

(191) Video autem aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meæ. Rom. VII, 23.

(192) Levavi oculos meos in montes, unde veniet auxilium mihi. Ps. CXX, 1.

(193) Quos præscivit, et prædestinavit conformes fieri imaginis Filii sui. Ad Rom. VIII, 29.

(194) Tu humiliasti, sicut vulneratum, superbum.Ps. LXXXVIII, 11.

(195) Confessions, II Partie, Liv. IX.

(196) Quod dico vobis in tenebris, dicite in lumine; et quod in aura auditis, prædicate super tecta. Matth. X, 27.

(197) Euntes ergo docete omnes gentes... docentes eos servare omnia quæcumque mandavi vobis. Id. XXVIII, 19, 20.

(198) Dirumpamus vincula eorum, et projiciamus a nobis jugum ipsorum. PS. II, 3.

(199) C.cus si c.co ducatum pr.stet, ambo in foveam cadunt. Matth. XV, 14.

(200) Vos estis sal terree. Matth. V. 13.

(201) Quoniam judicas populos in æquitate. Psalm. LXVI, 5

(202) Bentham, Deontology, etc. Deontologia, ovvero Scienza della moralità, etc. Part. I, Cap. I.

(203) Traités de Législation civile et pénale, extraits des manuscrits de J. Béntham, par Et. Dumont; Principes de Législation, Chap. V. -- Un altro scrittore, celebre, e meritamente per più d'un titolo, G. B. Say, ripeté e fece sua quella strana interpretazione. Essai sur le Principe de l'Utilité, § 1.
Non si potrebbe poi attribuire se non a un grosso inganno della memoria, quel far ricavare una nozione confusa dell'utile, come opposto all'onesto, dalla lettura degli Ufizi di Cicerone, dove quel fatto non è citato; che per cavarne la conseguenza contraria: Maneat ergo, quod turpe sit, id numquam esse utile. III, 12. E nella conclusione di quel terzo libro, in cui si tratta appunto delle relazioni dell'utile con l'onesto: Utilitatem nullam esse docuimus, quæ honestati esset contraria, 35.

(204) Naturam expellas furca, tamen usque recurret. Horat. I Epist. X, 24.

(205) De Tracy, Élémens d'ideologie, Tome V: Seconde partie du Traité de la volonté: De nos sentimens et de nos passions, ou Morale; Chap. I.
E scambievolmente si dovrebbero, stando a quella massima, giudicare immuni da ogni immoralità altre azioni, delle quali si può ugualmente asserire con tutta sicurezza che i sostenitori della massima porteranno un giudizio opposto. Vediamone anche qui la prova in un esempio. Un uomo ben diverso dal dissodatore di poco fa, si propone d'avvelenare due galantuomini che gli danno noia; a uno dà effettivamente del veleno; all'altro, per uno sbaglio fortunato, amministra una sostanza innocua, o anche salutare. Ecco due effetti passabilmente diversi: trovatemi l'uomo che, per mantenersi coerente alla massima, giudichi diversamente le due azioni, chiamando immorale la prima, e l'altra no.
Applicata poi a' sentimenti, quella massima fa necessariamente la stessa riuscita, ma con qualcosa di specialmente strano, in quanto, potendo i sentimenti non produrre alcun effetto, la morale, in questo caso, non avrebbe nulla a dire intorno ad essi. Un uomo, in punto di morte, desidera in cor suo, con un odio disperato, la rovina d'un innocente; un altro, nello stesso stato, con una benevolenza pietosa, ne desidera la salvezza: dov'è, dirò ancora, il partigiano di quella dottrina, il quale dica, pensi, sogni, che que' due sentimenti, perchè privi d'effetto, non possano esser chiamati né morali nè immorali?

(206) Se crediamo a un celebre moralista antico, citato da Plutarco, e a Plutarco medesimo, Aristide avrebbe professata e messa in pratica anche la massima opposta a quella che è sottintesa nel giudizio che diede del progetto di Temistocle. Ecco il passo di Plutarco nella vita d'Aristide, secondo la traduzione del Pompei.
« Aristide fece poi giurar gli altri Greci intorno alle convenzioni dell'alleanza, ed egli stesso giurò a nome degli Ateniesi, e fatte le imprecazioni contro chi violasse quel giuramento, gittò roventi masse di ferro nel mare. Ma in progresso di tempo, costretti venendo gli Ateniesi dalla qualita degli affari » quale abuso di parole! gli affari che costringono la volontà « ad usar un alquanto più autorevol dominio, esortò gli Ateniesi stessi a rivolgere tutto lo spergiuro sopra di lui medesimo, dove tornasse meglio governar le faccende in diversa maniera di quella che avevan giurata. Teofrasto però, generalmente parlando di quest'uomo, dice che, quantunque egli in tutte le cose domestiche, e ne' particolari negozi dé cittadini, giusto fosse al maggior segno, pure negli affari pubblici molte cose faceva secondo la costituzione e le circostanze della patria sua, come se queste esigessero che frequentemente usar si dovesse ingiustizia. Conciossiachè raccontasi da quello scrittore, che, consultandosi intorno al trasportare i danari delle pubbliche contribuzioni da Delo ad Atene, ed essendo que' di Samo che ciò insinuavano, egli disse che la cosa non era veramente giusta, ma utile. »
Ecco un ma che fa un ufizio ben diverso da quello dell'altra volta. E è veramente singolare che Plutarco, il quale riferisce nella Vita medesima, e il consiglio dato a proposito del progetto di Temistocle, e quest'altri due, non abbia avuto nulla a dire di una contradizione tanto enorme. E più singolare ancora, che da Plutarco in poi, si sia continuato a citare e a celebrare quel primo consiglio, come una prova della severa e segnalata moralità d'Aristide, e a chiamar anche costui, all'occorrenza, il giusto per antonomasia, come se la storia, vera o falsa, non riferisse di lui altro che quello.

(207) Qui de tenebris vos vocavit in admirabile lumen suum. Petr. I Epist. II, 2, 9.

(208) Et si coram hominibus tormenta passi sunt, spes illorum immortalitate plena est. Sap. III, 4.

(209) Expectatio iustorum lætitia. Prov. X, 28. -- Spe gaudentes. Rom. XII, 12.

(210) Spes autem non confundit; quia charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum, qui datus est nobis. Ibid. V, 5.

(211) Pax Dei, quæ exsuperat omnem sensum. Philip. IV, 7.

(212) Sicut abundant passiones Christi in vobis, ita et per Christum abundat consolatio nostra. II Corinth. I, 5. Quasi tristes, semper autem gaudentes. Ibid. VI, 10.

(213) Esprit des lois. Liv. XXIV, Chap. 3.

(214) Diliges proximum tuum sicut teipsum. Matth. XIX, 19.

(215) Omnia quæcumque vultis ut faciant vobis homines, et vos facite illis. Matth. VII, 12.

(216) Traités de Législation civile et pénale, extraits des manuscrits de J. Bentham, par Èt. Dumont; Principes de Législation, Chap. I.

(217) Deontology, etc. Deontologia, ovvero della Scienza Morale, ecc. Parte I, Cap. I.

(218) Ibid.

(219) V. Rosmini, Filosofia del Diritto; Sistema morale, Sez. I, VII.

(220) Subito dopo gli argomenti contro l'idea d'obbligazione che abbiamo esaminati, aggiunge: È infatti una cosa affatto inutile il parlar di doveri; il vocabolo stesso ha in sè qualcosa di disaggradevole e di repulsivo: e per quanto ci si parli sopra, non diventerà mai regola di condotta. È evidente che qui dovere sottentra come sinonimo a obbligazione.
Questo vocabolo « dovere » si trova anche nel titolo dell'opera che citiamo: Deontologia, ovvero Scienza della morale: in cui è dimostrata e esemplificata l'armonia del dovere con l'interesse proprio, ecc.

(221) J. B. Say, Essai sur le principe de l'utilité, § I.

(222) Joan. Apoc. III, 1.

(223) Terent. Eun. I, I, 4.

(224) Eritis sicut dii. Genes. III, 5.

(225) Vos nescitis quidquam, nec cogitatis quia expedit vobis ut unus moriatur homo pro populo. Joan. XI, 49, 50.

(226) Tra gli scrittori che presero l'utilità per norma suprema de' loro giudizi nelle cose politiche, toccò al Machiavelli il tristo privilegio di dare il suo nome, in più d'una lingua, a una tale dottrina; anzi a una sola e speciale applicazione di essa; giacché i vocaboli derivati da quel nome furono destinati a significare esclusivamente l'uso della perfidia e, a un bisogno, della crudeltà, al fine di procurare l'utilità o d'uno, o d'alcuni, o di molti. Il giudizio implicito in que' vocaboli non è vero che in parte. Il Machiavelli non voleva l'ingiustizia, sia astuta, sia violenta, come un mezzo nè unico, nè primario, ai fini proposti. Voleva l'utilità, e la voleva, o con la giustizia, o con l'ingiustizia, secondo gli pareva che richiedessero i diversi casi. E non si può dubitare che il suo animo non fosse inclinato a preferire la prima. Senza ricorrere al testimone della sua condotta, e come politico, e come privato, la cosa appare da' suoi scritti medesimi: poichè, se nel lodare o nel consigliare l'ingiustizia, è sottile; nel maledirla, e nel lodare e consigliare il contrario, è anche eloquente e qualche volta affettuoso. Ne è un bel saggio il capitolo X del libro I de' Discorsi sulle Deche di T. Livio, che ha per titolo: « Quanto sono laudabili i fondatori d'una repubblica o d'un regno, tanto quelli d'una tirannide sono vituperabili. »
Più lontana dal vero, per tutti i versi, fu certamente l'opinione d'alcuni, i quali non videro delle massime inique, che in una sola opera del Machiavelli, cioè nel Principe; e per giustificarne l'autore, dissero che in quel libro non s'era proposto d'esporre i suoi veri sentimenti, ma di dare de'consigli pessimi a' dominatori della sua repubblica, per farli cadere in un precipizio. Da una parte, la scusa sarebbe troppo peggiore del fallo. Strana maniera di purificare un insegnamento perverso, il farlo diventare anche un'impostura e un agguato! E strana retribuzione quella che dovesse portar rovina e infamia ai discepoli, lode e trionfo al maestro! Dall'altra parte, basta scorrere i Discorsi sulle Deche, per trovarci non di rado lodata e consigliata l'ingiustizia supposta utile. Così, dopo avere, nel Cap. XXI del libro III, mostrato con vari esempi, e segnatamente con quello di Scipione, quanto possano tornar utili, nelle cose di Stato, « gli atti d'umanità, di pietà, di castità, di liberalità, » passa l'autore, nel capitolo seguente, a cercare come mai Annibale abbia potuto, « con modi tutti contrari, cioè con violenza, crudeltà, rapina e ogni ragione d'infedeltà, fare il medesimo effetto in Italia che aveva fatto Scipione in Spagna; » e trova che l'una e l'altra di queste due condotte ha i suoi vantaggi e i suoi inconvenienti; e conchiude, « come non importa molto in qual modo un capitano si proceda, purchè in esso sia virtù grande che condisca bene l'uno e l'altro modo di vivere; perché, com'è detto, nell'uno e nell'altro è difetto e pericolo, quando da una virtù straordinaria non sia corretto. » E chi non sapesse che, per virtù, il Machiavelli, intende abilità e forza d'animo, non saprebbe raccapezzarsi come la virtù abbia a condire la violenza e quell'altre cose simili. E per citarne un altro esempio solo, nel Cap. XIII del libro II vuol dimostrare che « la fraude fu sempre necessaria ad usare a coloro che da piccoli principii vogliono a sublimi gradi salire; la quale è meno vituperabile, quanto è più coperta. » E qui, se non m'inganno, si vede il perchè, nel Principe, dedicato a Lorenzo de' Medici, che era appunto in un tal caso (e la dedica lo accenna), la fraude abbia molta più parte che ne' Discorsi.
Un così brutto mescuglio negli scritti d'un così grande ingegno non venne da altro che dall'aver lui messa l'utilità al posto supremo che appartiene alla giustizia. E quante mirabili cose non ci sono come offuscate da una troppo diversa compagnia! Quanta sagacità nel discernere e nel connettere le cagioni degli avvenimenti, nel vedere la concordanza o il contrasto tra gl'intenti degli uomini e la forza delle cose! Quanti consigli nobilmente avveduti, quanti umani e generosi intenti, in tutti quegli scritti, ogni volta che la giustizia c'è, o rettamente predicata, o semplicemente sottintesa! E che mirabile e feconda unità non si sarebbe formata ne' concetti di quella mente, se quello della giustizia ci avesse sempre tenuto, o nell'una o nell'altra maniera, il suo posto.

(227) L'opera del Godwin, che fu, se non m'inganno, la prima di questo genere, tra le moderne, che abbia avuta celebrità, porta quella parola nel titolo medesimo: Inquiry concerning political justice, etc. Ricerche intorno alla giustizia politica, e alla sua influenza sulla felicità. Londra, 1793.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Opere di Alessandro Manzoni", a cura di Lanfranco Caretti, Ugo Mursia editore, Milano, 1973







Alessandro Manzoni - Opera Omnia  -  a cura de ilVignettificio  -  Privacy & cookie  -   SITI AMICI: ilCorniglianese

w3c xhtml validation w3c css validation