Alessandro Manzoni - Opera Omnia >>  A Parteneide




 

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E tu credesti che la vista sola
Di tua casta bellezza innamorarmi
Potente non saria, che anco del suono
Di tua dolce parola il cor mi tenti,
Vergine Dea? Col tuo secondo Duca
Te vidi io prima, e de le sacre danze
O dimentica o schiva; e pur sì franco,
Sì numeroso il portamento, e tanto
Di rosea luce ti fioriva il volto,
Che Diva io ti conobbi, e t'adorai.
Ed ei sì lieto ti ridea, sì lieta
D'amor primiero ti porgea la destra,
Di sì fidata compagnia, che primo
Giurato avrei che per trovarti ei l'erta
Superasse de l'Alpe, ei le tempeste
Affrontasse del Tuna, e tremebondo
Da la mobil Vertigo, e da l'ardente
Confusion battuto in sul petroso
Orlo giacesse. Entro il mio cor fean lite
Quegli Avversarj che van sempre insieme
Riverenza ed Amor ma pur sì pio
Aprivi il riso, e non so che di noto
Mi splendea ne' tuoi guardi, che Amor vinse,
E m'appressai securo. E quel cortese,
Di cui cara l'immago ed onorata
Sarammi infin che la purpurea vita
M'irrigherà le vene, a me rivolto,
Con gentil piglio la tua man levando,
Fea d'offrirmela cenno. Ond'io più baldo
La man ti stesi; ma tremò la mano
E il cor: che tutto in su la fronte allora
Vidi il dio sfolgorarti, e" tosto in mente
Chi sei mi corse, ed in che pura ed alta
Aria nutrita, ed a che scorte avvezza.
Mesto allor la tua vista abbandonai;
Ma l'inquieto immaginar, che sempre
Benché d'alto caduto in alto aspira,
Sovra l'aspro sentiero a vol si mosse
Del tuo viaggio, e a te fidato al sommo
Stette de l'Alpe, e si librò securo
Sovra i vestigi e i desiderj umani.
Poi riverito il tuo celeste nido,
«Di pensiero in pensier, di monte in monte»
Seguitando il desio, ver la mia sacra
Terra drizzai le penne, ed i cognati
Reti Giganti valicando, alfine
Vidi l'Orobia valle. Ivi un portento
Al mio guardar s'offerse; una indistinta
Aeria forma; or si movea qual pura
Nuvoletta d'argento, ed or di neve
Fiocco parea che un bel cespuglio vesta.
Ma pur l'immagin bella e fuggitiva
Tanto con l'occhio seguitai, che vera
Alfin m'apparve, a te simile alquanto
Vergin né tocca né veduta ancora,
E d'ìmmortal concepimento anch'olla.
Non tenea scettro, non cingea corona,
Se non di fiori; e sol di questi vaga,
Fra i color mille, onde splendea distinta
La verdissima piaggia, or la viola,
Or la rosa sceglieva, or l'amaranto,
Tal che Matelda rimembrar mi feo,
Qual la vide il divin nostro Poeta
Ne l'alta selva da lui sol calcata.
Ed ecco alfin del mio venire accorta
Volger le luci al pellegrin parea
Piene di maraviglia, e la rosata
Faccia levando, mi parea guardarlo,
E sorridere a lui come si suole
Ad aspettato. E quando io de la diva
Bellezza innebriato, e del gentile
Atto, con l'ali de la mente a lei
Appressarmi tentai, se udir potessi
Come in cielo si parla, affaticate
Caddero l'ali de la mente, e al guardo
Tacque la bella vision. Ma sempre
Da quel momento la memoria al core
Di lei ragiona. E quando in sul mattino
Leve lo spirto dal sopor si scioglie,
(Allor per l'aria de' pensier celesti
Libero ei vola, e da le basse voglie
De la vita mortal quasi il divide
Un deserto d'obblio), sempre in quell'ora,
Più che mai bella quell'eterea virgo
Mi vien dinnanzi. Or d'oro e d'onor vani
Nessun mi parli: un solo amor mi regge,
Solo una cura; de gli Orobj dorsi
Rivisitar l'asprezza, e questa Diva,
Deh! mel consenta! accompagnar primiero
Per le Italiche ville pellegrina.
Che se l'evento il mio sperar pareggia,
Se né la vita, né l'ardir mi falla,
Forse più ardito condottier già fatto
Ti piglierò per mano, e come valgo,
Maraviglia gentile a la mia sacra
Italia io mostrerotti, a quella augusta
D'uomini Madre e d'intelletti, augusta
Di memorie nutrice e di speranze.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Alessandro Manzoni - Poesie", a cura di Ferruccio Ulivi, Arnoldo Mondadori Editore, Roma, 1985







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