Critica - Opera Omnia >> La genesi e la formazione dei Promessi sposi |
ilmanzoni testo integrale brano completo citazione delle fonti commedie opere letterarie in prosa parafrasi traduzione ---- LA GENESI ETICO-RELIGIOSA CAPITOLO I. Presupposti e fondamenti dell'etica manzoniana I. L'uomo e la Rivelazione. -- II. L'etica pagana e il cristianesimo. -- III. Lo spirito del secolo e il Vangelo. -- IV. La religione e le leggi. La costruzione d'un mondo cosi vasto e complesso, come sono i Promessi sposi, ha necessariamente una sua intima storia morale ed intellettuale e sue ragioni, della medesima specie, essenziali e profonde. Analizzarle e chiarirne il significato e la portata ne' riflessi di quel mondo così ricco d'umanità e di poesia è opportuno avviamento all'indagine e alla valutazione di quei motivi e problemi e molteplici aspetti della vita umana, che, attraverso un lungo e tenace studio di meditazione morale e di elaborazione artistica, hanno ricevuto carattere ed espressione di concreta vitalità nella forma definitiva dell'opera: motivi e problemi che presuppongono talune idee cardinali della coscienza religiosa del Manzoni, quali i rapporti dell'uomo con la Rivelazione, dell'etica pagana col cristianesimo, dello spirito del secolo col Vangelo, della religione con le leggi. I. Delle molte pagine in cui il Manzoni ha trattato dottrinalmente de' problemi morali o da essi ha dedotto motivi d'ispirazione e rappresentazione poetica, non ce n'è quasi alcuna, che non ribadisca costantemente il principio dell'idea intera e perfetta della moralità manifestata dalla Rivelazione, cosicché non possa l'anima umana ritrovare «per dir così, la sua unità nel riconoscimento dell'unità eterna del vero e del bene», se non mediante l'insegnamento evangelico, né vi sia «alcun sentimento di perfezione, al quale col Vangelo non si possa assegnare una ragione assoluta e un motivo preponderante, legati egualmente con tutta la Rivelazione (1)». Il Manzoni non concepisce atti di virtù, prove di sacrifizio e d'abnegazione, sublimazioni eroiche dello spirito, né ammette che se ne possa intendere la ragionevolezza, se non coi precetti e i motivi offerti dal Vangelo (2); all'infuori del quale non c'è per lui sistema di filosofia morale che sappia «evitare l'inconveniente e la vergogna di dar precetti e consigli, senza poter proporre dei motivi proporzionati» (3). Tra i due termini di valutazione, l'uno che implica la lode delle virtìi disinteressate, l'altro che implica il bisogno di determinarne la ragionevolezza, «le morali umane si agitano, cercando invano di ravvicinarli». Or sull'una or sull'altra tendenza della natura umana, «cioè o nella stima della virtù o nel desiderio della felicità», si fondano i sistemi del pensiero, ma la difficoltà che «consiste nel soddisfarle ugualmente, nel trovare un punto dove la bellezza e la ragionevolezza dell'azioni, de' voleri, dell'inclinazioni, si riuniscano necessariamente, in ogni caso e con piena evidenza», non si supera se non al lume della dottrina rivelata (4). Nel dibattito filosofico intorno all'utile e al giusto, che è indubbiamente il più grave de' problemi morali che le scuole antiche e moderne abbiano trattato, il Manzoni si pone contro la stessa tendenza intermedia della dottrina utilitarista (5), sostenendo con gran vigore che la concordia finale dell'utilità con la giustizia, intraveduta cosi in astratto dalla ragione, è stata spiegata dalla Rivelazione né si può altrimenti che con la fede nella vita futura, «nella quale abbia luogo una finale e infallibile retribuzione»; scopre la contraddizione degli utilitaristi, che vogliono conciliare il loro sistema, che è «un calcolo congetturale d'utili e di danni possibili nella vita presente», con una tale credenza religiosa, che comporta una «legge morale» superiore. Del resto -- conclude con fiero rigorismo religioso -- «in tutte le dottrine morali, che non tengono conto della Rivelazione,» non si nasconde che «incertezza», «diffidenza di sé», «scetticismo» «sotto il linguaggio più affermativo e l'apparato più solenne della dimostrazione» (6). «Inconsistente» chiama il Manzoni la distinzione, che si suol fare tra «la morale del Vangelo» e «i dommi del Vangelo», tra, cioè, i precetti e i motivi, non trovandosi -- egli afferma esemplificando poi con calda eloquenza -- «quasi un insegnamento morale del Redentore, che non sia confermato da Lui con un insegnamento dommatico». Nessuna condiscendenza, nessuna transazione; «quando la ragione -- soggiunge con recisa e caustica dialettica -- ammira la morale del Vangelo, alla quale non si sarebbe potuta sollevare da sé, fa rettamente il suo nobile uffizio; ma quando ne sconosce l'unità divina; quando in ciò che il Vangelo prescrive e in ciò che annunzia non vuol vedere una sola e medesima rivelazione; quando ricusa d'ammettere motivi soprannaturali, che confessa eccellenti, allora non può più chiamarsi ragione, perchè discorda da sé medesima». La «forza d'adempire» i precetti «e d'adempirli per riguardo e secondo lo spirito» di quei motivi non può esser data che dalla religione, ed è «quella grazia, che non è mai dovuta, ma che non è mai negata a chi la chiede con sincero desiderio e con umile fiducia»; gl'interni conflitti tra i «dettami della legge morale» e la «miserabile fiacchezza» delle nostre forze e «l'indegna repugnanza a seguirli» danno luogo a desolate domande e a sterili lamenti, se non interviene la «divina risposta» che sorge dal seno del cristianesimo: «la grazia di Dio per Gesù Cristo Signor nostro». Per questo è stata necessaria la Rivelazione; onde venne all'uomo una «dottrina morale e perfetta» «che sola potè farci conoscere quali noi siamo, che sola dalla cognizione di mali umanamente irremediabili, potè far nascere la speranza»; dottrina che «Gesù Cristo ha consegnato alla Chiesa». Compimento, sanzione, unificazione di tutte le parziali verità e gli sparsi precetti morali, trovati dalla ragione, la Rivelazione, altresì, portò con sé un nuovo motivo di virtù che da essa ha ricevuto «il nome sovrumano di Carità», il quale «unendo con l'amor di Dio l'amor degli uomini lo fa in qualche modo partecipare della ragione infinita di quello; nome che contempla in essi, non la sola natura quale si può riconoscere per mezzo della ragione, ma l'origine che li fa essere figlioli di Dio; ma l'umanità assunta dal Verbo, che li fa essere fratelli di Gesù Cristo; ma la natura medesima quale è interamente manifestata dalla fede e che li fa essere a immagine e similitudine dell'ineffabile Trinità» (7). Che cosa vale l'uomo col suo pensiero, con la sua ragione, di fronte alla morale rivelata? Non v'ha filosofia, non v'ha pensiero che pur si elevi sopra le troppo fallaci «mete del raziocinio» e sopra i «vantaggi temporali» verso le regioni superiori della morale, che sia in piena conformità col Vangelo: non c'è altra via verace che accettarlo nella sua interezza con piena umiltà di cuore. Verità fondamentali della Eivelazione sono: «che sola cosa necessaria è di salvare l'anima, che dobbiamo renderci conformi alla immagine di Gesù Cristo, che non possiamo fare alcun bene senza la sua grazia, che bisogna operare la propria salute con timore e tremore, che la fede è necessaria per piacere a Dio»: non porle «in cima al nostri sistemi morali» e rendere omaggio al Vangelo «è una contraddizione anche in coloro, come il Rousseau e Madama di Staèl, ne' quali il Manzoni pur riconosce che l'omaggio alla Rivelazione deriva non da considerazioni di «vantaggi temporali», «ma da ammirazione profonda della sua bellezza, e della sua conformità colla parte più nobile e più vera della natura umana». Parimente l'essere quelle «idee evangeliche escluse quasi del tutto dai discorsi degli uomini», quando si tratti di applicarle ai fatti e ai fini della vita, è assurda e superba aberrazione. «Ah queste idee -- esclama il Manzoni, rivelando apertamente la posizione antiìntellettualistica della sua dottrina -- sono di quelle che Dio ha nascosto ai prudenti e ai sapienti; bisogna farsi piccioli per intenderle». Non vi ha altezza intellettuale che eguagli l'adesione del sentimento e del raziocinio alle istituzioni e allo spirito della dottrina rivelata: «il punto di massima ragione, il punto più certo, più elevato dell'umano intelletto sarà il concordare col Vangelo: l'uomo sarà ragionevole ed illuminato in proporzione della sua fede» (8). * * Nel considerare gli ultimi secoli del paganesimo lo colpisce soprattutto «la cieca perversità di venerare gl'idoli fatti da loro, e di far morire i giusti» e, per contrapposto, la serena fermezza de' martiri cristiani, per la quale «i fanciulli stessi... sorridevano ai carnefici» (9). Quanto alle idee morali professate dalle antiche scuole, è raro che il Manzoni conceda loro qualche valore: quando non le censuri con fiera austerità cristiana, non vi trova che «oscurità e incertezza» e, se ammette che le «sante e solenni parole» di «giustizia, dovere, virtù, benevolenza, diritto, coscienza, premio, pena, bene, felicità» sono state «la parte essenziale del vocabolario morale di tutti i tempi e di tutti i luoghi», avverte, tuttavia, che il mondo prima di Cristo non vedeva tra le verità espresse da quelle parole unità e concordia, ma «un escludersi a vicenda», «un contrasto doloroso» accresciuto dalla scienza che «per lo più» cambiava «in altrettanti sistemi quelle tristi oscillazioni delle menti», «sacrificando a una verità arbitrariamente prediletta delle altre», talvolta «le più nobili e le più sante» Non che il Manzoni escluda che la ragione e i «sentimenti naturali retti» potessero predisporre all'avvento della legge di Dio. Questa -- egli dice --, se ha edificato un mondo nuovo, non poteva però «distruggere le basi naturali della morale, cioè i sentimenti retti», giacché questi «non possono mai essere in contraddizione con la legge di Dio, dal Quale vengono anche essi», e «conformare la morale a questa legge è un farla essere conforme al core retto e alla ragione perfezionata». Conviene, anzi, che pur tra i gentili alcuni, cioè gli stoici, abbiamo intuito «col solo lume naturale» una verità profonda nel professare che «nessun bene finito poteva essere per la virtù materia di compensazione», benché non risolvessero il grave problema morale «col dire che la virtù è premio a sé stessa»; ma in generale osserva che «i diversi sistemi de' filosofi del gentilesimo non proponevano, almeno direttamente, a chi li volesse adottare e seguire, altra felicità che la sua propria. La virtù degli stoici era in fondo egoista, come la quiete degli epicurei e la voluttà dei cirenaici» (10). Più reciso e fiero è nella censura il Manzoni, quando riguarda la morale degli antichi nell'ordine de' fatti e de' giudizi pratici. Nessuna vera misura del giusto e dell'ingiusto presso i gentili: il rispetto alla vita ignoto, purché si pensi alle «crudeltà incredibili commesse» nelle persecuzioni contro i cristiani «senza un forte impulso», a principi, che vediamo «senza fanatismo secondare il trasporto del popolo per i supplizi, non per timore, non per ira, ma direi quasi per indifferenza»; «pace terribile» quella del gentilesimo, «che non fu mai disturbata nemmeno dai gemiti» de' primi cristiani condannati ai supplizi; mentre intanto gli «odii nazionali duravano universali, radicati, perpetui» (11) e di fronte al cristianesimo, che ci fa considerare la vita mortale «come vita di preparazione», non altro che una grande e funesta follia il gentilesimo che «la rappresentava come avente il principio e il fine in sé stessa» (12). Fra le Postille ai libri che il Manzoni leggeva, così utili a conoscere l'ingegno, le idee e l'arte di lui, ve n'ha di molte in cui non solo raccomanda di procedere con molta cautela, come fa nel r annotare un passo della «Drammaturgia» del Lessing, nell'applicazione de' principi morali degli scrittori pagani (13), ma li combatte talora con mordace asprezza, insolita ne' suoi scritti, biasimando gli storici cristiani della vecchia scuola classica come il Rollin e il Crevier, l'uno autore di una Histoire romaine e l'altro di una Histoire des empereurs romains, troppo ossequienti, a parer suo, alle virtù degli antichi e alle loro istituzioni (14). S'intende che il Manzoni disprezzi le superstizioni e i riti religiosi de' pagani, in cui non vede che assurdità e furberia; s'intende, altresì, che desideri maggiore circospezione morale ne' giudizi dei due storici francesi, essendo i loro trattati stati composti per uso de' giovani cattolici (15); ma ciò che più impressiona è il vedere con che costante rigore giudichi i fatti della storia romana alla stregua della morale evangelica. Il Rollin presenta il dibattito tra Catone e Nasica circa il conservare o distrugger Cartagine, nel suo puro aspetto politico, da spregiudicato storico settecentista; il Manzoni postilla sdegnato: «Caton et Nasica étaient deux héroiques coquins. ... Ces gens là mettaient à part l'èquité parce qu'ils étaient romains, interessés, payens; mais nous, qui n'avons aucun de ces obstacles à porter un jugement plus juste sur cette affaire, pourquoi nous mettrons nous volontairement dans la sphère des passions et de l'erreur? pourquoi prendrons nous la question sur le terrain d'une politique abominable et misérable» (16)? Tutta la simpatia del Manzoni è per gli schiavi e, in generale, per la povera gente de' tempi di Roma (17), a tal punto che rimprovera il Rollin di non portare il suo spirito cristiano, anzi di «prètre chrétien» del sec. XVIII nella narrazione, di fatti antichi (18). Che idea potevano avere della vera giustizia i pagani -- si domanda il Manzoni -- se chiamavano giusto «ce qui était conforme aux décrets et aux consuétudes d'une force, à des lois imposées par quelques horames à quelques autres» (19)? Chi è Bruto, «ce héros du stoicisme», come l'aveva chiamato il Rollin? Pel Manzoni non è che un ambizioso che rappresentò la causa d'un numero privilegiato d'uomini e combattè per interessi umani; giacché non e' è vera virtù dove lo scopo non sia diretto alla giustizia e alla carità universale (20). Ma a proposito di questo illustre campione del romanesimo, è curioso il parallelo tra lui e Filippo II, che si legge nella prima redazione de' Promessi sposi (21). Due uomini, due idee «disparatissime»: eppure l'arguto ragionatore ci trova «più punti di rassomiglianza». «Tutti e due gravi e rigidi sermonatori, l'uno di filosofia, l'altro di religione, tutti e due commisero senza rimorso, con giattanza, di quelle azioni, che la morale comune e il senso universale della umanità abbomina: tutti e due credettero che nel loro caso una ragione profonda, un intento di perfezione rendesse virtù ciò che è comunemente delitto. Tutti e due, con una opposizione ardente e attiva, hanno promosse, rafforzate, estese le cose che volevano impedire ed estinguere nei loro cominciamenti: e tutti e due hanno avuti in vita e dopo morte fautori che hanno approvata la loro condotta, gli hanno lodati d'aver fatti mali infiniti, per ottenere il contrario dei loro fini» Chi è pel Manzoni lo stesso Catone, che il medioevo cristiano idealizzò; che Dante stesso redense ed esaltò a simbolo della libertà, morale? Pel Rollin è un «rigide observateur de la justice» per essersi egli rifiutato di dare la libertà agli schiavi e di farne de' soldati difensori di litica, adducendo di non voler far torto ai loro padroni; è un sublime «héros» della giustizia per essersi presa cura della vita e della salvezza de' suoi e degli Uticensi poco prima di morire. Per contro il Manzoni, che in codesta ammirazione non trova che servile stupidità e oscuramento de' sentimenti più naturali a un cristiano, non si commòve punto dello stoico suicidio di Catone e con spietata ironica sottigliezza chiama assurdo il contegno di lui, «car si la vie était un mal sans cette liberté que voulait Caton, il ne devait pas procurer aux autres ce mal que lui voulait éviter» (22). Altri consimili eroi del mondo romano non sfuggono alla critica acerba e spesso causticamente schernitrice del moralista cattolico, nel confronto con le virtù cristiane. La sobrietà del cardinal Federigo, di cui narrava un bello esempio negli Sposi promessi (23), gli fa sovvenire di consimili esempi d'uomini pagani, come «le magre cene di quel Curio mal pettinato» e il «salino di Fabricio» e il «suo piattello sostenuto da un picciuoletto di corno», e lo induce a ragionare amaramente sui motivi della celebrità di quest'ultimo (24), dando -- come altri ha osservato -- (25) nel paradosso e rivelando, piuttosto, difetto di storiografo per l'unilateralità della ricerca (26). Ma qui importa rilevare come l'appassionato giudizio che lo trasporta a un confronto tra il cardinale Federigo e il romano Fabrizio, provenga dalla manifesta intenzione polemica di contrapporre il cristianesimo al gentilesimo, la morale religiosa, fondata sulla rivelazione, alla morale umana fondata sulla filosofìa e la ragione. Quel tozzo di pane -- ammonisce il Manzoni --, «mangiato tra le fatiche d'un ministero di misericordia, di pace, di pietà dovrebb'essere una rimembranza più cara agli uomini che non quel salino e quel piattello, che copriva la mensa d'un uomo, che era sobrio per poter essere forte contro gli uomini; che si godeva di essere un povero Fabricio, per essere un potente romano». E subito dopo svela il fine vero di quell'episodio digressivo concernente la vita di Federigo, con l'istituire deliberatamente un'antitesi tra l'anima antica e la cristiana, tra le due diverse concezioni dello spirito e del dovere. «Le idee, di cui si componeva il sentimento temperante» di Fabrizio «erano superbe, ostili, sprezzanti, superficiali: quelle di Federigo umane, gentili, benevole, profonde». Fabrizio, al frugale banchetto di Pirro, nell'udire le dottrine epicuree esposte da Cinea, «disse quelle atroci parole tanto lodate dagli antichi e, chi lo crederebbe?, dai moderni: -- Oh Ercole (il santo era degno del vóto) fa che queste dottrine sieno ricevute dai Sanniti e da Pirro fin tanto che saranno nemici del popolo romano --. Ma il nostro mangiator di pane avrebbe avuto orrore di sé, se avesse potuto anche un momento desiderare la perversità ai suoi nemici, ai nemici del suo popolo. Egli desiderava la giustizia, la fortezza, la sobrietà a tutti: la desiderava e tutta la sua vita fu spesa a promuoverla. La sua benevolenza non era nazionale ne aristocratica (27); egli non aveva bisogno di odiare una parte del genere umano per amarne un'altra: si faceva povero non per insultare, non per dominare, ma per dividere la condizione dei suoi fratelli poveri, e per migliorarla. A dispetto di tutta la storia, di tutta la morale, di tutta la rettorica, Federigo Borromeo era più grand'uomo che Fabricio, o per meglio dire: Federigo era veramente un grand'uomo, per quanto un sì magniflco epiteto può stare con un sì misero sostantivo». (28) Lo stesso Manzoni spiega altrove, a proposito di Traiano, il formarsi e perpetuarsi della riputazione delle virtù pagane e dà, a un tempo, la ragione de' suoi sfavorevoli giudizi, osservando che «noi riceviamo per lo più l'opinione fatta dagli altri; e i gentili, che stabilirono quella di Traiano, non credevano che spargere il sangue cristiano togliesse nulla all'umanità e alla giustizia d'un principe»; che «è la religione che ci ha resi difficili a concedere il titolo d'umano e di giusto; è essa che ci ha rivelato che nel dolore d'un'anima immortale e' è qualche cosa d'ineffabile; è essa che ci ha istruiti a riconoscere e a rispettare in ogni uomo l'immagine di Dio, e il prezzo della Redenzione.» (29) «Voluttuosa, superba, feroce» la morale degli antichi -- incalzava il Manzoni in un suo celebre scrìtto (30) --, «circoscritta al tempo, e improvvida anche in questa sfera; antisociale, dov'è patriottica, e egoista, anche quando non è ostile»; «la morale dei classici» -- più particolarmente accennando agli scrittori del paganesimo, ribadiva con parole che solo molti anni più tardi cancellò -- essenzialmente falsa: false idee di vizio e di virtù: idee false, incerte, esagerate, contradditorie, difettive dei beni e dei mali, della vita e della morte, di doveri e di speranze, di gloria e di sapienza; falsi giudizi dei fatti, falsi consigli; e ciò che non è falso in tutto, manca però di quella prima ed ultima ragione, che è stato una grande sciagura il non aver conosciuto, ma dalla quale è stoltezza il prescindere scientemente e volontariamente». (31) E più manifestamente rivelava le sue intenzioni morali e religiose e, dirò così, le sue apprensioni pedagogiche nel deplorare che i classici fossero -- nonostante le battaglie romantiche -- proposti alla «imitazione dei giovinetti», nel desiderare «ardentemente» che si facesse sui classici «un esame intento, risoluto, insistente», una specie di revisione epuratrice dei valori morali del classicismo, nell'augurarsi che si perdesse «quella venerazione per essi così profonda, così solenne, così magistrale», nel volere per mezzo de' romantici o «per qualunque via ragionevole» «screditato il sistema dell'imitazione», con l'intento soprattutto pratico che si cessasse dall'attingere dal mondo classico «tanti sentimenti falsi» e dal perpetuare «nella letteratura e, per mezzo della letteratura, nella vita giudizi irragionevoli e appassionati». (32) Se, come a suo luogo dimostrerò con maggior larghezza d'indagine, i luoghi citati e talune ironiche applicazioni d'ostentato anticlassicismo, nella prima forma del romanzo, (33) rispondevano al segreto intento letterario di contribuire al trionfo de' principi più ragionevoli della poetica romantica in Italia, essi testimoniano, a un tempo, quanto vivamente operasse l'ideale etico e religioso nella prima ispirazione del grande capolavoro da assumere apertamente fa forma polemica e satirica de' concetti morali e de' modi d'arte adoperati dai classici e dai classicheggianti; ai quali il Manzoni fece carico dell'uso delle favole mitologiche massime per la ragione, essenzialmente religiosa, che esso era «idolatria». (34) Il Manzoni in codesta franca opposizione al paganesimo, che è novella prova della sua dirittura logica e dell'indipendenza de' suoi criteri intellettuali e morali rispetto a' suoi tempi, (35) -- sol che si pensi quale autorità e forza avessero conferito agl'ideali del classicismo e il movimento filosofico della seconda metà del settecento e il neoclassicismo artistico ancor vivace a' suoi giorni --, si ricongiunge, piuttosto, con gli apologisti e i moralisti del seicento francese, per certa affinità di concetti e di motivi, che torna opportuno esaminare. Della superiorità del cristianesimo sulla filosofia e i culti dell'antichità ragiona in più luoghi il Massillon. Vano sforzo della ragione umana, «la philosophie découvroit -- egli osserva -- la honte des passions, mais elle n'apprenoit pas à les vaincre; et ses preceptes pompeux étoient plutót l'éloge de la vertu que le remède du vice». Ma è stata la grazia -- soggiunge -- qui a montré à la terre lo veritable sage, que tout le faste et tout l'appareil de la raison humaine nous annongoit depuis si long - temps» (36). Prima dell'avvento di Cristo le tendenze e le scuole filosofiche, pur dovendo riconoscere al lume della ragione «un seul Être supreme, en défiguroient la nature par mille opinions insensées. Les égarements de la raison étoient alors la seule règie de la religion et de la croyance de ceux qui passoient pour ètre les plus éclairés et les plus sages». Nel mistero dell'Uomo-Dio, nella Rivelazione è stata offerta agli uomini «tonte leur science, toute leur vérité, tonte leur philosophie, toute leur religion». Prima condizione della vera milizia cristiana è «le sacrifice de la raison et de nos faibles lumières» (37). Che era allora la pace, assicurata dalle armi de Romani, da «ces maìtres orgueilleux du monde»? «Une fausse paix»: passioni ingiuste e violente, inquietudini incessanti, disordine morale nelle azioni pubbliche e private. È evidente l'ispirazione tacitiana nella pittura fosca che il Massillon fa del mondo romano, ma sono motivi prettamente religiosi, come nel Manzoni, il discredito de' filosofi che si vantavano d'insegnare la disciplina delle passioni (38), il vituperio di quella «fiction aussi grossière» per cui con l'autorità compiacente degli storici e de' poeti s'immaginavano saliti all'immortalità dell'Olimpo gli eroi e si trascinava l'universo ad adorare «des imposteurs» (39), l'accusa di far servire furbescamente a scopi politici certi riti religiosi (40). In quel sermone, appunto, Sur la vérité de la religion, che ha più stretta attinenza con le idee del Manzoni, intende dimostrare «l'anciennité,» la «perpetuité» «l'uniformité», attraverso i secoli, della religione e colpisce ripetutamente la morale pagana. «L'idolatrie -- egli dice -- inspiroit à l'homme des sentiments insensés de la Divinité:la philosophie, des sentiments peu raisonnables de lui - méme: la cupidité, des sentiments injustes envers les autres hommes»: è «la sagesse de la religion qui remédie à ces trois plaies» (41). «Une vaine philosophie -- esclama l'oratore francese -- avoit dégradé l'homme jusqu'au rang des bètes, en lui faisant chercher sa félicité dans les sens; l'avoit follement élevé jusqu'à la ressemblance de Dieu, en lui persuadant qu'il pouvoit trouver son bonheur dans sa propre sagesse» (42). Problemi e motivi etico-religiosi del mondo manzoniano I. Il dominio delle passioni. -- II. Umiltà e orgoglio. -- III. Carità e giustizia. -- IV. Gli umili e i potenti. -- V. Il coraggio cristiano. Ora dobbiamo vedere come il Manzoni^ sul fondamento de' principi esaminati nel capitolo precedente, intenda e risolva i particolari problemi della vita morale e interpreti la complessa e contraddittoria realtà psicologica ed etica dell' uomo ne' suoi motivi ed effetti alla stregua dell' ideale cristiano, e per quali procedimenti del suo pensiero morale e religioso sia venuto costruendo il mondo de' Promessi sposi. I maggiori problemi dell'etica manzoniana toccano il dominio delle passioni sul cuore dell'uomo, l'antitesi tra l'umiltà e l'orgoglio, la faticosa missione della carità e della giustizia, l'eterno dissidio tra i potenti e gli umili, la necessità del coraggio cristiano e dell'eroica difesa del vero e del giusto: dal modo come il Manzoni li sentì, procedono le correnti pessimistiche e idealistiche del suo cristianesimo; dalla sua singolare attitudine a meditarli e approfondirli per trarne risoluzioni sempre più nobili e pure, deriva quell'intenso lavoro di trasformazione interiore a cui andò soggetto il romanzo attraverso due e forse tre redazioni. Trattarne partitamente vuol dire ripercorrere la genesi etico-religiosa dell'opera immortale. I. Già il Galletti, nella sua acuta e robusta analisi delle idee morali del Manzoni, drittamente avvertiva: «Chi esplora il fondo del suo pensiero sente che egli è un avversario radicale dell'ottimismo umanitario. Guardando alla miseria della nostra natura, alle allucinazioni che assediano il povero cervello umano, ai nostri deliri forsennati e alle nostre passioni ipocrite o brutali, egli non prorompe come Pascal in sdegni veementi, non impreca come i Profeti, non piange; ma analizza ed espone, crollando il capo e sorridendo con tristezza pietosa della comune follia» (144). Codesta forma di pessimismo, che in gioventù fu il principale motivo del suo ritorno alla fede, era germinata in lui dalla «coscienza dell'irrimediabile debolezza della ragione umana» e dall'avere avvertito «nell'uomo la propensione a secondare i sofismi della passione per sottrarsi al dovere e abbandonarsi all' istinto» (145). Per quella sua vigile cura di scoprire le sofistiche giustificazioni delle debolezze e de' traviamenti umani il moralista italiano fa pensare al più acuto psicologo dei grandi oratori sacri francesi, al Massillon, che ne tratta con larghezza e finezza. «Les prétextes -- egli dice -- les intéréts, les inconvenients humains font toujours pencher la balance de leur coté; et le devoir et la loi de Dieu cède toujours k la nécessité des temps et des conjonctures». E pronto ribatte, come Federigo ai pretesti di don Abbondio: «la vie, la fortune, la réputation, l'univers entier lui -- méme, mis en parallele avec notre àme, ne doit étre compté pour rien»; i più gravi mali «seroient toujours infiniment moindres que la transgression de la loi de Dieu» (146). «Nos passion seules» -- esclama il fervido oratore -- «forment les inconvenients qui nous autorisent à chercher des tempéraments à nos devoirs et à la loi de Dieu.... Les raisons ne manquent jamais aux passions; l'amour propre est habile k mettre toujours du moin les apparences de son coté: il change toujours nos foiblesses en devoirs et nos penchants deviennent bientòt de titres legitimes; et ce qu' il y a ici de plus déplorable, dit saint Augustin, e' est que nous appelons la religi on mème aux secours de nos passions; que nous prenons dans la piété des motifs pour violer les règles de la piété méme; et que nous recourrons à des prétextes saints, pour autoriser des cupidités injustes» (147). Questo tremendo problema morale delle passioni sofisticate dalla ragione ha un posto di prim' ordine tra le idee direttrici del romanzo manzoniano: vi feconda il motivo psicologico e la figurazione concreta di taluni caratteri. Don Abbondio sofistica la sua paura con la dottrina della prudenza, col biasimo degli eccessi, anche se questi sono le sublimi prove del bene ch'egli chiama «precipitazioni»; ma il Manzoni da prima si beffa amabilmente di quella sua interessata prudenza, de' suoi «tant'anni di studio e di pazienza >, per crearsi quel suo bel «sistema di quieto vivere», col fargli fare uno de' più «brutti incontri» che gli potesse capitare (148); poi ne svela r intima contraddizione, opponendo alla premura della vita terrena il dovere della giustizia e del sacrifizio, mediante la solenne parola di Federigo. Quando mai non spunta il sofisma nel pavido cuore nelle tortuose parole di don Abbondio -- Nelle tergiversazioni con Renzo alla vigilia delle nozze, nel soliloquio mentre l'aspetta, nello schermirsi dall'andare al castello a prendere Lucia, nel colloquio con Federigo, negli stupendi monologhi che fa viaggiando in compagnia del signore convertito, negl' interessati consigli, che dà a Renzo, di ritornare in salvo sul bergamasco, è sempre lui con quella «mutria», come diceva Renzo, con quelle «ragioni >, In don Abbondio il sofisma della passione ha, direi quasi, la solidità d'un abito inveterato, è divenuto la sua perpetua fisionomia spirituale: la calda voce del Vangelo, l'esperienza delle varie vicende non vi han fatto una scrinatura. Don Abbondio in questa sua fissità quasi glaciale è la tremenda ironia di quel compromesso tra la debolezza e la ragione che in infinite forme invade la vita. Noi sorridiamo col poeta; ma nel sorriso nostro e suo s'asconde una profonda mestizia. Anche don Rodrigo sofistica la sua turpe passione, ma a scatti, disordinatamente, col pretesto dell' «impegno», dell' «onore suo» dell' «onore di tutto il parentado», delle canzonature degli amici. Don Abbondio è un abulico che s' è fatta della sua paura una teoria pratica: di qui il comico; don Rodrigo è abulico quasi quanto lui, ma ha l'inquietudine de' delinquenti passionali; non teorizza, ma si ravvolge nella vergogna e nel rabbioso puntiglio: la sua strana sofisticazione è in quelle parole che dice tra sé e sé in un'ora di stizzosa perplessità: «un impegno un po' ignobile, a dire il vero: ma, via, uno non può alle volte regolare i suoi capricci, il punto é di soddisfarli. Ecco il sofisma: soddisfarli, perchè «bisognava render ragione» agli amici di Milano e non esser costretto e a non alzar mai più il viso tra i galantuomini» (149). E questo pei sofisti della debolezza e dell'iniquità è «un dovere». Persino i dappoco e i furfanti si vantano di fare il proprio dovere: don Abbondio, 11 Griso, il podestà, il conte Attilio (150) e via dicendo. Tremenda ironia! E que' due mirabili colloqui del cugino Attilio col conte zio e di questo col padre provinciale non sono due capolavori della birboneria e dell' ipocrisia soflsticatrici -- «E la passione che ho della riputazione del casato che mi fa parlare», dice il primo, dopo aver impastocchiato tante fandonie; e l'altro ostenta e insinua: «sarebbe un vero crepacuore per me di dovere.... di trovarmi.... io che ho sempre avuta tanta propensione per i padri cappuccini» (151)! Ma dove non s'insinua il ragionamento interessato, l'espediente ingegnoso, la capziosità avveduta dell' intelletto a servizio di sentimenti e passioni nel mondo de' Promessi sposi? Il Manzoni ha scrutato il formidabile problema de' sofismi passionali con una penetrazione e profondità, che nessuno psicologo o moralista o poeta aveva raggiunto: coglie perfino i sofismi tratti dalla pietà religiosa, dalla pratica del dovere, rivaleggia con sant'Agostino. È della pia Prassede, «gentildonna molto inclinata a far del bene», quella massima, così poco evangelica: «chi fa piìi del suo dovere» può «far più di quel che avrebbe diritto» (152). E spunta perfino sulle labbra di Lucia un piccolo sofisma del cuore, ma quanto amabile e degno della nostra sollecitudine!, quando vorrebbe convincere sé stessa e r acerba predicatrice che, se difende Eenzo, lo fa «per puro dovere di carità, per amore del vero.... come prossimo» (153). ^ Il Manzoni, per quella sua quasi appassionata disposizione Intel- ) lettuale a cogliere gli errori del ragionamento e a scoprirvi gl'im-/ pulsi di molti disordini morali (154), riguarda le passioni, coi loro T falsi entusiasmi, con le loro conseguenze d'odio e disprezzo verso \ i sentimenti e le opinioni altrui, con le loro caduche illusioni, non \ solo come un pericolo per la morale, una causa di perenne conflitto J dell'animo coi termini irremovibili, posti «dalla religione» (155) maX come un pericolo anche per la dottrina logica del ragionare (156). A coloro che, come l'Helvetius, rimproverano alla morale religiosa i precetti di moderazione e di giustizia, perchè nel conflitto con la violenza e la prepotenza rovinerebbero le nazioni che li adottassero, il Manzoni risponde che non per questo la nazione moderata e giusta sarebbe meno energica; che, per esser atti alla difesa, non ò necessario esercitarsi all' ofl'esa. Chimera -- dicevano i filosofi francesi -- codesta perfezione morale: -- «chimera», purtroppo -- soggiunge il Manzoni con profonda tristezza -- «per la renitenza degli uomini che potrebbero e non vogliono adottarla»; ma chimera altresì quella felicità che voi credete «fondata sullo sviluppo delle passioni»; che giammai vera gioia -- e lo prova la storia -- è nata dalla violenza, ma le sono seguiti «inutile pentimento e lagrime senza consolazione» e disillusioni dietro lo sforzo e, anche dopo il raggiungimento dello scopo, inquietudine e cruccio: è «la natura stessa delle cose» che rende vana quella felicità vagheggiata (157). 11 Manzoni è un avversario deciso della teoria dell'assoluto diritto della forza. Si stupisce sdegnosamente che austeri scrittori scusino e lodino i longobardi, persecutori de' Romani quasi inermi e scoraggiati, «purché nel carattere di essi ci sia qualcosa di aspro e di risoluto, che denoti una tempra robusta» «Eppure -- ribatte il Manzoni -- il più forte sentimento d'avversione dovrebb' essere per la volontà che si propone il male degli uomini; e per quanto profondamente essi siano caduti, un senso di gioia deve sorgere nel cuore d' ogni umano quando veda per essi nascere una speranza di sollievo se non di risorgimento» (158). La» debolezza umana» non è una buona «scusa» -- soggiunge in un notevolissimo frammento -- «per ridurre ad una misura d'equità la disapprovazione», «quando si tratti di passione, di orgoglio, di cupidigia» (159), e sentenzia con energia: «per quanto vergognosa appaia la paura di quelli che stavano per essere oppressi, più odiosa, più turpe, più indegna appare l'iniquità degli oppressori» (160). È, pel Manzoni, «una delle più sacre e capitali nozioni della morale», «una delle regole principali del giudizio umano», «quella che ci fa disapprovare i fatti e i sentimenti, a misura del dolore che volontariamente apportano agli uomini >: e il giudizio di quegli storici, piìi propenso alla «lode» per gli aggressori vittoriosi e al «biasimo» per gli assaliti sgomenti e vinti, non si perita di chiamarlo «falso, irreiiessivo, immorale, fantastico» (161), tale da creare impressioni che «tendono a far dimenticare, a rendere inutile una delle più preziose rivelazioni della morale cristiana, che l'ingiustizia è sempre turpe, bassa, vile, spregevole, tendono a ricondurci alla improvvida e inumana morale del paganesimo, la quale perdonava, talvolta ammirava, i delitti che nascevano più direttamente dall'orgoglio, perchè non sapeva che l'orgoglio è una ignoranza perversa» (162). Da questi gravi appunti ai ragionamenti de' filosofi e ai giudizi degli storici, gli uni e gli altri propensi a scusare se non anche ad esaltare la violenza animosa, s' intende che il Manzoni attraverso la critica de' metodi logici vuol colpire i principi morali, da cui potrebbe credersi derivato quel loro modo di ragionare e di giudicare; in quell'accalorarsi del critico e del moralista insieme è manifesta la preoccupazione che il culto della forza brutale, l'approvazione della violenza, ove questa vada congiunta con una natura risoluta e vigorosa, il disprezzo degli oppressi, sol perchè meno forti e potenti d'altrui, siano passioni capaci non solo di fuorviare la logica, ma altresì di perturbare la condotta morale. Cosi meditando, egli scopre nella vita come una fosca trama d'aberrazioni e di sopraffazioni con cui la ragione, la volontà e l'istinto tentano di soffocar l'innocenza e la verità. E questo l'aspetto più tristo del mondo, rappresentato nel romanzo. Ciò che pertanto importa notare è che nel Manzoni Ja valutazione etica e l'analisi psicologica delle passioni, non meno che delle virtù contrarie, non solo traggono vigore dal sentimento religioso, ma insieme si fondano su principi necessari e assoluti di verità, ond'ei vi porta col fervore del sentimento, esperto dell'anima umana, l'adesione del raziocinio; il che, del resto, è secondo un principio, anzi un metodo -- come egli stesso afferma -- della morale religiosa, e ne è documento magnifico S. Paolo, apostolo di fede e ragionatore formidabile. Basta esaminare quel lucido e acuto capitolo della Morale cattolica -- testimonianza singolare quant'altra mai della dialettica manzoniana -- «sulla modestia e sulla umiltà», per convincersi che i problemi morali gli si presentano non solo come fatti del cuore e della volontà^ ma altresì dell'intelletto e della logica. E le risoluzioni ei le cerca e trova con processo psicologico e logico ad un tempo. In fondo ad ogni suo esame e giudizio del mondo morale sta assiomaticamente un principio di conoscenza: la «doppia idea che la Rivelazione ci ha data di noi stessi», che cioè «l'uomo è corrotto e inclinato al male e che tutto ciò che ha di bene in sé, è un dono di Dio»; principio, nel quale si riflette il motivo, -- così universale nella dottrina cattolica e così frequente negli scritti di un Pascal, di un Massillon, d'un Bossuet e d'altri, -- dell'umana corruttela e della grazia divina. Tra questi due termini il ritmo del cuore del mondo non può essere che l'inquietudine, universale anche se varia, ne' cuori de' tristi non meno che ne' cuori de' buoni. «L' inquietudine -- afferma il Manzoni -- è connaturale'all'uomo >; essa domina in tutte le condizioni della vita; onde^ a proposito degli uffici della poesia, osserva che «ogni finzione che mostri l'uomo in riposo morale è dissimile dal vero»; e che se pur «una certa tranquillità > si può «godere in questo mondo», essa viene da principi soprannaturali, ed è falso che sia tolta dalla natura stessa delle cose e dei desideri nostri» (163). Anche nel cuore de' buoni, giacché è decreto di sapienza e bontà che la «giustizia» quaggiù, «non pura né perfetta», «soffra per mondarsi e combatta per crescere» (164). Da questo concetto della missione dell'uomo sulla terra derivano con temperanza di bonaria ironia la similitudine de' due letti, che raffigura l'inquietezza d'ogni stato umano (165), e quella conclusione del romanzo, messa lì come «il sugo di tutta la storia», che «i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore» (166). II. Se è legge per l'uomo il riconoscBre «di esser soggetto all'errore e al traviamento» e il riconoscere «ugualmente, che tutti i suoi pregi sono doni che può perdere per la sua debolezza o per la sua corruttela» (167), ne viene che della santa milizia della vita è anima e guida l'umiltà, come sentimento, ovverosia la modestia, come azione, e che fomite di corruzione e di perdizione è l'orgoglio: quella è ragione e sostanza di tutti i beni e di tutte le virtù^ questo di tutti i mali e di tutte le passioni. Queste due forze contrarie dello spirito, intorno a cui s'aggira il massimo problema della morale religiosa, tengono il primo posto nella meditazione cristiana del Manzoni, e sono il motivo etico fondamentale di quel mondo poetico che via via si svolge dalla Risurrezione alla Pentecoste e si matura, in piena concordia dell'intelletto con la fantasia, ne' Promessi sposi. Che è, guardato nel suo intimo spirito morale, il romanzo manzoniano, se non il poema dell'umiltà e dell'orgoglio? E non è su queste due forze contrarie che sorge il dramma cristiano? Come intendere la commossa eloquenza, il poderoso vigore dialettico, l'accento, l'aria, onde si avviva la meditazione manzoniana sull'umiltà e l'orgoglio nelle ultime pagine del citato capitolo (168), se non pensando che tra quei due termini il Manzoni vedeva svolgersi, faticosa e perenne, la storia dell' uomo -- Da una parte S. Paolo che «costretto a parlare di ciò che lo può elevare agli occhi altrui, ne restituisce a Dio tutta la gloria e confessa spontaneamente le miserie più umilianti in un apostolo»; dall'altra < l'uomo che osa promettere a sé stesso che per la sua forza, sceglierà il bene nell'occasioni difficili», l'uomo che s'antepone agli altri ed «è parte e si fa giudice» (169): antitesi tra il Vangelo e lo spirito del mondo^ tra Dio e l'umana corruttela. La stessa difesa dell'istituto della confessione, che il Manzoni fa nel limpido e franco capitolo XVIII della Morale cattolica, è tutta ispirata da un alto e puro concetto dell'umiltà cristiana: pel Manzoni l'umiltà è ordine ed equilibrio, ilare fiducia in Dio, libertà di spirito, mezzo di dignità, dì calma, di ragione; elevazione dalla bassezza, liberazione dal giogo delle passioni, superiorità sui timori umani; è, insomma, la feconda virtù del Vangelo fra gli eterni contrasti del mondo (170). È naturale che questo sia uno de' motivi, anzi il principal motivo, della concezione morale e poetica de' Promessi sposi. L'umiltà è incarnata in Lucia; è la virtù cristiana che trionfa nella vicenda delle cose, nella lotta delle passioni: è il supremo ideale manzoniano. Dalla concezione dell' umiltà intesa nel più puro senso religioso, in quello che vide ed espresse Dante, quando si vestì l'anima d'umiltà nell' accingersi al viaggio pel Purgatorio: -- immagine della vita cristiana quaggiù, eh' è milizia, combattimento contro le passioni, sforzo di perfezionamento morale, prova della nostra volontà, del nostro sentimento nella conquista della libertà dello spirito, -- da codesta concezione dell'umiltà deriva il mondo morale del Manzoni e riceve luce il mondo storico, ch'egli ricostruisce con intuito de' tempi e con conoscenza profonda dell'anima umana. Dall'umiltà e dalla sua antitesi e dalle gradazioni morali, che, se non un vizio nettamente contrario, ne costituiscono un difetto (modi del sentimento, condizioni di vita morale, difettive d'umiltà) proviene la triplice serie de' principali caratteri manzoniani: nobilissimi, come Lucia, Federigo, fra Cristoforo; malvagi o iniqui o corrotti, come don Rodrigo, l'Innominato, il padre di Gertrude, Gertrude stessa, il conte Attilio; deboli o illusi o materialoni, anche se istintivamente onesti, come don Abbondio, don Ferrante, donna Prassede, Eenzo, Perpetua, Agnese. E quelle stesse infinite figure minori, -- come il sarto del villaggio, sua moglie, il barcaiolo del lago, padre Casati, fra Galdiuo, fra Fazio, il podestà, il dottor Azzeccagarbugli, il conte zio, il padre provinciale, Antonio Ferrer, la moltitudine de' rivoltosi pel rincaro del pane, il notaio, gli osti, i monatti e via dicendo, -- che fanno da sfondo storico e umano al grande dramma cristiano, attuato ne' caratteri e nelle azioni de' personaggi di maggior rilievo, non sono che o i luminosi riverberi della gran luce d'umiltà che splende nelle maggiori, o le sinistre ombre dell'opposta passione -- l'orgoglio -- e delle sue variazioni molteplici. L'umiltà, come virtìi cristiana, che inalza l'animo a Dio e che, perciò, non lo porta all'inerzia passiva, ma l'arma di fede, di speranza operosa, d'istintiva sicurezza nel trionfo del bene, è la segreta fonte dell'ironia, dell'umorismo, del biasimo morale^ con cui il Manzoni ha concepito e atteggiato molti de' suoi personaggi e rappresentati molti avvenimenti. Si veda don Abbondio: egli ha una teoria pratica della vita e una grande sicurezza nel suo tenore morale: che è codesto? Soverchia fiducia nelle teorie umane, tanto spesso generate dagl'istinti, dalle passioni, dall'interesse. E la sua teoria resta frustrata dal giorno dell'incontro co' bravi: s'è fatta una sua spicciola scienza, per evitare i guai del mondo, e vi si trova impigliato; troppa sicurezza, troppa confidenza nel suo sistema: c'era, anche in don Abbondio, una specie d'orgoglio: quel costituirsi una sua dottrina morale sulla base della paura e dell'egoistico interesse era proprio il contrario dell'umiltà. Di qui l'umoristica concezione del suo carattere e delle sue azioni: l'ironia della sua troppo sicura scienza della vita è costante: ironia di una dirò così . presuntuosità etica, che lo faceva borbottare perfino sul conto di quell'alta, disinteressata operosità cristiana, che si esprime da Federigo Borromeo. Vedete don Ferrante: questi ha anche una sua soverchia sicurezza nella sua interpretazione pseudo-scientifica delle cose del mondo: è un orgoglioso cerebrale; e di quella sua presuntuosità intellettuale è continua l'ironia. Chi più di lui si sentiva sicuro nel giudicare della peste? chi più di lui pretendeva di possedere la teoria scientifica, esatta di quel morbo? E proprio di esso egli muore; e ne muore perchè non si degnava, come un qualsiasi modesto mortale, di circondarsi di precauzioni, di cautele. Che cosa vince l'Innominato? l'umiltà di Lucia. Come trapassa egli dal male al bene? Per la via dell'umiltà, umiliando l'orgoglio in Dio, da quando è commosso in modo insolito alle parole di Lucia, sino alla sua confessione dinanzi a Federigo e in tutto ciò che fa dopo la conversione. Don Rodrigo è altra antitesi dell'umiltà; e di grado in grado ne è vinto. IIL La certezza stessa della comune debolezza e miseria dev' essere -- ammonisce il Manzoni -- ragione e impulso a seguire lo spirito e le leggi del Vangelo, giacché ad una legge morale non possiamo sottrarci, e il sentimento e il principio della moralità è l'unica energia salutare della vita. Così il Manzoni integra e supera il tradizionale pessimismo cristiano, pervenendo, sulla scorta dello stesso Vangelo, ad un discreto^ ma operoso idealismo morale, donde trae le più serene concezioni nello studio de' fatti e caratteri umani e del quale è principio e sostanza la dottrina della carità e della giustizia. Acuta e originale è l'analisi manzoniana de' motivi e dell'essenza della carità. -< l'amore per tutti gli uomini» ha la sua vera «ragione» in «ciò che è comune a tutti gli uomini e insieme degno d'amore» cioè nella «natura umana medesima», nell' «essere nobilissimo di creatura intelligente, formata a immagine di Dio e capace dì conoscerlo, d'amarlo e dì possederlo, vale a dire d'una altissima perfezione morale». Amare il prossimo implica amar sé stessi rettamente: cioè per luì e per sé «volere il bene sommo e assoluto prima di tutto, e i beni finiti e temporali, in quanto possono esser mezzo a quello» (171). Così intesa, la carità non è semplice pietà naturale, poiché chi non vede -- esclama il Manzoni con l'infocato fervore dell' apostolo -- «quanto l'inclinazione naturale a sollevare il suo simile deve acquistar di forza, di prevalenza, d' universalità, dall' amarlo per Dio, in Dio, come fatto a di Lui immagine, redento da Lui, come quello nel quale Egli ama d' abitare come in suo tempio» (172) -- Ma la carità non solo é legame degli uomini tra loro, ma dell' uomo con Dio; in quanto «unendo con l'amor di Dio l'amor degli uomini, lo fa in qualche maniera partecipare della ragione infinita di quello» (173). La carità è il fulcro dell'idealismo manzoniano, com'è di fatto l'idea generatrice di tutta la sua dottrina sulla morale cattolica, derivata dal Vangelo. Quel XIV capitolo del suo trattato apologetico sulla Maldicenza, che è veramente un capolavoro d'an'alisi psicologica, sì svolge tutto dal sentimento e dal concetto della carità, come l'intende il Manzoni; né soltanto riguarda, come si suole ripetere, la maldicenza, ma abbraccia le questioni che toccano la natura dell' uomo e i doveri. L' abitudine a pensare e a dir male degli altri -- osserva il Manzoni -- prepara la via alle ire e alle violenze, quando gli «interessi ci mettono a fronte l'uno dell'altro» e distrugge la carità. Certamente il freno è duro e le prescrizioni della morale religiosa richiedono «sacrifizi che chiamiamo eroici»; perchè ad essi il senso ripugna; ma non è buona ragione opporre -- come il mondo suol fare -- «che bisogna prender gli uomini come sono e non pretendere cose perfette da una natura debole» (174), poiché la religione, esperta di questa debolezza, l'arma della sua forza e de' suoi conforti, addestra l'uomo a sostenere i combattimenti della vita, a resistere alle vive impressioni perturbatrici, «impiega tutti i nostri momenti ad abituarci alla signoria di noi stessi, al predominio della ragione sulle passioni, alla serenità della mente» (175). La comunione sociale non regge senza la delicatezza, il compatimento, l'indulgenza, senza che gli uomini non solo «non pensino il male» ma «ne gemano quando lo vedono» e degli assenti parlino con «quella delicata attenzione > che si suole «usare verso i presenti». Il comandamento della carità, è: «per regolare le azioni >, frenate «le parole e, per regolare queste», mettete «la guardia al core» (176). Perciò abbominevole è la predicazione dell'odio religioso, poiché «è dottrina perpetua della Chiesa che si devano detestare gli errori e amare gli erranti» (177). «E si può esser cristiano -- domanda con impeto mistico il Manzoni -- quando il sentimento della propria miseria, della carità universale e dell'unica speranza in Gesù Cristo, morto per tutti gli uomini^ non vinca nell'animo nostro a riguardo d'ogni nostro fratello, per quanto la condotta di lui possa parere a noi ed essere abbietta e perversa -» (178)? «A tutte le vittorie morali succede una calma consolatrice -- sentenzia il grande moralista -- e amare in Dio quelli che si odierebbero secondo il mondo, è, nelr anima umana, nata ad amare, un sentimento d'inesprimibile giocondità» (179). Che è, in fondo, la carità? L'amore della giustizia, ed è quella che lega i nostri sentimenti. E la giustizia? «È conformità dell'intelletto e della volontà» e, conseguentemente, «dell'azione con la legge di Dio» (180). Ma il compimento della vera giustizia nella vita mortale è vano sforzo, doloroso per chi è fuori della legge divina, non per chi ha la fede tranquilla e la consolatrice speranza: cosicché un inizio di essa e' è pure nel presente, in misura limitata, bensì, e come per saggio, manifesto in quel «gaudio» che nasce dall' «adesione della volontà al Bene infinito» e che prevale «al dolore cagionato dalla privazione di qualunque altro bene». «Cosi la giustizia misericordiosa di Dio predomina anche nel tempo, dove non si compisce» (181). Il Manzoni, dunque, ammette non l'avverarsi della giustizia intera nel mondo, ma segni ed esempi di essa, che la Provvidenza realizza, quando voglia, nella sua misericordia; non piena e perfetta, perchè anch'essa dev'essere mezzo d'edificazione dello spirito e misura di premio o castigo: patimento, dunque, ma mitigato dalla confidente tranquillità, nella vita mortale, compimento del giudizio divino nella vita futura (182). Riprova il Manzoni per ragioni logiche e per motivi morali -- come abbiamo veduto -- «quella disposizione > -- più universale di quel che non si creda -- «ad ammirare affettuosamente l'ingiustizia risoluta e animosa», a guardare con orrore la debolezza de' sopraffatti, a considerare «le pressure ch'essi hanno sofferte come una giusta retribuzione >, a riguardare -- come facevan certi storici -- «la pusillanimità come più turpe, più inescusabile della violenza». «Santo è il dolore, solamente quand' è volontario, quand' è una espiazione, quand' è offerto dall'animo che soffre»; «nel dolore di un'anima immortale c'è qualche cosa d'ineffabile», ed è secondo umanità e giustizia «riconoscere e rispettare in ogni uomo l'immagine di Dio e il prezzo della Redenzione» (183). «Perchè gl'innocenti non sanno difendersi, non si desiderano che siano oppressi. Si desidera invece che alcuno pigli la causa loro e quando questo accade, si prova un vivo interesse, una gioia sincera nel vedere spiegarsi una forza materiale in favore del diritto, e l'espressione del fatto porsi in armonia colle idee morali > (184). Il concetto della carità come di amore fraterno dell' uomo verso l'uomo e di adesione dell'anima alla volontà di Dio, involge tutta la sostanza etica de' Promessi sposi, e, in particolare, informa il racconto della fuga degli sposi e di Agnese dal paesello natio al rifugio di Lucia presso la signora di Monza. Oppressi, fuggitivi, sgomenti, la carità fraterna li protegge e li aiuta: fra Cristoforo vince e perfeziona il divieto della regola nell'ardore del beneficio cristiano, ravviva nella preghiera i derelitti e li conforta della sua benedizione e protezione; il barcaiolo li tragitta all'altra riva dell'Adda e il barocciaio li conduce a Monza, l'uno e l'altro non cercando che il premio «divino»; il padre guardiano di Monza accoglie e colloca in sicuro rifugio le due donne con viva e pura sollecitudine: nella trista via dell'esilio quegl' innocenti «che non sanno difendersi», che sono dei deboli in confronto della prepotenza del loro persecutore, non raccolgono che messe di carità. E la luce di carità s'alza e si spande dal cuor de' tribolati, quando fanno offerta a Dio del loro dolore e ne impetrano la misericordia anche pel loro oppressore. Con che vigore e profondità e originale potenza meditativa abbia ii Manzoni create queste scene della sollecitudine cristiana risalta tanto più agli occhi dell'osservatore attento, se pensi che seguono nella «notte degl'imbrogli e de' sotterfugi», la notte che nel vortice della violenza, o perversa, o animosa, erano stati presi personaggi cattivi e buoni, oppressori d'istinto e oppressori d'occasione: don Rodrigo mosso da scellerata prepotenza, don Abbondio da egoistico amor della vita, gli sposi dal disperato dolor dell' offesa; la notte che la presunzione degli accorgimenti umani è stata vinta dalla mente segreta di Dio; che l'uomo non ha obbedito che al cieco istinto e alla sua interessata passione; che perfino i buoni hanno insidiato il pastore e il pastore li ha ingannati e abbandonati; che tutti insomma hanno mancato al dovere e infranti i vincoli della carità. Manifesta è l'antitesi ideale tra l'una e l'altra serie di fatti, tra lo sconvolto ordine della corruttela e della debolezza e quello, superiore e misterioso, della provvidenza e dèlia grazia, tra il ruinare d'ogni espediente e tentativo umano e il sopravvalere, nel colmo della sventura, delle uniche forze attinte dal Vangelo, -- l'umiltà nel dolore, la pazienza ne' duri combattimenti della vita, la confidenza in Dio, la carità abbracciante nell' amor divino non meno gli autori che i compagni delle proprie sofferenze ?; l'antitesi, insomma, tra lo spirito del mondo e lo spirito di Cristo. Come nella vita, fioriscono nel romanzo tutte le forme di carità privata e pubblica, domestica e civile, di tutti i ceti sociali, degli umili e de' poveri, de' grandi e doviziosi. Il poeta cristiano guarda alto con la serenità di chi abbraccia l'umanità senza distinzione o preferenza di gradi o di classi. Tenerissima carità familiare, che arde e s'espande oltre la morte in mezzo al desolante orrore della peste e de' funebri trasporti, come nelle amorose cure della madre di Cecilia (185), negli esempi di fermezza e di pietà, che «padri, madri, fratelli, figli, consorti» danno «in tanta confusione» sostenendo e confortando i cari loro, e perfìn «ragazzetti», «fanciulline» verso «i fratellini più teneri» (186). Eroica carità civile, che opera pronta e costantemente fedele al pubblico dolore neir infuriar della peste, come dimostrano quegli animi che sono «sempre desti alla carità» per missione e abito di bene e tra i quali primeggiano gli ecclesiastici con a capo -- magnifico esempio di annegazione cristiana -- il cardinal Federigo, quelli «in cui la carità nacque al cessar d' ogni allegrezza terrena», que' pochi, ma eletti, pubblici ufficiali che, «sani sempre di corpo,» «nella strage e nella fuga» di tanti compagni sono rimasti «saldi di coraggio al lor posto * (187). Dolcissima carità umana, sollecitata da quel che di divino è nella nostra umanità, come quella delle umili donne che si prodigano nello spedale degl' innocenti (188). Tuttavia, nel vigore almeno nella confidenza del vivere, questi esempi nobili, queste prove belle, tanto più se adorne di spontanea semplicità, non sono che di singole anime, di famiglie, di gruppi animati di carità e di fede; com' è di Renzo, che dà i suoi due pani alla madre abbandonata co' figli languenti (189) e che nell' avviarsi al paese di Bortolo si spoglia anche de' pochi soldi rimastigli per darli a de' poverini, sfiniti sulla strada (190); com' è del sarto del villaggio, che divide le vivande festive della sua famigliola con la povera Maria vedova (191); com' è delle schiere accennate de' preti, che con Federigo vivono, assistendo e consolando, nel mezzo della pestilenza, e di quelle coppie di validi preti, accorrenti con «una carità viva e perseverante > tra le miserie e i patimenti della carestia (192); ma nell'abbandono della vita, al cospetto della morte un'onda di carità percorre e purifica i cuori di tutti: no)i si numerano i segnalati esempi de' pochi, ma tutta l'umanità stempra gli istinti brutali, gli odi, gli orgogli, le vendette del superbo e sicuro passato nell'ardente fraternità universale. «Ne ho visti morire qui -- dice padre Cristoforo nel lazzaretto -- degli offesi che perdonavano; degli oflFensori che gemevano di non potersi umiliare davanti all'offeso» (193): alto e solenne, nel mezzo di così universale spettacolo di concordia nella pietà, nel perdono, nell'amore, giganteggia lui, il magnanimo frate,, che infrena la morte serpeggiante nel suo povero corpo con lo spirito, «quasi la carità, sublimata nell'estremo dell'opera, ed esultante di sentirsi vicina al suo principio, ci rimettesse un fuoco più ardente e più di quello che l'infermità ci andava a poco a poco spegnendo» (194). Non sempre la carità s'effonde franca ed animósa, ma la rallenta o combatte la passione, l'interesse, il pregiudizio nella parola e nell'azione. Il Manzoni -- l'abbiamo visto testé -- ha osservato a lungo e pensosamente questo aspetto negativo della vita cristiana e l'ha riflesso nel romanzo. Lasciamo le indubbie incarnazioni della scelleraggine e della viltà, come don Rodrigo, don Abbondio, l'Innominato prima della conversione, il conte Attilio, il dottore Azzeccagarbugli, il Griso, i bravi, i monatti e altri ancora, ne' quali non brilla raggio di virtù; ma i buoni o i mediocremente buoni, quelli che un po' di Vangelo l'hanno nel cuore e non fanno male a nessuno, sono anch'essi tardi e a volte ribelli alla carità. Ad esempio, Renzo^ che odia don Rodrigo e non cede alla pietà e al perdono se non dinanzi alla morte, Agnese che scatta in accenti d'orrore e d'ira contro il persecutore della sua figliuola e accusa don Abbondio al cardinale, fra Galdino che non vede più in là della prosperità del suo convento, donna Prassede, che mette così a mal profitto la sua pietà religiosa, il viandante sospettoso, che respinge minacciosamente il povero Renzo, bisognoso di farsi insegnar la strada, rivelano stati d'animo e forme di coscienza, in cui al sentimento della carità contrasta l'ingenita debolezza dell'umana natura. Dove ne ragiona in astratto il valore etico in raffronto al Vangelo, l'austero spirito del moralista deplora ed ammonisce; dove ne analizza la concreta realtà psicologica nelle creature tratte dalla storia o dalla sua fantasia, il cuor del poeta tempera il biasimo, più pensoso di rappresentare la vita che di trarne argomento di severa dottrina. Non meno della carità, informa la concezione morale de' Fromessi sposi l'idea e il sentimento cristiano della giustizia, intesa come adempimento della legge divina nell'azione. I giusti, nello stretto senso religioso, sono pochi nel mondo manzoniano e rara quella calma confidente e consolatrice che dalla giustizia discende: Lucia, Federigo, fra Cristoforo, l'Innominato convertito e redento ne sono tutti illuminati; in altri, anche se buoni e pii, è come ombrata dalla passione; ne' malvagi non vive, se non deformata o stravolta. Lo spirito etico de' Promessi sposi è tutto nel conflitto tra la giustizia, che tende faticosamente al suo compimento col mezzo della carità, e le passioni del mondo che irrompono indisciplinate e inique nella vita del secolo; il dramma si risolve col prevalere, nei limiti de' casi narrati e del momento storico descritto, di quella su queste; se non che il risultato è relativo e discreto, perchè il poeta dall' interpretazione della vita traendo una conferma alla sua lucida e sicura dottrina, non raccoglie e armonizza nel suo mondo reale che le tendenze alla giustizia e i segni confortevoli, ma non perfetti di essa: gli oppressori non prevalgono, ma anche gli oppressi portano le tracce delle dure prove, delle sofferenze patite, e la stessa conseguita giustizia non li esalta e insuperbisce, ma -- come s'intende dalle riflessioni stesse degli sposi sui loro casi -- li ammaestra, li corregge, li lascia mestamente esperti del male e consci di dover provvedersi in vita per una giustizia migliore. Ad ogni modo quella consolante tranquillità e fiducia che rende men doloroso -- anzi trasforma in gaudio sereno -- lo sforzo de' buoni verso la giustizia, diventa la forza viva di quel mondo ove la vigilante misericordia divina e le grandi calamità pubbliche accomodano nel miglior modo sperato le cose. Lucia dal voto trae una calma e fiducia interiore che ha qualche cosa di eroico e divino: in noi lascia una impressione di solennità religiosa l'offerta del suo sacrifizio, ma anche lei si sente cresciuta di purezza, di nobiltà edificante, più vicina al Bene infinito e sopporta e reprime, a volta a volta, il dolore della rinunzia. Renzo non trova quiete, se non dopo dure prove, nella fede che placa gli animi, nella speranza che dai disegni terreni rivolge gli uomini alla sapienza di Dio; fraintende la giustizia, quando vagheggia di farsela da sé sul suo persecutore; la fraintende, per quanto non possa sentir diversamente con l'animo esasperato dall' ingiustizia de' potenti, quando gode di trovar Milano in rivolta; vorrebbe, da buon figliuolo, regolar la giustizia del mondo con r aiuto di Ferrer, come se essa potesse andar d' accordo con la giustizia di Dio. Ma quando, nell'orrore della solitudine e della fuga notturna, avverte «l'amico rumore» dell'Adda, intende con chiarezza che la sola giustizia divina ha valore «anche nel tempo, dove non si compisce», riconosce di dover la salvezza alla continua assistenza di Dio e s'affida alla sua volontà. Da allora in poi l'anima religiosa di Renzo risplende, purificata dalla sventura, nella sua semplicità; s'annebbia un'altra volta per la crucciosa apprensione di non ritrovare più in vita Lucia, ma infine, dileguata ogni ombra di trista passione, l'anima sua si riempie tutta della giustizia cristiana, non meno di fra Cristoforo e di Lucia, quando prega e perdona davanti al giaciglio di don Rodrigo morente. Il tragico gioco della giustizia è in questi termini morali che il Manzoni ha con lucidità e coerenza fissati: la giustizia, come sentimento e concetto di necessità e di retribuzione, cioè di ricompensa e di gastigo, ò verità insita nella coscienza comune; se non che è, «come tutte le verità morali, una verità esposta nella pratica alle passioni e all'incoerenze parziali e accidentali degli uomini >. «E non c'è quindi da meravigliarsi che i successi temporariamente prosperi di tante azioni ingiuste, e gli avversi di tante giuste, e anche eroiche, ci portino qualche volta > al dubbio sconsolato e financo alla negazione iraconda di essa, «dimenticando che nell'idea di retribuzione non c'è punto compreso che deva realizzarsi nel momento che può parere a noi > (195). L' ingiustizia di don Rodrigo, contro cui si spunta anche la «giusta» eroica azione di fra Cristoforo, l'ingiustizia di don Abbondio e quella del dottore convergono immediatamente, fin dal primo momento dell'azione, a creare questo stato di turbamento nel concetto e nella pratica della giustizia. È, per così dire, la protasi morale del dramma: non ne possono derivare che più gravi ingiustizie e falsi modi d'intendere e d'applicar la giustizia. Tutto vien peggiorando: Lucia, rapita per la scellerata ostinatezza di don Rodrigo con la complicità della signora che l'aveva in custodia; Renzo, «fuggitivo da casa sua» (196), insidiato dalla perfidia degli uomini, non del tutto immune neppur lui dalle passioni mondane (197); padre Cristoforo sfrattato da Pescarenico per l'intrigo de' suoi avversari; il popolo di Milano in tumulto pel rincaro del pane e il tentato eccidio del Vicario; i provvedimenti del Governo peggiori di prima e r inevitabile carestia e miseria: il dominio,- insomma, della violenza e dell'orrore e l'abbattimento generale. Da che tutto questo tumultuare e irrompere di passioni -- Dall' oscuramento e, più spesso, dall' annientamento del senso della giustizia. I prosperi successi dell'ingiustizia raggiungono il colmo; il mondo morale par vicino a dissolversi, quand'ecco Iddio tocca il cuore all'Innominato, al più violento cioè e al più potente nemico della giustizia. La conversione di questo grande peccatore, maturata nel segreto di Dio, avvia alla soluzione il dramma privato. Lucia è salva dalle insidie degli uomini; la Provvidenza ha vigilato su Renzo; e il significato religioso delle peripezie dei due sposi è svelato in quelle parole di Federigo a don Abbondio: «ora, purtroppo, non hanno bisogno di voi» (198). Nuove incertezze e nuovi patimenti li attendono, ma di altra origine da quello eh' è la cattiva volontà degli uomini. Neil' ordine pubblico la disarmonia profonda tra la giustizia e le passioni e gl'interessi del mondo non si compone. L'ingiustizia ha creato l'ingiustizia; dal malgoverno la rivolta, da questa il cieco empirismo e l'impoverimento: donde il dilagare della carestia. Le guerre d'ambizione, di puntiglio, di cupidigia accrescono il male, col passaggio de' lanzichenecchi, con le devastazioni, i saccheggi e i germi del contagio. Il dramma sociale precipita: oltre al disordine morale ed economico, sopra tante ire superbe e fratricide discordie e prepotenti oppressioni^ sopraggiunge, preveduta, agevolata dalla < pubblica follìa >, la strage della peste. E una grande giustizia di Dio, di quelle che la pensosa anima cristiana del Manzoni scruta e scorge ne' periodi piìi affannosi e torbidi della storia; di quelle che a Desiderio, dopo la distruzione del regno e nell'accogliere Adelchi morente, fanno esclamare: «Oh! come grave sei tu discesa sul mio capo antico, Mano di Dio !» {Adelchi, a. V se. 7") è r «ira tremenda», onde il «sangue» del «giusto» «sulla misera prole ancor cade, che mutata d'etade in etade, scosso ancor dal suo capo non l'ha». {La Passione, st. 9). Il significato religioso di quella solenne sanzione della giustizia di Dio prorompe dal magnanimo discorso di padre Felice e più precisamente da quelle sue parole: Benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia ! benedetto nella morte, benedetto nella salute! benedetto in quella scelta che ha voluto far di noi! Oh! perchè l'ha voluto, figliuoli, se non per serbarsi un piccol popolo corretto dall'afflizione, e infervorato dalla gratitudine (199) ? * * * IV. Ciò che nella Morale cattolica dice della Chiesa, «che co' suoi primi insegnamenti, può innalzare il semplice, il quale ignora perfino che ci sia una filosofia morale, al più alto punto, non di questa filosofìa, ma della morale medesima; a quel punto a cui si trova un Bossuet, dopo aver percorso un vasto circolo di meditazioni sublimi» (200), il Manzoni ha rispecchiato nella realtà umana dei Promessi sposi. Abbiam visto quale spirito evangelico abbia egli infuso in Lucia, e più vedremo nel seguito; ma i semplici che sentono con «cuore fraterno» sono ivi una moltitudine: non solo il barcaiolo e il barocciaio, devoti allievi di fra Cristoforo, ma la «buona donna» e il sarto del villaggio, la folla raccolta alla predica del cardinale, le frotte d'uomini, di donne, di bambini che convengono da tutti i paesi d'intorno con «una alacrità straordinaria» e, ne' gesti, «una gioia comune» (201), le comitive de' superstiti del lazzaretto, inebriate di tenerezza e di carità dalla sublime predica di padre Felice, e le donne ivi affaccendate a curare i bambini, alcune allattanti «in tale atto d'amore» come le avesse attirate in quel luogo non la paga, ma «quella carità spontanea che va in cerca de' bisogni e de' dolori» (202). Chi son costoro -- Gente, -- direbbe il sarto del villaggio -- che non «saprebbero ripetere le parole > di un Borromeo, di un Bossuet; «non ne ripescherebbero una; ma il sentimento lo hanno qui» (203); gente che accetta e adempie col cuore i precetti della Chiesa, «i quali non hanno valore che dal core», e sente, nella semplicità della fede, -- tanto quanto ne ragionino gli alti maestri di dottrina -- che «ogni atto di culto che venga da un core privo di carità, è» agli «occhi» della Chiesa «superstizioso e menzognero» (204). Gli umili con la fede e la carità arrivano allo stesso punto, dove giunge la dotta speculazione religiosa: questo concetto e sentimento è così pienamente e schiettamente partecipato dal Manzoni che molte volte nel romanzo fa trovare le verità più profonde della vita e della religione ai personaggi più umili in perfetto accordo co' sapienti. Già il Manzoni di codesto accordo offre un bell'esempio, quando fa dire a quel suo semplice e buon cristiano del sarto: «la disgrazia non è patire e l'esser poveri; la disgrazia è il far del male» (205), conformemente a quello che egli, il moralista e poeta, in una eloquentissima pagina della Morale cattolica sentenzia: «il vero male per l'uomo non è quello che soffre, ma quello che fa» (206), e a ciò che nel romanzo, a mo' di commento agli ultimi episodi degli sposi, ammonisce, sotto la finzione dell'anonimo: «si dovrebbe pensare piìi a far bene, che a star bene; e così si finirebbe anche a star meglio» (207). Nel discorso delle inesplicabili disavventure di Renzo a Milano il cardinal Federigo approva con un «è vero purtroppo» la sapiente conclusione di Agnese: «i poveri ci vuol poco a farli comparir birboni» (208). Lucia, nell' invocare dall' Innominato la liberazione, dice quelle sublimi parole: «Dio perdona tante cose, per un' opera di misericordia» (209); e quest' opera, che il peccatore convertito si appresta a compiere, fa esclamare al grande Federigo in modo conforme: «Beato voi ! Questo è pegno del perdono di Dio» (210)! Ciò che Renzo, dopo la notizia del voto di Lucia, detta esasperato al suo «segretario», che «la Madonna c'entra per aiutare i tribolati e per ottener delle, grazie, non per far dispetto e mancar di parola > (211), è, in confuso, press' a poco quello che, secondo dottrina, dice fra Cristoforo nel lazzaretto a Lucia: «Il Signore gradisce i sacrifizi, l'offerte, quando le facciamo del nostro....; ma voi non potevate offrirgli la volontà di un altro, al quale v' eravate già obbligata» (212). Anche nel gioco de' calcoli e delle previsioni l'umile cuore non è da meno della mente del saggio; o, piuttosto, questo non ne sa più di quello. 11 cuore di fra Cristoforo, nel dare l'addio agli sposi, gli dice che si sarebbero rivisti presto; i fuggiaschi tacciono, e col loro cuore consentono; ne' discorei precedenti, nelle istruzioni che dà alle donne e a Renzo, il frate mostra addirittura di prevedere nella sua mente che «i suoi poveri cari tribolati» avrebbero «presto» «potuto ritornar sicuri a casa» loro. «Ma che sa il cuore -- Appena un poco di quello che è già accaduto» osserva con pensosa ironia il Manzoni (213). E la mente, la mente di un savio ed esperto e battagliero cristiano, qual è fra Cristoforo, che sa dell'avvenire? che può congetturarvi -- Il sapiente uomo di Dio in quel momento non vede più in là degli umili suoi protetti. Bello, altresì, è sentire Agnese come viene ragionando e spiegando alla figliuola lo strano contegno della signora. Quanta ironia in quel tranquillo e liscio periodo: «Agnese, come più esperta, sciolse, con poche parole, tutti quei dubbi, e spiegò tutto il mistero» (214) !; nei quale il Manzoni, secondo un suo geniale accorgimento nell' accennare a discorsi o nel descrivere affetti de' suoi personaggi, fa sentire, con la scelta stessa delle parole, la bonaria saccenteria della brava donna. Altro sono le verità profonde della vita e i terribili misteri delle anime, altro là conoscenza che pretende averne il senso comune. Chi ne sa di più, l'esperta Agnese o la semplice Lucia? Il modo come il Manzoni presenta gli umili nel romanzo e dà loro parti cospicue nell'azione, facendo, anzi, di due di loro i protagonisti di tutta la storia, deriva, come si sa, dal suo evangelismo democratico e risponde a sentimenti e idee che si trovano nella tradizione de' grandi scrittori della Chiesa. Mi sovviene, a questo proposito^ di taluni pensieri del Pascal, dai quali può il Manzoni aver ricevuto, se non la diretta ispirazione, almeno incitamento e autorità ad infondere nell'anima d'umili personaggi, quali Lucia in ogni suo atto e Renzo e Agnese, tutte le volte che tace in loro la passione, e molti altri di minor rilievo, così viva e ricca spiritualità cristiana da pareggiare i sapienti: «Ne vous étonnez pas -- ammonisce il Pascal -- de voir de personnes simples croire sans raisonnement. Dieu leur donne l'amour de sa justice et la baine d'eux - mèmes». E con rapida analisi ritrae l'anima di questi umili: «Ceux qui croient sans avoir examiné les preuves de la Religion c'est parce que' ils ont une disposition intérieure tonte sainte, et que ce qu' ils entendent dire de notre religion y est conforme». Ma una più chiara e suggestiva attinenza hanno le idee del Manzoni con questo pensiero: «Ceux que nous voyons Chrétiens sans la connaissance des prophéties et des preuves, ne lassent pas d'en juger aussi bien que ceux qui ont cette connaissance. Ils en jugent par le coeur, comme les autres en jugent par l'esprit. C'est Dieu lui meme qui les incline à croire, et ainsi ils sont très effìcacement persuadés» (215). È schiettamente evangelica la preminenza data al cuore in confronto della ragione nelle cose di fede. Il Pascal ribadisce più volte questo concetto, sino a dire: «Le coeur a ses raison que la raison ne connaìt point. C'est le coeur qui sent Dieu, et non la raison. Voilà ce que c'est que la foi parfaite, Dieu sensible au coeur» (216). Così il Manzoni eleva migliaia di cuori, ardenti di lede e di carità, sino a Dio nell'opera di salvazione di un grande scellerato; ne esalta l'efficace umiltà di fronte all'animo smarrito del potente, quando Federigo, rispondendo all' Innominato, dice del popolo aspettante la sua parola: «sono le pecorelle... in sicuro sul monte»; «forse lo Spirito mette ne' loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera ch'esaudisce per voi, un rendimento di grazie, di cui voi siete l'oggetto non ancor conosciuto» (217). Gli umili, come il Manzoni li guarda e figura secondo una concezione tutta evangelica, portano nella loro vita e nel loro destino i segni d'una rassegnata tristezza; ma nelle lor pene e sofferenze traggono da ogni cosa, men grave^ argomento di serenità e d'allegrezza. Già codesti del romanzo sono anni di carestia e di miseria: dallo spettacolo de' «mendichi laceri e macilenti» e de' lavoratori sconfidati e pensierosi, che rattrista fra Cristoforo avviato alla casetta di Lucia, ai quadri tragicamente pietosi dell' indigenza, dell' inedia e della morte dopo i tumulti di Milano, lo sfondo della storia romanzesca di Lucia e di Renzo si colorisce con gradazione crescente d'un aspetto cupo e doloroso. E poi per che vicenda di casi e di sventure non passa la stessa vita degli umili personaggi, che campeggiano nella vastissima scena! Ma il dolore di tante umili anime non ha i disperati abbandoni de' potenti, cui l'affanno o la sventura conturbi: Lucia, nel colmo dell'angoscia e del terrore, trova una calma eroica nella preghiera e nel voto, mentre l'Innominato, in quella medesima notte, s'agita insonne in una cupa disperazione, e don Rodrigo, quando s'accorge d' aver la peste e, poi, d'esser tradito dal Griso, è preso da terrore e da rabbia anche più disperata. È questo il destino de' potenti, ove non intervenga la Grazia. La mitezza degli umili, al contrario, e la rassegnazione nelle disgrazie e nelle pene sono sempre state i temi prediletti del pensiero religioso e della parola apostolica; col Manzoni sono diventati vivi contenuti d'eterna poesia: le grandi sue liriche, i tratti delle minori di più schietta ispirazione ed efficace espressione, molte delle pagine immortali del romanzo sono o delicate analisi o scultorie rappresentazioni d' anime umili di natura o umiliate dalle dolorose vicissitudini della vita e dalla Grazia misericordiosa di Dio: Ermengarda, Napoleone, l'Innominato; Lucia, il sarto e la sua famiglia; la Vergine e i pastori del Natale; le donne della Risurrezione, i supplicanti della Pentecoste. Il Massillon dice che le afflizioni preparano gli umili alla salute e alla santificazione (218); ne esalta la pazienza con sentimenti e concetti (219) conformi a quelli eh' abbiamo ricercato nella coscienza del Manzoni; ne descrive le semplici e pure gioie (220) come il Manzoni fa della pia e giuliva famigliuola del sarto. Per contro, spende nelle analisi e ne' ritratti della vita tutta la dovizia della sua vivace tavolozza a rappresentarne le ineluttabili inquietudini (221), non in un solo, ma in piìi sermoni, la cui lettura, anche per questa parte, non rimase forse senza effetto sullo scrittore lombardo, quando ideava le travagliate figure di potenti, evocate dalla storia e idealizzate dalla poesia, quali Desiderio, Adelchi, Napoleone e l'Innominato. Se non che il Manzoni dalla meditazione sulla potenza mondana ha tratto motivi e accenti di un pessimismo più profondo e doloroso di quello del Massillon; piti s' accosta, invece, al Bossuet e piti dell' uno e dell'altro rivive lo spirito del Vangelo. È la potenza non altro che «silenzio e tenebre» (222) rispetto alla vita eterna e alla / gloria di Dio; non ad essa, non alle «vegliate porte» de' «potenti» si volge r angelico annunzio della nascita del Redentore^ ma agli umili, «al duro mondo ignoti» (223); contro essa son notate le lagrime nel cielo, ove il nome de' potenti ascende «con l'imprecar de' tribolati» (224): nata pii^i spesso dalla «forza feroce» che «fa nomarsi dritto» (225), genera i dolori onde il secolo atroce fa de' boni più tristo l'esiglio (226); è tal gloria che neppur dura dinanzi agli uomini e s'annienta dinanzi a Dio; il quale ai grandi, riottosi nella loro superbia e opulenza a' suoi moniti, «chiede conto della parola che fa loro sentire nelle loro regge» (227). Non vi ha che una grandezza, quella dell' anima; non c'è «giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio» (3); tra la nobiltà dell' anima e la presunta bassezza della condizione sociale non v" è opposizione, e questa nasce da una convenzione assurda e ingiusta (228). Queste le idee del Manzoni su ciò che sono le dignità e lo splendore che vengono dal mondo. Non meno triste, anzi più foscamente immaginoso, è il Bossuet nel rappresentare il dissolvimento di questi valori mondani: vane le distinzioni superbe; tutto si perde nell'oceano dell'eternità (229): «tout ce qui est morte], quoi qu' on ajoute par le dehors pour le faire paraìtre grand, est par son fond incapable d' élévation»; «toutes nos pensées, qui n'ont pas Dieu pour objet, sont du domaine de la mort» (230). I veri grandi spiriti dinanzi a Dio sono gli umili: -- «l'innocenza è potente al suo cospetto» -- pensa ed afferma fra Cristoforo nel richiedere al potente «un atto di giustizia»: «Dio ha sempre gli occhi: sopra di loro»; «le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù» (231). Che è l'opulenza e la potenza dell' iniquo signore nella parola indignata del frate, che riflette la parte più segreta e più fiera della coscienza cristiana del poeta? Miserabile cosa: «quattro pietre» e «quattro sgherri», sopra cui «sta sospesa» la «maledizione». E l'inerme trepidante innocenza degli umili buoni come si riparerà dalla scelleratezza de' potenti? Essa -- osserva alteramente il, Manzoni per bocca di fra Cristoforo -- «è sotto la protezione di Dio» (233). Ma dove il Manzoni eleva al più alto grado i giusti di umile vita di fronte ai potenti superbi -- e lo fa in un impeto di geniale ispirazione^ che solo Dante ebbe per la sua Beatrice -- è neir immaginare Lucia trasfigurata nella sconvolta coscienza dell'Innominato così che gli pareva di risentirne le parole non più proferite «con accento d'umile preghiera», ma «con un suono pieno d'autorità, e che insieme induceva una lontana speranza»; di vederla «non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni» (234). * V. Nella difesa della morale religiosa il Manzoni ribatte l'accusa che effetto di essa sia la servilità, perchè propone in alcuni casi la «pazienza». Questa è virtù -- egli soggiunge -- che «educando l'animo a superare i mali, Io rende più forte ad affrontarli, quando sia necessario, per la giustizia». «Patire piuttosto che farsi colpevole»: ecco la divisa del forte cristiano; ma quando la «legge di Dio» proibisce «ogni coopcrazione volontaria all'ingiustizia» implicitamente prescrive il coraggio, «il coraggio più raro, il più tranquillo, e che non porta ordinariamente pericoli che a colui che lo mostra»; tanto più «nei casi diffìcili in cui bisogna disubbidire a Dio o agli uomini». Gli abusi stessi che si commettono e si giustificano con un pretesto religioso, non sono da coprire «per un rispetto alla religione», ma da svelare e combattere con una continua guerra nel seno stesso del cattolicismo. «Rimondate -- dice apertamente il nostro moralista ai ministri della Chiesa -- l'albero dai rami secchi e infruttuosi, prima che l'uomo inimico possa porvi il ferro della distruzione» (235). Tra le parti che tengono opinioni estreme, ciascuna collegata da vincoli di solidarietà difensiva, sorgono «i pochi e non arruolati difensori del vero», esposti a tutte le ire, a tutti gli odi così de' «nemici della fede» come de' «partigiani degli abusi». «Felici se essi amano e gli uni e gli altri -- esclama il Manzoni, conchiudendo quel suo discorso Degli abusi e delle superstizioni, che è de' più rigorosamente dialettici e animosamente evangelici ch'abbia scritto in materia religiosa -- se, posti in una posizione così difficile, sentono che non vi si possono sostenere che con l'aiuto di Dio, se dai contrasti che soffrono cavano argomenti di speranza e non d'orgoglio, se li sopportano come pene meritate pei loro falli, se non rivolgono un occhio di desiderio e d' invidia agli applausi del mondo, se non li spregiano per un sentimento di superbia, se non desiderano la confusione dei loro avversari di ogni genere, ma la loro concordia, aspettando con ogni pazienza i momenti del Signore» (236). Codesto coraggio, «francando la mente dalla perturbazione e dai calcoli del timore», raff'erma le risoluzioni conformi al dovere; onde in molti casi, non solo ispira «opere virtuose al di là dello stretto dovere», ma in alcuni casi «è indispensabile all'adempimento del dovere stesso». La paura, al contrario, è «passione carnale», che nel contrasto de' motivi delle azioni «introduce un elemento talvolta estraneo^ inopportuno, appassionato, quale è il desiderio di conservare la vita, di sfuggire il dolore, il pericolo», facendolo «preponderare sui motivi di dovere e di ragione»: così, mentre i martiri affrontavano «il dolore e la morte» con coraggio ch'era «santo», perchè s'esercitava nell'adempimento della legge di Dio», «perfezionato», anzi, o anche «istantaneamente ispirato dalla grazia di Lui»; quegli «infelici cristiani», per contro, che «amavano» la verità, ma, più di essa, la vita, «alla minaccia del martirio» mentivano a Dio. «Ingiusto» è codesto amore -- sentenzia il Manzoni -- «perchè la conservazione della vita, non essendo né un fine perpetuo, né una condizione assoluta nella linea dei doveri, deve cedere a quei precetti che hanno un tal carattere» (237). La dottrina morale del Manzoni sulla paura ha una mira più alta che quella di censurare la parte negativa di questa passione: egli se ne preoccupa massimamente pei funesti effetti che ne vengono nell'ordine della vita sociale, come quella che «può spingere e spinge troppo sovente ad azioni positive, direttamente dannose agli altri, può rendere e rende l'uomo stromento di violenza. Quanti oppressori inflessibili troviamo nella storia, che non sarebbero stati tali, se non avessero avuto una grande paura» ! Così osserva il Manzoni con l'occhio rivolto alla storia e ai giudizi degli storici, de' quali approva la «consuetudine sapiente e morale di associare fortemente il biasimo, di far sentire ad ogni occasione la bruttezza delle azioni pusillanimi che presenta la storia», conchiudendo, -- conforme alla sua concezione pedagogica della storia, che a suo luogo esamineremo -- che «è questo un mezzo potente per creare negli uomini una specie di pudore, una disciplina di dignità, la quale rende nel caso più superabili le impressioni del pericolo» (238). Un punto capitale di questa parte della dottrina manzoniana è che la morale religiosa, benché prescriva la delicatezza, il compatimento, r indulgenza, non impedisce la «sincera e spassionata espressione della verità > né il «il fondato e giusto discernimento tra la virtù e il vizio >; anzi lo comanda «quando si tratti di preservare il prossimo dall'insidie de' maligni; quando insomma sia richiesto da giustizia e da utilità»; lo comanda, condannando «i rispetti umani» per «un obbligo e un motivo soprannaturale di non tacere la verità», quando la «voce» di essa «sia mossa dalla carità». «Così ha prevenuto l'animo debole contro il terrore che la forza, che la moltitudine, che la derisione, che il possesso delle dottrine mondane gli sogliono incutere; così ha resa libera la parola in bocca all'uomo retto» (239). Tanto più si rivela la grandezza del coraggio cristiano negli uomihi della Chiesa, quand'essi, lungi dal farsi adulatori de' potenti e predicatori di servilità fra i soggetti, «sanno dire il vero con pericolo». Il Manzoni scruta acutamente codesto aspetto morale della storia della Chiesa ne' tempi del dispotismo politico e sociale. Ce ne sono stati de' cortigiani che «hanno detto ai potenti che la Religione era loro utile perché favoriva ogni esercizio della loro potenza»; che «hanno voluto far credere che non fosse destinata principalmente che a far godere alcuni uomini, più tranquillamente, di un potere che finisce al sepolcro»; che hanno secondato il mondo nell' idea di subordinare tutto, anche la religione, all' «idolo» della potenza. Eppure dovevano, invece, dire ai potenti «che la religione è loro utile, perché li può guidare alla salute, perchè, posti nella situazione più pericolosa, hanno, più d'ogni altro, bisogno di guida e di soccorso, perchè, oltre la miseria loro propria, la bassezza degli altri cospira ad ingannarli e a perderli», perché «i potenti hanno pur troppo una tentazione più forte di tutti» «a considerare ogni cosa come un mezzo ai desideri temporali» (240). Anche il Massillon, trattando a lungo delle passioni de' grandi e dell'adulazione che le seconda, rileva che «l'adulation le plus dangereuse est dans la bouche de ceux qui, par sainteté de leur caractère, sont établis les ministres de la vérité» e deplora: «Quel malheur pour les g-rands de trouver d'indìgnes apologistes de leurs vices panni ceux qu' en auroient du étre les censeurs, d'entendre autour de leur tròne les ministres et les interprètes de la religion parler cornine le courtisan, et de trouver des adulateurs ou ils auroient du trouver des Ambroises > (241). Le idee del Manzoni sul dovere d'esercitare coraggiosamente l'apostolato cristiano in mezzo al mondo, massime nel cospetto de' potenti e contro gli abusi della stessa società religiosa, restano, nel loro insieme, entro i confini della tradizione cattolica; per lo spirito d' austerità pura e battagliera ond'egli incita a denunciare gli abusi e le superstizioni e a scinderli coraggiosamente dal perpetuo contenuto divino della fede, s'avvicina innegabilmente alle fonti del giansenismo, di quello schietto degl'iniziatori francesi di Port-Royal, fra i quali egli trova il suo «grande Nicole» e Biagio Pascal, tanto più da lui prediletti perchè entrano nel novero di quegli apologisti e moralisti francesi del secolo XVII, ai quali, come alla tradizione più autorevole del pensiero cattolico moderno, sappiamo ormai ch'egli è venuto conformando, durante e dopo la conversione, il suo pensiero morale e religioso. Questa dottrina, così conforme allo spirito del Vangelo, «che è tutto franchezza e dignità, che abboraina tutte le strade coperte per le quali si nuoce senza esporsi; e che ne' contrasti che si devono pur troppo avere con gli uomini per la difesa della giustizta, comanda per lo più una condotta che suppone coraggio» (242), costituisce il problema massimo della coscienza religiosa del Manzoni, ed è uno de' motivi etici più fecondi del romanzo. Essa ha preparato r opposta concezione di don Abbondio e di fra Cristoforo. La succession de' fatti principali, che formano la trama dell'azione romanzesca, non è che la conseguenza dolorosa, ma logica, del fallimento del coraggio cristiano in chi ne aveva chiesto e accettato il sacro ministero, in chi, in una contingenza grave e pericolosa, ha preferito d'ubbidire piuttosto agli uomini che a Dio. Il comico che si riflette nella perfetta forma poetica di don Abbondio (e ne vedremo a suo tempo il perchè) non impedisco di cogliervi dentro ciò che di serio e di dolorosamente severo si associa nella segreta concezione del poeta alle umoristiche impressioni della vita e dell'umana debolezza. È difficile certamente sdoppiare il contenuto spirituale di don Abbondio: lo stesso Manzoni nella finissima analisi che fa, in sul principio, dell'indole e del tener di vita del suo personaggio, non ha parole amare per lui, non gli fa il processo morale, non lo stacca, per così dire, dalla sua realtà, relativa per porselo innanzi come un problema del cristianesimo e della Chiesa; neppure lo colpisce nel seguito dell'azione, dopoché egli ha obliterata la solenne legge evangelica: «patire piuttosto che farsi colpevole». Questo riserbo, in cui si è tenuto il moralista, è una delle ragioni della geniale creazione a cui ha potuto giungere il poeta; ma l'alto giudizio morale su così nociva deficenza del sentimento del dovere non può mancare in un'opera che vuole essere, come l'ha voluta il Manzoni, di poesia insieme e di moralità religiosa, e quel giudizio lo pronunzia il cardinal Federigo attraverso una requisitoria solenne, che poeticamente -- per vero dire -- non ha valore se non pel mirabile contrasto scoppiettante in quel colloquio singolarissimo tra le ragioni dell' ideale puro e illimitato e gli argomenti della realtà guardinga e positiva, ma per la sostanza etica e religiosa di cui è materiata, per lo spirito polemico ed apologetico che la pervade, è un meditato testamento di fede ed una patente lezione di coraggio cristiano. L'aspetto etico della concezione donabbondiana è tutto rivelato nella parola di Federigo: non avrebbe il Manzoni ideato quel colloquio né vi avrebbe dato luogo -- con tutte le variazioni e risorse drammatiche che la situazione stessa ispirava -- a così fervoroso sermone, se non avesse avuto in mente di servirsene per raccogliervi una parte notevole delle idee religiose che hanno prodisposto e ispirato l'opera letteraria; come, del pari, ha affidato alla parola dello stesso Federigo, nel colloquio con l'Innominato, l'ufficio d'illustrare la sua dottrina sulla potenza degli uomini e il segreto disegno della Provvidenza d'adoperarla a' suoi fini; a quella di fra Cristoforo l'ufficio di dimostrare, nel colloquio con don Rodrigo, la vanagloria de' potenti superbi e l'imperturbato valore dell'innocenza e dell'umiltà dinanzi a Dio, e, ne' discorsi agli sposi fuggiaschi e a Renzo nel lazzaretto, il pregio della carità e del perdono; s' è, infine, servito della parola di padre Felice^ per ammaestrare l'umanità, percossa e decimata dal flagello d'un' immane calamità pubblica, a riconoscervi un segno della misteriosa volontà divina^ un ammonimento all'amore e all'aiuto scambievole. La parte positiva della dottrina ha vivo risalto nella figura e neir opera di fra Cristoforo e di Federigo Borromeo. Nella parola di questo torna la teoria del coraggio, sparsamente trattata dal Manzoni nella Morale cattolica; vi torna, anzi, piti svolta a, quasi direi, esemplificata. Alla protesta della realtà, che ha tutta l'aria di essere conforme al buon senso: «il coraggio, uno non se lo può dare» (243), risponde la dottrina del Vangelo, che non si tratta d'averlo «naturalmente» il coraggio, ma di sentirne la necessità, di confidare in Dio che lo infonda e sorregga, di trarlo fuori dall' «amore intrepido», dal «timor santo e nobile per gli altri». Impossibile che non si faccia «naturalmente conto della vita», che «la debolezza della carne» non ci faccia «tremare» per noi; ma più forte ha da essere la voce della carità e del dovere (244). «Soffrire per la giustizia è il nostro vincere» (245) risponde Federigo a don Abbondio, a cui pare impossibile che non si debba desiderar di conservare la vita, e sembra vana ogni resistenza alla forza invincibile. Ma non è solo in questo dettame rigido e inesorabile tutto r evangelismo pratico del Manzoni. Quando Federigo ribatte: «Ma forse che tutti i ripari umani vi mancavano -- Non sapevate che l'iniquità non si fonda soltanto sulle sue forze, ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui (246)» ?, svolge con pienezza il contenuto della legge di Dio e della sua Chiesa; che, se prescrive di soffrire, incita altresì a combattere; che, se vuole l'amore, vuole altresì l'azione e la difesa. È questo il carattere positivo del cristianesimo manzoniano e, in particolare, della sua concezione morale del coraggio, considerato come sovrana, indispensabile energia delle missione cattolica: dalla qual concezione è balzata fuori, tutta d'un pezzo, la figura di fra Cristoforo. Questo e don Abbondio sono nati simultaneamente e per uno svolgimento dialettico di idee da quell'osservazione, che addietro ho riferita, degli effetti della paura ne' rapporti sociali. Tale problema pel Manzoni -- benché ne abbia ragionato con brevità -- è di somma importanza, in quanto implica i vincoli della carità e l'adempimento della giustizia. Quella di don Abbondio -- non ostante l'apparenza contraria -- è azione positiva: strumento di violenza nell' ubbidire all' iniquità con la trasgressione e il silenzio, diventa violento ed oppressore lui stesso nell' «ingannare i deboli», nel «mentire ai figliuoli» (247). E che oppressore inflessibile -- s'intende ne' limiti della pusillanimità -- fino all'ultimo, a cagione di quella paura! fino a provare una «meraviglia scontenta» nel riveder Renzo dopo la peste, a istizzirsi nell' indovinare ch'egli pensa ancora a Lucia (248); fino a rifiutarsi, in un certo modo blando e vago, ma sempre con «quella mutria», con «quelle ragioni», di maritare lui, nel loro paesello, i due giovani, quando ormai è quasi certo che don Rodrigo è morto di peste (249). Per contro fra Cristoforo è pronto e intrepido in campo fin dalla prima invocazione dell'innocenza oppressa e s'appiglia al partito d' «aff'rontare» il potente, di «tentar di smuoverlo dal suo infame proposito, con le preghiere, coi terrori dell'altra vita, anche di questa, se fosse possibile» (250). È il coraggio cristiano in azione: s' arma di pazienza, fin dalle prime parole e maniere arroganti di don Rodrigo, stretto a colloquio con lui, impegnandosi sempre «più alla sofferenza» dopo altre interruzioni più ingiuriose; gli dice le parole della verità e della giustizia; s'indigna fieramente prorompendo nell'anatema del giudice giusto sul peccatore caparbio, quando i mezzi della prudenza e della pazienza non servono più (251). Il coraggio neir adempimento della legge di Dio non ha limiti e se urta contro regole e convenzioni, che i zelanti vogliono difendere per riguardo alla religione, le supera con la forza della pura coscienza e a quelli risponde, come fra Cristoforo, la notte che raccoglie i suoi poveri profughi nella chiesetta di Pescarenico, a fra Fazio, col motto di S. Paolo: «Omnia munda mundis». Il coraggio, speso in un'opera di carità e di giustizia, può trovare un'amara «mercede» da parte di chi -- sebbene congiunto dai medesimi voti e fini nel servizio di Dio -- dà più valore alla regola e alla disciplina esteriore che allo spirito e ai benefici effetti delle opere cristiane, come capita a fra Cristoforo in una scena della prima stesura del romanzo (252). Il Manzoni ivi narrava come il buon frate, rientrato, dopo quella giornata santamente laboriosa, nel convento «a notte già fitta» oltre l'ora regolare, si vide anzitutto accolto dal frate portinaio «con quel maledetto misto di sussiego, di soddisfazione, di clemenza, di commiserazione e di mistero, che gli uomini (tranne l'uno per milione) mostrano sempre in faccia di colui che per qualche sventura sembra loro di stare in cattivi panni»; poi, giunto davanti «la faccia seria ?» del padre guardiano, si sentì da costui un' intemerata solenne, e perchè avesse violata la regola e che «il preporre le opere volontarie di misericordia all'obbedienza era segno di orgoglio e di amore alla propria volontà: che non era bene quel bene che non è fatto secondo le regole: che bisogna prima fare il dovere e poi attendere alle opere di surerogazione»; da ultimo si ebbe ingiunta la penitenza di recitare per «questa volta *, dacché era «il primo suo fallo contro la regola», «un miserere colle braccia alzate». Su tal «mercede» riflettendo, il Manzoni diceva dolorosamente che è «tristo chi ne aspetta altre in questo mondo» e poco prima, nel pennelleggiare, a tratti svelti, ma acuti, la figura morale del padre guardiano, vanitosamente lieto di cogliere in fallo r «irreprensibile» confratello e di poter finalmente «far uso sopra di lui della sua autorità >, osservava che «i frati e il guardiano avevano per lui più rispetto che amore», perchè fra Cristoforo non s'accordava sempre con la «condotta» e la «politica dei suoi confratelli e del suo capo, e più d'una volta aveva ricusato di operare di concerto con gli altri >. Non starò qui a riprendere la questione, da altri egregiamente discussa (253), per quali motivi e sotto quali influssi il Manzoni abbia da prima ideato e poi soppresso questo episodio nella definitiva redazione del romanzo; che ne vorrò trattare in luogo più opportuno; per intanto mi sembra che quell'episodio -- messo in relazione col tentativo di piegare la malvagia volontà di don Rodrigo e col ritorno alla casa di Lucia per confermare i suoi protetti, non ostante l'insuccesso della sua generosa impresa, nella fede e nella speranza, -- rifletta uno de' problemi della vita cristiana, che più stavano a cuore al Manzoni (e il pensoso commento sulle compense del mondo ne è l'indizio più persuasivo), quanto sia ardua^ cioè, e mal retribuita quaggiù la coraggiosa missione di coloro che tra l'iniquità, che non s'arrende alla parola del Vangelo, e l'intransigenza zelatrice della religione, che può scambiare per dovere ciò che, in certe circostanze, diventa pregiudizio od abuso o uno dei tanti rispetti umani, nel conflitto impegnato con r una, non tacciono né disarmano per la difesa del vero e del giusto, e nel contrasto, che non possono evitare con l'altra, non traggono argomento di disdegno e d'orgoglio dalla loro virtù, ma sì di speranza, e si compongono in dignitosa e generosa umiltà, come fa il nostro mirabile frate che recita «il suo buon miserere» per sé e per tutti^ anche pel suo malizioso censore. La virtù del coraggio cristiano negli uomini che hanno accettato d'essere ministri della verità non può non grandeggiare in Federigo, che incarna nella forma più elevata e pura l'ideale religioso del Manzoni, non solo per la gioiosa premura con che accoglie l'Innominato e per quel suo rimproverarsi di non essere andato lui a cercarlo, ma anche per il linguaggio grave, franco, < così insolito» al terribile bandito, che usa nel mischiare all'effusione di carità e di conforto la condanna della nefasta potenza dell'uomo, «Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere ?, che gloria ne viene a Dio -- Son voci di terrore, son voci d'interesse; voci forse anche di giustizia, ma d' una giustizia, così facile, così naturale ! alcune forse, pur troppo, d'invidia di codesta vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi, deplorabile sicurezza d'animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita ed accusar voi stesso, allora ! allora Dio sarà glorificato» (254). Vogliono esser queste parole di Federigo il lirico svolgimento del motivo fondamentale racchiuso nelle prime parole ripercotenti quella disperata domanda dell'Innominato: «Ma Dio!... cosa volete che faccia di me?»; ma qui importa rilevare il santo ardimento del ministro di Dio nel rappresentare al peccatore potente gli effetti delle sue opere detestate, della nefasta potenza, della ancor più nefasta imperturbabilità nel male. ? «Chi siete voi, pover'uomo, che vi pensiate d'aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio non possa farvene volere e operare nel bene» (255) -- -- prosegue Federigo, contrapponendo alla potenza malefica dell'orrenda vita finora vissuta dal grande scellerato la grazia illuminante di Dio nella sua vita avvenire; accennando alla quale non si perita di mettergli nel cuore ferme, inesorabili quelle parole: -< nella nuova vita avrete tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere» (256)! Dall'esposizione de' principi della dottrina morale e religiosa del Manzoni e dalla trattazione de' particolari problemi ch'egli ne fa discendere, resta provato che il suo pessimismo etico, se derivò con coerenza e fermezza dall'antitesi perpetua delle verità del Vangelo con le condizioni della vita umana, lungi, però, dall' abbandonare la sua mente alla sterile negazione del mondo, l'inalzò ad un'indulgente comprensione del male e degli errori umani e ad un saldo e operoso idealismo cristiano. L'ispirazione etico religiosa nella genesi primitiva de' «Promessi sposi e ne' successivi rinnovamenti I. Le predisposizioni apologetiche e moralistiche. -- II. La visione pessimistica dell'uomo e della società del Seicento nella prima stesura. -- III. Altri atteggiamenti e riflessi di forte pessimismo psicologico e sociale nell'originaria concezione del romanzo. -- IV. L'unificazione della duplice tendenza pessimistica e idealistica nella più alta e serena concezione cristiana del romanzo rinnovato. I. La disamina, sin qui fatta, de' principi fondamentali e de' problemi e motivi che costituiscono, dirò così, il sostrato etico-religioso de' Promessi sposi può essere opportunamente integrata da uno studio più intimo, che dal fortunato possesso del primo getto dell' opera ci è ormai largamente consentito, di quella che potremmo dire la storia genetica del mondo morale rispecchiato nelle forme di vita e di poesia del capolavoro. Vedere, cioè, con quali disposizioni e tendenze la coscienza cristiana del Manzoni si sia preparata all'opera e l'abbia via via disegnata e ripensata e trasformata con laborioso sforzo d'approfondimento e di purificazione della materia e de' motivi, derivati dalla sua concezione morale, ovverosia religiosa, dell'uomo e della sua storia, ecco quanto è lecito fare a compimento della presente ricerca. Gli anni tra il '19 e il '21 sono date solenni nella storia dello spirito manzoniano. È allora che lo colpisce la nota censura del Sismondi riguardo agli effetti della morale della Chiesa cattolica sul carattere e la vita secolare degl' italiani e vi suscita quella grave e profonda discussione dottrinale -- l'abbia o no sollecitato al gran lavoro mons. Tosi -- che si concreta in quell'opera, modestamente intitolata «Osservazioni sulla morale cattolica» (*), in cui rivive con la schietta spiritualità, del Vangelo or la gagliarda e serrata eloquenza d' un Bossuet e ora la fervida analisi psicologica d'un Massillon. Eccolo intanto a rimeditare il problema religioso in Italia, ad approfondire i principi essenziali del cristianesimo, ad illustrare con vivacità apologetica il contenuto morale dell'insegnamento evangelico e delle istituzioni e dottrine fondate dalla Chiesa, ad esaltarne l'officio educativo nel mondo. E un ardore, codesto, che non posa neppure dopo la composizione e la stampa della «Parte prima», ma prosegue, tra la fine del '19 e il '20 in Milano e durante il soggiorno parigino, nel serio e vasto disegno della «Parte seconda» (?^), che, se non ottenne l'organica compiutezza di quella, ha ricchezza di dottrina e vigor dialettico non minore e, a tratti, pari eloquenza. Nel 1819 medesimamente dava compimento al Carmagnola (^), ripigliava il soggetto della Pentecoste, secondo un nuovo concetto e disegno (??), e sulla fine dell' anno seguente si metteva a lavorare attorno V Adelchi con l'intento di condurlo a termine nella primavera dell' anno dopo (^); e, intanto, ne' primi mesi di questo ideava e cominciava la prima stesura del romanzo e componeva d'impeto, nel maggio, l'ode napoleonica. «Travaglio» come scriveva in que' giorni Ermes Visconti {^) straordinario in così breve giro di tempo. E s' aggiunga che nel novembre di quel medesimo '21 poneva termine, non solo, come s'era ripromesso, alla tragedia d'Adelchi, ma altresì al Discorso storico sui Longobardi e veniva già correggendo l'una e l'altro per la stampa e in que' giorni anche si proponeva di preparare un altro discorso, da lungo tempo meditato, sull' influenza morale della tragedia; dopo di che avrebbe ripreso il romanzo o dato principio ad una tragedia (ecco il tempo delle vivaci Postille polemiche alla storia romana del Rollin) ad una (1) Scritte e pubblicate in pochi mesi dalla fine del '18 (v. Cart. cit., p. 416) alla primavera del '19, in cui furon date immediatamente alla stampa per cura del can. Tosi (V. Cart. cit., p. 419). (2) V. in Cart. cit. la lett. del can. Tosi all'ab. Lamennais del 28 die. 1819 e quella a Giulia Manzoni del 29 apr. 1820 (pp. 455 e 489). (3) V. Cart. cit., p. 455. (4) V. il mio studio sulla Composizione della " Pentecoste ?, Milano, Albrighi, Segati e C, 1920. (5) V. lett. dal 17 ottobre 1820 in Cart. cit., p. 499. (6) L'amico scriveva allora al Fauriel che il Manzoni pareva " un altro uomo,, quando lavorò sul Caì-rnagnola e. poi, sull'Adelchi, e che il lavoro lo rianimava e rallegrava (V. Cart. cit., p, 504). tragedia su Spartaco (*), È questo, dunque, il periodo non solo della maggiore fecondità del poeta, ma anche della più ardente e meditativa attività del pensatore cristiano e del critico della storia. Dacché il Manzoni, mentre maturava l'Adelchi, veniva disegnando il romanzo degli Sposi promessi e tra il compimento di quello e il proseguimento di questo vagheggiava medesimamente un dramma d' oppressi e d' oppressori sullo sfondo storico della rivolta spartachiana e sul motivo evidente del conflitto, tra la superba e feroce, com'ei la giudicava, morale degli antichi e i presentimenti della novella fede redentrice del mondo, ciò presuppone un pensiero comune, una comune disposizione dell' intelletto e del sentimento, una comune concezione morale dell' uomo e della storia; l'avere nel medesimo tempo atteso all'indagine e alla meditazione storica e ripreso in esame la questione della moralità delle opere tragiche, è cosa parimente che indica un indirizzo di studi e di riflessioni che con quelle tendenze e aspirazioni ha uno stretto legame. All' inizio di questo rinnovato fervore di dottrina e d'arte sta la Morale cattolica nella parte compiuta e nel materiale preparato per la seconda. Di essa principalmente mi sono servito ne' precedenti capitoli per ricostruire il pensiero morale, religioso e sociale del Manzoni, al fine di determinare i principi informatori e i motivi, suscettibili di trasfigurazione poetica, di quel mondo ch'egli ha riflesso ne' Promessi sposi,' ad essa dobbiamo porre tuttavia piìi diretta attenzione, per illustrare la primitiva concezione morale del romanzo, per indagare anzitutto in quale stato d'animo si mise all'opera e come su questa si riverberasse lo spirito delle recenti discussioni apologetiche; nello stesso modo che degli studi storici, delle idee letterarie, di lunga mano meditate, ma allora riordinate ed esposte, e massimamente della concezione etica del dramma storico, quale in quegli anni s'era formata meditando sullo Shakespeare e sul Bossuet, vedremo a suo tempo gì' influssi nel primitivo concetto e disegno dell'opera, ormai nota col nome di Sposi promessi. La prima volta il romanzo uscì dalla coscienza e dalla fantasia del Manzoni con le severe impronte della Morale cattolica, co' segni, cioè, più risentiti ed espressi, di quel pessimismo cristiano, i cui principi e motivi abbiamo potuto massimamente raccogliere appunto dalla «Prima» e dalla «Seconda parte» di quella dissertazione apologetica. Esso è manifesto -- e le ulteriori analisi della prima (1) V. Cari, cit., p. 517. Per questo soggetto sappiamo che veniva allora diligentemente raccogliendo il materiale storico e studiando i tempi, e che disegnò delle «divisioni cronologiche» per la trama drammatica (V. Opp. in. o r., voi. I, pp. 275-88;. Stesura ne saranno dimostrazione e conferma -- nella concezione e nella dipintura de' caratteri dei personaggi, nella descrizione di certe situazioni, nello svolgimento generale dell'azione e nel destino risolutivo d' alcuni colpevoli. Già io stesso in alcuni miei saggi (^) ho avuto occasione d' accennare alla piìi alta e più delicata pietà cristiana, alla più serena meditazione e più profonda comprensione etica con cui il Manzoni ha riguardato, riconcepito e riatteggiato la complessa materia del romanzo nella forma definitiva; più di recente ne ha trattato con maggior larghezza Attilio Momigliano (^), il quale giustamente osserva, a proposito dell'atteggiamento etico-religioso negli Sposi promessi, che «qualche volta sembra di vederci, come negli Inni sacri minori, più che il credente da molti anni convinto, il neofita entusiasta e quindi anche un po' insistente e non sempre animato dalla fiamma lucida e immobile d'un sentimento, ormai connaturato col suo spirito» (^), e fa opportuni rilievi sui personaggi per dimostrare che, se pur negli Sposi promessi «la religiosità c'era, e profonda», era, però, «insistente e frondosa e metteva troppo in vista lo scopo edificante» {*): dimostra, insomma, che «una delle differenze principali fra la prima minuta e la prima stampa consiste nell' elevarsi dei pensieri, dei fatti, dei personaggi -- anche di quelli malvagi -- in un' atmosfera morale più pura e più vasta» (^). Vedremo nello studio della genesi psicologica e poetica de' singoli personaggi, pel quale ci gioverà massimamente il raffronto analitico tra la minuta e la stampa, se questo processo d'elevazione più nobilmente religiosa sia stato sempre, per tutti i casi e per tutti i personaggi, mantenuto dal Manzoni. Certo h che il primo getto del romanzo risentiva in modo più suggestivo e immediato il contatto ideale con le pagine della Morale cattolica, nutrite di così austera fede e di così eloquente dottrina; attorno alle quali, per giunta, il Manzoni lavorava ancora nel tempo che veniva ideando e disegnando il romanzo; risentiva -- ciò che più importa notare -- del. medesimo appassionato spirito apologetico e polemico, onde quelle erano informate, e non rifletteva ancora quella benigna e profonda visione del male e del dolore, ispiratrice di pietosa e sorridente indulgenza. (1) Saggi manzoniani, Napoli, Studio edit. dell'* Eco della cultura», 1916, pp. 26, 28, 36, 39. (2) La trasformazione degli «Sjjosi promessi», in Giorn. stor. d. lett. ital., LXX, 61 e segg. (3) Op. cit., pp. 76-7. (4) Op. Cit., p. 79. (5) Op. Cit., p. 64. che ha illuminato il poeta nel rinnovamento spirituale dell'opera sua. La tesi etico-religiosa, oltre alla tesi storica, come vedremo nel capitolo seguente, vi si rilevava con ostentata premura; né c'è da meravigliarsi, giacche quel medesimo spirito rigoroso e accorato con cui il moralista cattolico aveva difeso la morale religiosa dalle accuse dell' acuto storico calvinista, dimostrando con pertinace dialettica che la cagione de' nostri mali ed errori non è ne' precetti, nelle istituzioni e nell'opera della Chiesa saldamente fondata sul Vangelo, ma nell' aberrare lontano da essa, ne' sofismi della ragione e delle passioni, nella violenza degl'istinti, nella confusione dell' utile col giusto e massime nello straniarsi dalla carità, e aveva coraggiosamente sostenuta la necessità che si svelino e combattano -- giacché ci sono -- le superstizioni e gli abusi nel seno stesso del cattolicesimo e da chi ha più fervore di fede, non poteva non avere un'eco profonda nell'abbozzo d' un'opera, a cui concorreva non meno la meditazione religiosa (^) che lo sforzo d' analisi psicologica e di rappresentazione poetica e in cui appunto le verità del Vangelo venivan messe a duro cimento con le passioni del mondo. Di qui la mediocrità artistica -- salvo pochi casi -- della forma primitiva, pojchè qualunque realtà, che diventi materia soggettiva d'un mondo poetico, non può essere compenetrata d'umanità profonda né illuminarsi di pura luce fantastica, quando ancora la soggioghi ed agiti una tesi dottrinale, una passione civile, insomma una preoccupazione pratica e intenzionale dello spirito. Insieme con lo scritto apologetico per la morale cattolica, concorrono opportunamente ad illustrare l'influsso del rigorismo religioso sulla genesi primitiva de' Promessi sposi le riflessioni che il Manzoni faceva sullo stato della Chiesa e della religione in Francia durante il suo soggiorno, non breve, a Parigi, dov'era andato intorno alla metà del settembre del 1819 e donde tornò al principio d'autunno del '20. C'è una lettera di que' giorni al can. Tosi ('), nella quale, oltre ad esser visibile V influsso del padre Gregoire ne' giudizi espressi sullo stato e il problema religioso in Francia e sull'opera dell' ab. Lamennais, sono osservabili il pensiero commosso (1) che tutto il suo intelletto fosse pieno e dominato dall' «evidenza della religione cattolica» e ne dovessero essere conipenetrati tutti i suoi scritti, confessava lo stesso Manzoni alla contessa Diodata Saluzzo (lett. dell' 11 genn. 1828, in Epist. cit., voi. I pp. 362-3); che le intenzioni cristiane, anche se non ispirarono direttamente il romanzo, vi prendessero posto per compiacere alla sua coscienza e per rendere omaggio alla verità, dichiarava l'autore stesso al suo traduttore, il march. G. B. de Montgrand (lett. del 31 genn. 1832, in Epist. cit., voi. I, p. 433). (2) Lett. del 7 apr. 1820, iu Cari, cit., p. 481 e segg. che tutta occupa l'anima del giovine credente, il calore con cui difende Io spirito evangelico e la verità unica della religione cattolica, le dimostrazioni di dolore per le aberrazioni altrui in materia religiosa, pel discredito, in cui era caduto colà il sentimento religioso, per r abuso dello stesso clero, che adoperava la religione come arma d'assolutismo politico, per la confusione, insomma, irta d'odi, di contese, d' asprezze, tra la politica e la religione. «Del resto -- scriveva con alto movimento lirico il Manzoni -- i grandi libri del secolo decimosettimo dimenticati; la memoria dei loro autori trattata come Ella ha veduto in quel libro che le ha dato tanto dolore, la cattedra evangelica convertita spesso in tribuna politica, le lettere pastorali divenule spesso «pamphlets» politici (e che pamphlets!), l'essenza del Cristianesimo, l'amore di Dio e del prossimo, l'annegazione, l'indulgenza, il perdono divenute cose secondarie, le grandi massime dimenticate, l'ignoranza crescente, il Pelagianismo trionfante». E pochi mesi innanzi allo stesso Tosi (*) e sul medesimo argomento aveva scritto: «a malgrado degli sforzi di alcuni buoni ed illuminati cattolici per separare la religione dagli interessi e dalle passioni del secolo, malgrado le disposizioni di molti increduli stessi a riconoscere questa separazione, e a lasciare la Religione almeno in pace, sembra che prevalgano gli sforzi di altri che vogliono assolutamente tenerla unita ad articoli di fede politica, ch'essi hanno aggiunti al Simbolo, Quando la Fede si presenta al popolo così accompagnata, si può mai sperare ch'egli si darà la pena di distinguere ciò che viene da Dio, da ciò che è l'immaginazione degli uomini»? Ed era appunto questo il tempo che il Manzoni lavorava seriamente intorno «al secondo tomo promesso» della Morale cattolica, proprio in Parigi^ dove non ne aveva portato che «i primi schizzi»; il tempo che all'uopo raccoglieva materiale abbondante e ne discuteva e vi rimeditava sopra, tanto che il Tosi ripromettevasi C^), al suo ritorno, la compiuta l'edazione di essa parte seconda; la quale ne' sette capitoli sparsi e ne' frammenti che -- come si sa -- rimasero inediti conteneva appunto idee e discussioni, così strettamente connesse con le amare riflessioni delle due lettere citate, sui rapporti della religione cattolica con lo spirito del (1) Lett. del 1. die. 1819, in Cart. cit-, p. 451 e segg. (2) Queste notizie si desumono dalla lettera già cit. del can. Tosi all' ab. Lamennais e a Giulia Manzoni, le quali provano che il lungo discorso sullo Spirito del secolo non può essere stato composto prima del '19, come congettura il Bonghi. (Avvertenza prem. all'ediz. della Parte seconda, in Opp. in. o. r., voi. Ili, p. 238, n. 1), prima, cioè, della pubblicazione della Parte prima, e che il maggior numero di que' capitoli furono scritti, o almeno abbozzati, sul finire del '19 e nel corso del '20. secolo, con le idee de' filosofi razionalisti, massime del Settecento, con le istituzioni e le vicende politiche della società. Dal che possiamo trarre alcune conclusioni: che giammai come in questi anni, dal suo ritorno alla fede, il problema religioso occupò tanto intensamente il cuore e l'intelletto del Manzoni e che novello incitamento a rimeditarlo, ad approfondirlo in tutte le sue parti furono non meno le accuse d'uno storico di tanta autorità e rinomanza, qual era il Sismondi, che lo spettacolo offertogli dalle agitazioni politico-religiose del pensiero francese contemporaneo; che lo scopo onde riceve unità d'intenti e di dottrina ogni suo scritto su materia religiosa, compiuto o incompiuto che fosse nel giro di quel fervido triennio dal '19 al '21, fu di distruggere l'accusa che la morale cattolica fosse stata e fosse tuttavia «cagione di corruttela per l'Italia», di provare che essa, al contrario, «è la sola morale santa e ragionata in ogni sua parte e che ogni corruttela viene anzi dal trasgredirla, dal non conoscerla o dall' interpretarla alla rovescia» (*); che, infine, nel primo trasmutarsi agitato e alquanto scomposto della sostanza etico-religiosa nella varietà de' motivi sentimentali del romanzo in cui hanno avuto la lor genesi il dramma, i personaggi e ogni altra rappresentazione poetica, il moralista prepotè sul poeta, la passione dell'apologista cattolico, non ancora riposata dalle recenti discussioni e impressioni, continuò, per dir così, a fermentare nella concezione morale di quel mondo umaro, in parte evocato dalla storia e in parte fantasticamente intuito. II. Che il Manzoni ponesse mano alla prima composizione del romanzo con l'animo, se non dominato, certamente turbato da tendenze polemiche e pessimistiche, lo prova quel suo vigile atteggiamento di commentatore e, spesse volte, di censore de' fatti che narrava e de' personaggi e delle situazioni loro, che veniva descrivendo. Era un aspetto di quel soggettivismo critico che nella prima stesura preponderava, perturbando la pura contemplazione artistica, nella duplice forma del moralismo e dell'intellettualismo, e che per essere una tendenza d'origine e, dirò anzi, un abito della mentalità manzoniana, ha lasciato -- non ostante il successivo lavoro d'eliminazione e di affinamento -- impronte evidenti nell'ultima redazione. Quelle ad ogni modo, più profonde e più copiose, della prima rive (1) V. Prefazione alle Oss. s. mor. catt., p. 123. lano un momento considerevole nella formazione genetica dell'opera, nel quale la meditazione storica, ovverosia l'analisi dell' indole e de' costumi della società secentesca, appassionava l'animo del moralista cattolico e l'allettava alla meditazione de' motivi e de' problemi morali, cosi che il raziocinio inframmettevasi frequentemente nell'elaborazione fantastica della materia per intesservi apprezzamenti, giudizi e di tanto in tanto imprevedute dissertazioni. L'abbondante materiale d' ispirazione intellettualistica e moralistica, frammischiato al romanzo e alle inevitabili narrazioni storiche, è la più probatoria testimonianza di quelle predisposizioni e preoccupazioni intellettuali e morali che presiedettero alla preparazione dei Promessi sposi e alla loro prima formazione. Soffermiamoci, per ora, sulla parte moralistica per dimostrare con nuove prove come la primitiva genesi del romanzo si connettesse agli scritti dottrinali del poeta e a certa disposizione pessimistica del suo sentimento cristiano. Rude ed aspro il giudizio della perversità degli uomini e de' loro difetti morali, quando non era atrocemente ironico; spietata l'analisi delle aberrazioni sentimentali e mentali del Seicento italiano; ostentatamente rigoroso l'esame della falsa religiosità di que' tempi: dolce il riposare la mente e il cuore nel ricordo del cardinal Federigo distraendosi dalla «rude, stolida, schifosa perversità» ('), su cui s'era dovuto trattenere così a lungo. Nel descrivere il furore dì Renzo dopo la forzata rivelazione di don Abbondio, osservava che «i provocatori, i soperchiatori, tutti quelli che in ogni modo invadono i diritti altrui, sono rei non solo del male che fanno, ma del pervertimento a cui portano gli animi dì coloro che offendono» (*); alla qual riflessione (importa notarlo pel nostro assunto) corrisponde una delle Postille alla Histoire des empereurs romains del Crevier(^) che io ritengo scrìtte, se non nel '19, almeno prima della composizione del romanzo. l'analisi de' vagheggiamenti peccaminosi della signora di Monza metteva capo a questa meditazione: «le consolazioni della mala coscienza profittano altrui come al fi lli Sp. prom., p. 354. Più mite e anche più esatto ne' Prom. sp.: «dopo tante immagini di dolore, dopo la contemplazione d'una molteplice e fastidiosa perversità» (cap. XXII, p. 3161. (2) Sp. proni.., p. 41. Cfr. Prom. sp., cap. ITI, p, 40. (3) «Les injusiices extrèmes portent souvcnl ceux qu' en souffrent à un grand degré de perversité; la cause n'est pas ime excuse pour eux, mais il est bon de 1;l remarquer, et il r('est pas juste de leur atlribuer tout le blàme du mal qu'ils font» (in Opp. in. r., voi. II, p. 313). Si noti che il Manzoni postillava un'edizione parigina del 1818. gliuolo di famiglia le somme ch'egli tocca dall'usuraio» (^); la quale pare rifiorita di su una pagina eloquentissima della Morale cattolica, dove il Manzoni aveva ragionato delle «vantate consolazioni» dell' «orgoglio» (^). Nel tratteggiare il cupo e amaro scetticismo della pervertita, rifletteva severo e doloroso: «V ha nelle teorie del vizio qualche cosa di più pensato, di più profondo, di più verosimile che non appaia nelle massime del dovere espresse in un modo volgare e talvolta inesatto j di modo che il pervertimento può parere facilmente un progresso di ragioni. Ben è vero che al di là di quelle teorie ve n'ha una più profonda e vera che mostra la loro fallacia; ma questa non è dato trovarla se non ad una meditazione potente o ad un sentimento retto» (^). In una lunga finissima analisi del contegno degli onesti in cospetto de' birboni, a proposito della visita di padre Cristoforo a don Rodrigo, ne studiava la diversità nella vita e nel teatro: qui, dove «si vive meglio che a questo mondo», se le birbonerie, le scelleratezze sono più «colossali», per compenso i difensoi'i delle cause giuste hanno «in faccia dell'empio ancor che trionfante una sicurezza, una risoluzione, una superiorità di animo e di linguaggio, che dà loro la buona coscienza»; nella vita, invece, dalla considerazione de' «mezzi» da adoperare, degli «ostacoli», da affrontare, dallo studio di cautela, di riguardo derivante dalla responsabilità della causa assunta, sono messi in uno stato d'imbarazzo, «d'angustia e di vergogna che si crederebbe rimorso»; onde, ne' fatti e ne' discorsi, finiscono con l'essere soverchiati di fronte «ai loro avversari risoluti ed incoraggiati dalla forza e dalla abitudine di vincere» e «spesse volte, convien dirlo, dal favore o sciocco o perverso degli spettatori > {*). Non è chi non senta il fondo amaro di queste riflessioni, ispirate dalla realtà della vita, e la fiera angoscia che stringe il cuore al moralista al pensiero che venga meno la certezza e r ardore nel duro contrasto: «pur troppo, tolti alcuni casi, l'uomo che non ha che sé per testimonio e per approvatore, e che vede negli altri contraddizione e scherno, perde facilmente fiducia e quasi quasi è disposto a dubitare» (^). < Fortunatamente -- osservava in altro luogo -- è un disegno sapientissimo della Provvidenza regolatrice del mondo, che le perfidie le più studiate a danno altrui (1) Sp. prom., p. 242. (2) Oss. s. mor. catt., p. 343. (3) Sp. prora., p. 243. (4) Sp. prom., pp. 87-8. (5) Ivi. non sono mai tanto bene studiate, tanto bene eseguite, che non rimanga sempre qualche traccia della mano che le ha ordite. l'uomo, che intraprende una buona azione, quando sia un po' avvezzo a riflettere, prevede sovente^che non sarà senza inconvenienti: i birbanti avrebbero una parte troppo buona nelle cose di questo mondo, se dovessero nelle loro birberie essere esenti da ogni perplessità» (^). ' Consolante certezza de' limiti e difetti della stessa potenza del male nel mondo, che, temperando la dolente visione del [duro contrasto dei buoni coi tristi, suggeriva, fin dal primo disegno del romanzo, i modi e le risoluzioni del dramma morale affacciatosi alla meditazione del poeta. Ma di questo dramma prevalevano pur sempre le impressioni e i risalti d'intonazione pessimistica. La delicata mestizia, per es., dell' * Addio, monti» dell'ultima maniera non si ritrovava certamente nella prima stesura e tanto meno in quella seconda redazione (non meno di tre ne tentò il Manzoni prima di giungere alla definitiva), in cui suonava cupo e fremente il commento all'angosciosa fuga degli sposi già in quel motivo iniziale: «L'uomo sa tormentare l'uomo nel cuore; e amareggiargli il pensiero di modo che anche la memoria dei momenti passati lietamente affacciandosi ad esso, perde ogni bellezza, e porta un rancore non temperato da alcuna compiacenza», e ripeteva le sconsolate parole, già messe in bocca a fra Cristoforo nella prima stesura dell'opera^ nel paragonare al serpente usurpatore delle umane abitazioni l'uomo, che «pure caccia talvolta l'uomo sulla terra, come se gli fosse destinato per preda», così che «il debole non può che fuggire dalla faccia del potente oltraggioso»; al che seguiva severa, recisa la predizione evangelica: «ma i passi affannosi del debole sono contati, e un giorno ne sarà chiesta ragione» (?^). La dottrina del coraggio cristiano, della quale abbiamo visto quanta parte avesse nel pensiero religioso del Manzoni e nell' ispirazione etica del romanzo, lasciava travedere nella prima composizione dell'opera lo sfori. della tesi: il moralista tentava di prendere la mano al poeta. Basterebbe raffrontare la prima e l'ultima redazione del colloquio di fra Cristoforo con don Rodrigo. A parte la maggior copia di modi vivaci (^), eh' era nel discorso del frate, e (1) Sp. prom, p. 335. (2) Sp. prom, App. F* pp. 805-6. (3) La frase, ad es., della stampa: «per soverchiare due innocenti» {Prom. sp., cap. VI, p. 75) diceva prima cosi; «per sopraflFare indegnamente due poveri innocenti» (Sp. prom., p. 101) - Quel «non s'ostini a negare una giustizia così facile, e cosi dovuta a de' poverelli» {Prorn. sp., cap. VI. p. 76) suonava: «non si ostini a la risolutezza più spedita nell'espressione del pensiero (1), uscivano dalle sue labbra sentenze minacciose e fieri giudizi, che il Manzoni, poi, ha corretto o addirittura soppresso. Così, dopo aver detto della vanità della gloria mondana dinanzi agli uomini e, tanto più, dinanzi a Dio, l'ardito difensore di Lucia sermoneggiava minaccioso come dal pulpito: «Fare il male è concesso sovente all'ultimo degli uomini: il più vile dei banditi può far tremare. Non v' è disonore a ritrarsi dall'iniquità: la codardia sta nel fare delle azioni inique per timore di scomparire dinanzi ai tristi. Signor Don Rodrigo, le parole eh' io proferisco ora dinanzi a lei sono numerate, un giorno le potrebbero esser fatte scontare ad una ad una da Colui che me le ispira» (2). Dopo lo scoppio di sdegno alla turpe proposta del suo interlocutore, ammoniva anche più rudemente, franco e minaccioso: «Ne ho visti di più potenti, di più temuti di voi; e mentre agguatavano la loro prèda, mentre non avevano altro timore che di vederla fuggire, la mano di Dio si allungava in silenzio dietro alle loro spalle per coglierli» (3). C'erano pure altri' luoghi che rivelavano r intenzione apologetica dello scrittore cristiano, come quella «parenthèse apologetique», quale la definiva il Fauriel consigliando di sopprimerla: «Quando si è persuasi d'una verità bisogna dirla; l'adulazione ad una opinione predominante ha tutti i caratteri indegni di quella che si usa verso i potenti» (4). Era questa un'idea viva e insistente nel pensiero civile e religioso del ]\Ianzoni e strettamente congiunta con la sua dottrina del coraggio cristiano: ispiratrice segreta di molta parte del romanzo, trovava la più efficace conferma nelle aberrazioni della società secentesca, movendo e appassionando a un tempo il filosofo della storia e l'ar volere una misera, una indegna soddisfazione a spese dell'anima sua, e delle lagrime dei poverelli» (S^ì. proni, p. 102). Mandato da Dio «a pregare per una innocente»: così ora fra Cristoforo dice di sé; ma prima diceva: «ad avvertii'la di non toccare una innocente, lasciare in libertà una innocente» (Sp. ììvom., p. 103). (1) La delicata reticenza del testo: «Lo può; e potendolo la coscienza, l'onore ?» {Prom. sp., cap. VI, p. 75) non e' era; ma, anzi, e' erano aperte e imperiose l)arole: «Lo può e ardisco dirle, lo deve. La sua coscienza, la sua .sicurezza, il suo onore, sono interessati in questo sciagurato affare» (Sp. prom., p. 101). In luogo di quella frase, piena di senso pauroso, ma pur essa sospesa; «li' innocenza è potente al suo....» (Prom. S2}., cap. VI, p. 76) c'era quasi una diretta intimazione: «risparmi l'innocenza» (Sp. prom., p. 102). E parimente l'indefinito, il vago di quelle parole: «Lei può molto quaggiù, ma ?» è una novità del testo, che nella prima stesura c'era un preciso, minaccioso invito «a ritrarsi dall'iniquità» (Protn. sp., p. 76; Sp. prom., p. 103). (2) Sp. proin., pp. 102-3. ' (3) Sp. prom., pp. 104-5. (4) Sp. prom, p. 60 e n. 2. tista nella descrizione de' tumulti per la carestia, nelle narrazioni delle vicende connesse e nell'analisi rigorosa della comune follia. 11 Manzoni pensava che il maggior coraggio è appunto nel resistere e opporsi alle false opinioni generali; che i pregiudizi e gli errori nascono dalla passione e prosperano con la viltà. Era questo il dramma intellettuale e morale del Seicento, che egli scrutava con tanto più vivo interesse, in quanto sulle opinioni dominanti nelle varie età veniva in quel torno di tempo meditando e scrivendo, come abbiam visto, per preparare la seconda parte della Morale cattolica. Che l'indagine, rivolta -- pur tra i limiti imposti dalle esigenze dell' arte -- alle aberrazioni non meno delle idee che de' sentimenti di quell'età, fosse una delle sue cure maggiori nell' accingersi all'opera, non v'ha dubbio: ad alimentarla vi contribuì in parte, come vedremo, il concetto ch'egli s'era fatto del romanzo storico; ma valsero massimamente i recenti studi religiosi e le vivaci discussioni apologetiche, che tuttavia appassionavano la sua coscienza. Gli Sposi promessi sono un'opera di transizione nella storia mentale e artistica del genio: stanno tra la florale cattolica e i Promessi sposi a significare la meravigliosa fatica interiore sostenuta dal moralista religioso per trasformarsi nel poeta cristiano. Il Manzoni non tralasciava occasione per dare il più severo rilievo non meno alla barbarie intellettuale che alla ferocia delle passioni di quella troppo vilipesa età della vita italiana. Si veda, per es,, come esaminasse l'idea e il sentimento dell'onore e delle derivate costumanze di quel tempo. «Le massime di puntiglio e di vendetta allora si consideravano come leggi eterne e naturali di onore» (1). «La vendetta era comunemente stimata non solo lecita ma onorevole». Non poteva nulla la parola del Vangelo contro «questa massima perversa» -- «L'opinione quasi generale sussisteva col favore di una distinzione», della quale scrive il Manzoni, guardando con amarezza al «vivere presente», che «a malgrado della sua assurdità, o forse a cagione della sua assurdità, non è ancora del tutto caduta in disuso». «Si diceva» cioè, «che i preti facevano il loro dovere, che dicevano benissimo che la vendetta secondo la religione era viziosa, ma che ella era un dovere secondo le leggi dell'onore; così si diceva e non dai più perversi, né dai più stolti». Esse «domandavano sangue per molti casi; senza che questo onore cosi delicato si stimasse poi offeso se per necessità il sangue (1) Sp. prom., p. 72. si fosse dovuto versare a tradimento o per mano di sicari». «Allora v'erano molti casi in cui l'avere ucciso o fatto uccidere, non toglieva alla riputazione d' un uomo»: la giustificazione, resa «dinanzi all'opinione pubblica», che piìi spesso era «un leggero interesse, una picciola passione», bastava «dinanzi ad opinione già tanto perversamente indulgente» (1), Che anche i meno tristi fra i tristi trascorressero all'omicidio per una falsa idea dell'onore era la dolorosa verità che ritornava nelle parole di fra Cristoforo, rammemorante a Renzo il suo delitto: «V'era una cosa che io amavo troppo. Sì, figliuolo, ciò eh' io chiamavo il mio onore, io lo amava ardentemente, sopra ogni cosa come avrei dovuto amar Dio. E quando la vita d'un uomo... gran Dio! la vita d'uno fatto a vostra immagine! si trovò in confronto col mio onore, io gliel' ho sacrificata» (2). In questi tristi ricordi, in queste sconsolate riflessioni e in altre che seguivano nel colloquio con Renzo il Manzoni aveva r intenzione di svolgere il motivo etico di quella feroce idea dell'onore che, secondo il suo giudizio di storico e di moralista, aveva pervertito lo spirito e i costumi della società del Seicento: la tesi dottrinale traspariva da quella scena^ non che da quella svoltasi due volte in casa di Lucia tra lo stesso padre Cristoforo e Renzo furibondo di vendetta, massime la seconda volta pel modo concitato e quasi violento (3). Ebbene, il Manzoni se ne dovette accorgere, dacché le rifece radicalmente, quella del lazzaretto e la prima, avvenuta nella casa della sposa, contenendo in modi sobri e succinti, l'altra addirittura sopprimendo (4). Dove pure il Manzoni scopriva il pervertimento del secolo era nell' «iniquo furore» contro i presunti untori. Parecchio si sofferma su questo argomento nell'ultima redazione; ma molto di più ne aveva scritto nella prima stesura. Ritrovava la maggiore causa del fenomeno non tanto nell'ignoranza e nella «falsa scienza delle cose fisiche» e in altre circostanze, da lui accennate, quanto nell' «irreligione», poiché se quelle «poterono far ricevere comunemente l'opinione astratta di unzioni e di congiure, furono certamente -- osservava -- le disposizioni anticristiane di quel popolo corrotto che rendettero quella opinione attiva e feroce nell' applicazione. Nessuna ignoranza avrebbe bastato a così orrendi effetti . . ., se fosse stata insieme congiunta con quella carità, che è paziente, benigna, che non s'irrita, che non pensa il (1) Sp, prom.^ pp. 235-6. V. anche App. G., p. 818. (2) Sp. prom., pp. 716-7. (3) Sp. prom., pp. 83-4, 119-21. (4) V. i miei Saggi manz. cit., j)p. 6, 9-10. male, che tutto soffre > (1). E veramente ciò che caratterizzava il Seicento agli occhi del Manzoni era qualcosa d'eccessivo, di fantastico nel male e perfino nel bene; onde dopo avere descritta, più ampiamente nella prima redazione (2) che nell' ultima, la parte eroica sostenuta dalla religione al tempo della peste, rilevava ìtltresì, con manifesto rimprovero, l'eccesso di que' religiosi che «passando dal disprezzo della morte al desiderio e dal desiderio alla ricerca >, trascurarono «le cautele, che pure erano compatibili con l'opera, quasi per non lasciarsi sfuggire il premio». «Bell'eccesso direbbe qualcuno, se non riflettesse -- soggiungeva il Manzoni -- che la religione proscrive tutti gli eccessi; perchè il saggio, il temperato, il ragionevole ch'ella comanda o consiglia, è più nobile e più bello di qualunque esaltazione fantastica» (3). Ma più orribile e funesta gli appariva quell'eccessività passionale nella prepotenza degli errori e delle superstizioni (4); come nella «disposizione universale a supporre cause soprannaturali» nel fenomeno della peste, quali «l'intervenzione del demonio» l'? esistenza» e «frequenza delle streghe e degli stregoni», come nella «corrività a creder misfatti, al di là delle nozioni dell'esperienza», nell' «orgoglio», nella «stolta rivalità, talvolta», neir «infame politica» che l'odio degli stranieri ispirava (5). E se c'eran di quelli che non credevano agli attentati, erano «presi essi stessi in sospetto di complici o di fautori, giacché dal non credere un delitto ad approvarlo il salto è grande; ma la logica delle passioni -- osservava con amara ironia il Manzoni -- è agile e sa farne senza difficoltà anche dei maggiori» (6). Con queste aberrazioni, generate nell'avvenimento di gravi calamità dall'ignoranza, dall' irrifiessione, dall' «esperienza troppo reale» dei delitti, si congiungevano ad accrescere «il pervertimento quasi generale nelle idee» «i mezzi d'impunità... vari e infiniti, la stessa frequenza dei delitti», che «ne aveva diminuito il ribrezzo e la vergogna», perfino «negli uomini che non erano sanguinari», e quel «sentimento universale che una certa misura di animosità, di cru (1) Sp. prom., p. 683. (2) Sp. prom., pp. 660-3. (3) Sp. prom., p. 736. (4) Non ne manda immune neppure il card. Federigo; se non che gli «errori stessi, che la prepotenza dell'universale consenso aveva imposti alla sua mente, sono sempre accompagnati e quasi scusati da una intenzione pura». iSp. prom., p. 355). (5) Sp. prora., pp. 665-6. Di strane imputazioni e di assurde interpretazioni s'occupavano le pp. 667-71. Da p. 652 a p. 657 troviamo un abbozzo d'una vera dissertazione sulla storia delle idee presso le diverse generazioni, con accenni alle idee e agli errori contemporanei. V., su questo proposito, F. Crispolti, art. cit. (6) Sp. prom., p. 672. deità e di delitti fosse una condizione necessaria inevitabile della società» (1). In quell'altra, poi, non meno acuta né meno ampia analisi delle cagioni della carestia e delle storte idee e degli spropositati discorsi pullulanti tra il popolo, osservava parimente che i ciarlatani lusingatori delle passioni popolari prevalgono sul veridico assertore delle cause del male, e che, se questi, poi, «confessa che molto è senza rimedio, e raccomanda la rassegnazione, può difficilmente far credere che compatisce»; poiché «chi nega all' addolorato che la causa prima, unica del suo dolore sia nella volontà scellerata di alcuni, converrà che abbia ben fama di onesto e di umano, perchè l'addolorato si contenti di crederlo cieco e insensato, e non lo chiami atroce fautore, complice di quelli che creano il dolore» (2); e poco innanzi scriveva una pagina infocata contro coloro che nelle gravi contingenze pubbliche potrebbero «procacciarsi una opinione ragionata e non lo fanno mai» e secondano, «al momento del serra serra», con furiose sentenze, col vilipendio e la calunnia delle teorie meditate e razionali «i giudizi storti, le idee appassionate del popolo» (3). Altri aspetti della società del Seicento suggerivano al Manzoni considerazioni che talora s' estendevano oltre i limiti della materia considerata e toccavano verità profonde della vita, pur sempre dominando la nota pessimistica nella concezione morale dell' uomo, a volte con impercettibili sussulti di tremenda ironia. Toccando, ad es., delle aggregazioni, com'erano i ceti monastici, «separate dalla società universale degli uomini» con «un vincolo particolare d'interessi, di amor proprio comune e di benevolenza», diceva: «vincolo talvolta debole assai e che non basta ad impedir odi accaniti e mortali, ma forte però abbastanza per contenere gli odi nell'interno della piccola società e per dare a quegli stessi che si odiano una apparenza e una condotta da amici ogni volta che essi si trovino in contrasto con gli estranei» (4). De' rimedi, talvolta peggiori de' mali, osservava col medesimo spirito, tra caustico e severo: «Ci hanno degli inconvenienti che oltre il male diretto che fanno, ne producono dei grandissimi forzando quasi gli uomini a cercare dei rimedi, che non sono né ragionevoli né perfettamente onesti, e che (1) Sp. prora., p. 235. (2) Sp. prvm., pp. 488-9. V. anche pp. 484-5. (3) Sp. prom., pp. 485-6. Circa i pregiudizi sul raccolto e l'abbondanza del grano e gli spropositi de' magistrati v. pp. 490-1. (4) Sp. proni., pp. 103-4. oltre l'effetto per cui sono sorti in opera ne producono molti altri impreveduti e pessimi» (1). Questa riflessione si connetteva con un lungo discorso precedente sulla zelante, gelosa attività deplorevole, ma inevitabile, che il clero spendeva nel pretendere e nell' assicurarsi immunità e privilegi con «tribunali civili e criminali, con minacce spirituali e temporali», con la «forza» stessa: né soltanto «gli ecclesiastici vuoti di spirito sacerdotale, ambiziosi, violenti, avari», ma con pari «zelo» «uomini pii e d' una virtìi molto superiore all'onestà, uomini certamente di alto ingegno»; il che non pareva al Manzoni si potesse spiegare con la ragione «che erano idee del tempo», ma con la ricerca delle cagioni di questa stessa affezione a quelle idee, che è quanto dire, con l'esame dello «stato della società in quei tempi»; donde traeva questa conclusione, che è suggello a tutti i suoi particolari giudizi più tetri e severi sulle condizioni morali e sociali del secolo: «Tante erano le volontà d'impedire ogni esercizio delle facoltà più legittime, d'inceppare ogni diritto e queste volontà erano così potenti che il clero non poteva concepire come avrebbe potuto agire a malgrado di esse, senza avere una forza propria» (2). Non erano infrequenti codeste riflessioni recise e aspre su tutti gli uomini del secolo, come là dove, in confronto con la prudenza e la temperanza eccezionali del card. Federigo, diceva essere stata quella un'età «in cui opinioni, fatti, discussioni, odi, amicizie, delitti, giudizi, tutto era avvelenato e precipitoso, in cui le virtù stesse avevano qualche cosa per dir così di spiritato e di fantastico» (3); in cui «l' ignoranza era tanto più generale e la scienza, che era pure di pochi, consisteva in un peripateticismo inteso come si poteva e applicato come si voleva a tutte le questioni possibili di ogni genere» (4); in cui la società «era divisa in due classi, di circospetti cioè e di facinorosi, e d' uomini che avevano e d' uomini che facevano paura» (5); in cui, infine, pareva al Manzoni singolare, straordinario zelo quel di Federigo di voler «introduri'e ogni cultura in quella rozza, ostinata, presuntuosa barbarie» (6). Questo quadro orribilmente fosco della vita intellettuale, morale (1) Sp. prom., pag. 25. Nello stesso ordine di idee cade quell'osservazione della " Seconda parte,, della Morale cattolica «il mondo giustifica talvolta le cagioni che producono i mali e gli aggravano, e colla gravezza dei mali giustifica poi le violenze o le perfidie commesse per liberarsene» (p. 493). (2) Sp. proni, pp. 24-5. V. anche pp. 161-2. (3) Sp. proni., p. 358. (4) Sp. prom., p. 489. (5) Sp. proni., pp. 161-2. (6) Sp. prom. p. 357. e civile della Lombardia, e si può intendere di tutta Italia, nel Seicento ritorna nell'ultima forma de' Promessi sj)osl di molto ridotto e attenuato. Come spiegare la spietata indagine, la sempre vivace censura, il forte colorito della prima stesura -- Non bisogna certamente dimenticare il principio teorico del Manzoni, affermato scrivendo al Fauriel proprio nel tempo del primo getto, secondo cui il romanzo storico richiede una rappresentazione veridica della materia e. de' personaggi storici «de la manière la plus strictement historique» (1), ne le impressioni e i giudizi che su quella società, studiata con tanto zelo e tanta diligenza, il Manzoni comunicava, pochi mesi dopo, allo stesso Fauriel (2), con uno spirito e quasi con parole conformi alle molte pagine degli Sposi promessi, così che non possiamo negare una preparazione diretta, e direi quasi una preoccupazione immediata, che sollecitava lo storico e il letterato a sfruttare abbondantemente e fedelmente le fonti e a inquadrare le ampie analisi dell' indole e de' costumi di quella società entro le rigide forme prescritte dal sistema storico. Se non che la qualità de' caratteri rilevati, che non sono certamente gli unici aspetti della vita lombarda e italiana del Seicento (3), e l'assolutezza de' giudizi espressi lasciano intravedere una predisposizioae morale, anche più remota e suggestiva, che ha influito nella scelta della materia e nel modo di ritrarla. Se infatti osserviamo come il Manzoni insista a segnalare la servilità aizzatrice o adulatrice alle opinioni dominanti, il falso concetto dell' onore e della legittima vendetta, il furioso imperversare degli errori, delle superstizioni, de' pregiudizi, il prevalere della ferocia sulla carità, dello spirito furioso sull' equanimità, dell' intemperanza e dell' avventatezza sulla moderazione e la prudenza, il pervertimento di tutte le idee e la presuntuosa barbarie intellettuale, l'abitudine al sangue e l'impassibilità morale dinanzi alla frequenza de' delitti, la diffidenza crudelmente sospettosa, la violenza soverchiante il diritto o fatta unico strumento di esso e, in generale, la più virulenta tirannide di gruppi e ceti sociali, ciascuno vincolato da passioni e interessi propri; se ripensiamo come codesto mortificante ritratto del Seicento italiano concordi con le idee generali del Manzoni sulla natura e le passioni dell'uomo, dobbiamo ritenere che, non meno della meditazione storica, vi ha contribuito la meditazione morale e religiosa. Anzitutto è certo (1) Lett. del 3 nov. 1821, in Epint. cit, voi. 1, p. 214. (2) Lett. del 29 ma?. 1822, in Epist. cit. voi. I, pp. 241-2. (3) Cfr. A. Belloni, Il Manzoni e il Seicento, in Fanf. d. Dom. XXXVIII, n.;W. ch'egli s'era fatta un'idea del Seicento come di secolo grossolano e barbaro, prima ancora di accingersi ad ampie indagini storiche per la composizione de' Pi-omessi sposi, prima cioè del 1821 o giù di lì ('), come lo comprova una postilla ad un giudizio piuttosto favorevole a quell'età, dato da A. G. Schlegel nel suo corso di letteratura drammatica (*). In secondo luogo, che vi avesse avvertito l'orgoglio e la presuntuosità delle idee come caratteri dominanti ('), lo conferma un forte accenno in un capitolo della seconda parte della Morale cattolica, che è del '19 e che precisamente, come più addietro abbiam visto, tratta degli errori prevalenti nello spirito del secolo in contrasto co' principi della religione. A questo proposito rammentiamoci quelle sue osservazioni sulla quasi universale inclinazione alle opinioni dominanti, quando siano opposte alla religione, e suU' attitudine di pochi ad «uscire dall' atmosfera generale delle idee» ('), de' semplici, cioè, come Lucia, e de' più illuminati di dottrina, come Federigo, e teniamo presente che questi nella prima stesura è ritratto sotto tutti gli aspetti, morale, intellettuale e religioso, come una personalità eccezionale e antitetica allo spirito e a' costumi de' tempi suoi; s'aggiunga, poi, che il Manzoni in un pensiero, non del tutto formato, ma sufficiente per riconoscervi una sua ferma convinzione e, per di più, collegato con quel suo discorso generale, che già conosciamo, sui sistemi abbracciati con passione e sul perpetuo contrasto tra la legge del Vangelo e le nostre vanità e i nostri errori, fissava quest'idea profonda: «nelle grandi commozioni la religione è più contraddetta e più dimenticata per lo più, che nei tempi ordinari». Da tutto ciò possiamo conchiudere che il Manzoni al Seicento da tempo rivolgeva la mente con attitudini e intenzioni cristiane; che, tra le ragioni dell'averlo scelto a sfondo storico del romanzo, molto potè il segreto (1) Un sentore sulla sua preparazione letteraria è in Cart., p. 514 (lett. del 29 genn. 1821) e p. 541 (lett. del 3 nov. 1821) e una prova delle intense ricerche storiche che in quel tempo faceva, sono i bigliettini, che allora inviava di continuo, chiedendo libri, all'amico G. Cattaneo (V. Cart., p. 556 e segg.) (2) «Il Seicento fu un secolo in Italia grossolano e barbaro in molte cose importantissime: politica, commercio, polizia, giurisprudenza e lettere ecc. ecc.». {Opp. in o r., voi. II. p. 442). Credo fermamente che l'opera dello Schlegel, il Manzoni la lesse e postillò nella traduzione francese del 1817, e perchè essa compare in un elenco di libri inviatigli dal libraio parigino FayoUe per mezzo del Fauriel proprio in quell'anno e perchè a consultarla e meditarla tosto doveva egli essere indotto dal disegno già iniziato, di scrivere sulla tragedia. (V. Cart., pp. 397-8 e 401). (3) «Se un secolo ha avuto un' alta e ferma idea dell' eccellenza del suo spirito è quello sicuramente» (p. 450). (4) Ivi. proposito d'offrire un solenne esempio di profondo contrasto tra lo spirito del secolo e le verità del Vangelo, di attingere dalla realtà della storia, e specialmente de' suoi momenti più travagliati, l'immagine del pervertimento, morale e intellettuale di un popolo, che da quel contrasto consegue; che, infine, non c'è da meravigliarsi se il moralista congiunto allo storico, -- con le prevenzioni, per di più, e le avversioni ereditate dal pensiero critico del Settecento ?, nel giudicare, la prima volta, la vita di quel secolo acconsentisse a quel suo pessimismo tra intellettuale e sentimentale che, sotto gl'influssi della recente appassionata discussione de' problemi religiosi e delle impressionanti rivelazioni immediate della storia, doveva tanto più prevalere come reazione della sua coscienza religiosa. * * * III. Non posso trattenermi dal raccogliere altri elementi, sparsi negli Sposi promessi, di moralismo pessimistico e taluni di pessimismo umoristico, che, poi, il Manzoni ha tolti via o almen mitigati nell'elaborazione ulteriore dell'opera sua. Nel raccontare come don Abbondio s'era fatta «una dottrina sua propria di prudenza e di probità, la quale non era altro che la sua condotta pratica ridotta in principio» ragionava così: «Vi sono nel cuore dell' uomo due benedette disposizioni, le quali, quando non sieno ben combattute ad ogni momento, vanno radicandosi e crescendo e finiscono per deteriorare anche i caratteri più felici. Una di queste disposizioni si è di dedurre da un principio disinteressato e riguardevole la ragione della nostra condotta. l'uomo che non è perverso non vuol essere conscio a sé stesso di operare per motivi di passione, non vuol credere che il movente [?] delle sue azioni sia un interesse, una ambizione, una precauzione timida e servile; si fa quindi una teoria colla quale possa esser persuaso ch'egli deve fare come fa. V'è, poi, nell'animo umano un'altra disposizione che ha bisogno assai d'essere combattuta (^) ad ogni momento. Quando l'uomo s'è messo bastantemente al coperto dalle offese altrui diviene disposto ad attaccare se non altro con biasimo e colle censure (*)». Le quali osservazioni hanno un intimo nesso ideale con ciò che nella Seconda parte della Morale cattolica il Manzoni aveva (1) L'edizione del Lesca ha «consultata», ma è o uu lapsus del Manzoni o una svista dell'editore. (2) Sp. proni., pp. 26-7, n. 9. dissertato intorno al dedurre conseguenze storte da principi retti, venendo ad essere un' applicazione alla psicologia individuale di ciò che colà si riferiva alla psicologia collettiva e nel tempo stesso rivelando la disposizione pessimi&tica e parerietica, che pur s'occultava dietro la concezione umoristica di queir immortai personaggio: svelano, anzi, la personalità del giudice moralista che nella prima stesura e ne' primi rifacimenti del romanzo -- per forza della duplice tesi etica e storica -- compariva con troppa insistenza accanto al poeta creatore d' umane figure; mentre nella redazione definitiva quella, se non è del tutto scomparsa, si lascia vedere a momenti radi e con garbata sobrietà di contegno. È questo uno degli interessanti documenti di quell'intimo processo attraverso cui la materia, le tendenze e i motivi morali, onde il Manzoni traeva i contenuti psicologici de' suoi personaggi e dell' azione generale, si sono rifusi e sostanziati nelle concrete forme dell' arte. Pessimistico altresì era il tono con cui commentava negli Sposi promessi l'episodio della riprensione toccata a fra Cristoforo da parte del padre guardiano: «questa fu la mercede che il nostro padre Cristoforo ebbe della sua giornata ..... Tristo chi ne aspetta altre in questo mondo» (1); pessimistico il giudizio perfino su quei saggi (e sono i più) che, disperando di persuadere gli altri con le loro buone ragioni, sogliono «rodersi, o insuperbirsi d'essere stati saggi indarno»; e accorata quant' altra mai quella lamentazione sull'orgogliosa natura dell'uomo: «di quanto scemerebbero in numero gli errori, e quanto meno sarebbero funesti nell'effetto quegli errori che rimarebbero, se tutti gli uomini osservassero le cose con una mente disinteressata d'orgoglio» ! (2); di paolina fierezza animata (non ve n' ha quasi traccia nel testo definitivo) quella sentenza che il Manzoni dettava, a proposito degli adulatori di Federigo, contro il «basso corteggio che coglie i fortunati del secolo alle prime porte della vita, per corromperli, per cattivarli, per farli fruttare» (3); aperta la riprovazione, echeggiante talune pagine, a noi note, della Morale cattolica, di quei «pregiudizi» che «nella mente di molti associano all'idea della religione quella della credulità e della sciocchezza» (4); terribilmente umoristica quell'analisi dell'ipocrita ingegnosità degli uomini neir inventare le formalità necessarie perchè (1) Sp. prom., pp. 124-5. (2) Sp. prom., p. 678. (3) Sp. prom., p. 356. (4) Sp. prom., p. 183. una cosa si ritenga fatta per davvero, com'era il caso della povera Gertrude, la cui «libera e reale vocazione al chiostro» doveva essere garantita dall'essere ella stata un po' in mezzo al mondo; ma più trista l'ironia del pensoso moralista serpeggiante nel lieve sorriso, quando fra altro osservava che «se si desse retta» a chi si ostinasse «ad esaminare il merito», non le parvenze della cosa, «non si finirebbe mai nulla, e si andrebbe a pericolo di turbare il bell'ordine che si ammira in questo mondo > (*); apparentemente scherzosa l'ironia -- a proposito del «prurito» del conte zio «di far mostra della sua profondità nella politica», che «superava nel suo animo la circospezione che gli consigliava a nasconderla > -- ma sostanzialmente intesa a svalutare la presuntuosa avvedutezza de' «furbi», ai quali quel «prurito quasi invincibile è cagione di scoprirsi da sé e di rovinare essi i loro affari; che è un peccato» (*); cupamente umoristico il giudizio sull' incoerenza del pensiero umano, ove notava che, «se un uomo non dovesse star tranquillo che dopo d'aver messe d'accordo tutte le sue idee^ non vi sarebbe più tranquillità» (^); più tremendo, perchè diretto a colpire la comune follia, quest' altro: «è uno dei diletti di questo mondo quello di potere odiare ed essere odiato senza conoscersi» (*). Ci colpiscono, poi, qua e là nella prima stesura altri segni di quel pensiero sociale che addietro ho sommariamente esaminato, e massimamente certi atteggiamenti originali ed arditi di evangelica ispirazione. Si veda questo commento al crudele rigore del «codice fratesco >, a proposito del ritardo di fra Cristoforo a rientrare nel convento: «Ogni volta che gli uomini hanno potuto dividersi in classi, in crocchi, in piccole società, e farsi leggi particolari, per lo più invece di approfittare di questa esenzione dalle leggi comuni per istabilire una certa indipendenza utile a tutti i contraenti, hanno aguzzati gl'ingegni per trovare. rigori e pene più raffinati: di modo che parrebbe quasi che tormentare altrui sia più dolce che assicurar se stessi» (^). Si veda con che superiorità di spirito diffidente e canzonatorio rispetto agli accorgimenti umani giudicasse de' begli effetti che le leggi hanno nel mondo a proposito dello spesseggiare delle grida che, contro la volontà e la previsione de' legislatori, avevano il bel (1) Sp, prom., p. 187. (2) Sp. prom., p. 304. (3) Sp. prom., p. 179. (4) Sp. prom., p. 68. (5) Sp. prom., p. 107. successo di stringere più forti e sicuri vincoli tra i «ribaldi > e i «tiranni», «Le società civili sono state spesso paragonate al corpo umano, i legislatori ai medici, le leggi alle medicine; e infatti queste cose si somigliai! molto, se non altro in ciò, che son tutte cose assai curiose. Hanno poi altre somiglianze parziali; eccone una. Un medico amministra un rimedio ad intenzione che faccia nel corpo una tale operazione, che il rimedio fa o non fa, ma ne fa poi sovente altre che il medico non ha volute né prevedute Lo stesso accade sovente in fatto di leggi: e siccome poi le società civili sono infermi di lunga vita, sono, per servirci di un modo proverbiale, quelle conche fesse che bastano per un pezzo, così alle volte, appena dopo cento, dugento, trecent'anni, si comincia a sospettare, ad aver sentore, che certe doglie vecchie d'un corpo sociale, certi sintomi stravaganti e non mai spiegati, sono effetti d'uno specifico mirabile applicato o cacciato giù fin da quel tempo per ordine d' un medico valente (parlo in metafora) o per consulto di più valenti medici» (*). Del resto -- diceva altrove con un guizzo d'ironia scetticamente allegra -- «è questo» del far leggi e leggi «forse il genere di composizione al quale gli uomini lavorano con più diletto, e che perciò non manca mai dì autori» (*). E a proposito del mal uso delle bestemmie, «che non sono sconosciute nelle sale fastose e che formano la terza parte dei colloqui del popolo, al quale dicono i sapienti che converrebbe abbandonarle», insorgeva contro codesto sprezzante pregiudizio di classe, ammonendo: «questi sapienti non dicono bene, perchè comunque gli uomini siano classificati, non ci ha alcuna classe d'uomini alla quale convenga ciò che è turpe» (^). A Renzo, reduce dal malaugurato abboccamento col dottore, il Manzoni faceva dire fra sé e sé nella prima stesura amare parole, di cui non é rimasta neppur l'ombra nell'ultima, sulla sorte de* poveri, bistrattati dai potenti e dai loro bassi servitori: «Tutti così: siete fatti tutti così: come slam dunque fatti noi poverelli? che cosa pretendo io da costoro? andavo forse a domandare la carità? Pretendo la giustizia per bacco ! Pretendo alla fine delle fini di sposare una donna secondo la legge di Dio. Birbi tutti! tutti ad un modo! tutti d'accordo per mandare gli stracci all'aria» (*). Se, però, il Manzoni soppresse questo tratto, fu perchè gli parve superfluo e, fors'anco, di troppo vivo colore, ma l'anima del poeta non ha mu ti) Sp. prora., App. G., pp. S18-9. (2) Sp. protri., p. 22. (3) Sp. proni., p. 78. (4) Sp. prem., p. 61. tato: la coraggiosa simpatia per gli umili oppressi, che circola per entro tutto il romanzo ed è il remoto motivo sentimentale d' avere scelto fra quelli i protagonisti, si fa sentire altrove piti o meno apertamente (*): apertamente, per es., nelle parole di Agnese, affannata a placare Renzo: «contro i poveri e' è sempre giustizia» (*) e in quelle, già rammentate, ch'ella dice nel colloquio col cardinale; «i poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni!» e, meglio ancora, nella risposta dell' insigne prelato, che è la voce più alta, più meditata, più schietta della coscienza cristiana del poeta (^). È codesto un aspetto del romanzo, riflesso dall' evangelismo democratico del Manzoni, che attraverso i profondi rifacimenti di tutta l'opera, non ha mutato -- salvo la sapiente cura di risecare il superfluo e d'attenuare per ragioni d'arte, che vedremo a suo luogo, gli eccessi di colore -- né spirito né intonazione. Lasciamo altri più lievi spunti di pessimistico psicologismo, {*), che si son dileguati per rimaneggiamenti successivi, e passiamo a vedere il modo tristo e fosco o aspro e inquieto, onde il Manzoni concepì e atteggiò taluni personaggi nel primitivo disegno. Don Rodrigo era, oltre che ignobile, vile, e moriva in un impeto di rabbia e di follia, dopo aver corso all'impazzata su un cavallaccio pel lazzaretto, come se lo sfolgorasse, di colpo, la giustizia punitiva di Dio (^); r Innominato, anzi il nominato «Conte del Sagrato >, aveva qualcosa di triviale, di ribaldesco, d'iroso, -- viva figura secentesca di capobandito -- che non faceva nemmeno lontanamente presentire quella cupamente grandiosa de' Promessi sposi (®); e tra i minori, tutti più sinistramente ignobili, il podestà era più volgarmente cortigiano e più sfacciatamente complice de' prepotenti C) di quello che, poi, lo rappresentasse, attenuando le tinte, il Manzoni. Anche i buoni, in generale, si risentivano alquanto d' uno spirito turbato, inquieto e talora aspro e triviale, destinato a svanire (1) Trapela, un po' più in là, dal resoconto di Renzo alle donne e dalla risposta del giovine ai conforti di fra Cristoforo (Prom. sp., cap. Ili, p. 43; cap. V, p. 63). (2) Prom. sp., cap. VII, p. 90. (3) Prom. sp., cap. XXIV, p. 359. (4) Valgano, ad es., la riflessione sul male che facciamo a noi stessi per deficenza di carattere (Sp. prom., p. 219), quella sulle sventure (pp. 211-12J e quella sul contegno degli uomini verso le donne (p. 222). (5) V. sulla trasformazione di questo personaggio un'acuta analisi di A. Momigliano, op. cit., pp. 68-71. (6) V. i miei Saggi, manz. cit., pp. 16-23 e Momigliano, op. cit., pp 71-3. (7) Cfr. Sp. prom., pp. 272-4 e Prom. sp., cap. XI, p. 172. alla luce purificatrice del rinnovamento psicologico e artistico del-, l'ultima forma (*). Ma soffermiamoci un po' sulla tragica morte di don Rodrigo, che rivela, meglio d'ogni altro episodio, la segreta ispirazione pessimistica della prima stesura. Era questa una scena -- massime se la si consideri congiunta con la circostanza di quella «confusione di passioni» -- furore, odio, vendetta -- che aveva spinto il forsennato a mettersi sulle tracce di Renzo e di fra Cristoforo da lui scorti e a comparire sull'uscio della capanna di Lucia -- era, dico, una tale scena da non lasciar vivo nemmeno quel barlume di speranza, brillata poco innalnzi nelle parole di fra Cristoforo (^), che lo sciagurato finisse pentito e perdonato dalla misericordia di Dio, come c'inducono, nella mutata forma dell'episodio, ad immaginare la lenta agonia, vigilata e assistita dal mirabile frate, la circostanza pietosa della visita di Renzo, del perdono da lui dato con tanta effusione, della preghiera, che pur fa per la salvezza di quell'anima con tanto ardore di carità. Perchè e come si formò primamente nel pensiero del Manzoni quella severa e fosca concezione della fine del peccatore? Per un'interpretazione conforme all'insegnamento della Chiesa, che, fra altro, riceveva autorità sommamente suggestiva dai ragionamenti de' luminari della sacra eloquenza, quali il Bossuet, il Bourdaloue, il Massillon, il Segneri, da lui stesso chiamati in testimonio nel IX cap. della Morale cattolica per combattere l'accusa del Sismondi che la dottrina e l'insegnamento della Chiesa^ con r ispirar la fiducia nella remissione de' peccati in ogni momento, inducessero il peccatore a riservar la penitenza in punto di morte. Il Bossuet aveva predicato non poter l'anima cristiana accontentarsi «di una penitenza incominciata all'agonia, che non sarà mai stata preparata, di cui non si sarà mai veduto alcun frutto...». Il Bourdaloue aveva ammonito: «questi peccatori inveterati muoiono come sono vissuti. Sono vissuti nel peccato e muoiono nel peccato. Sono vissuti nell'odio di Dio, e muoiono nell'odio di Dio». «Il pretendere . . . che in un momento possa allora formarsi un altro spirito, un altro cuore, un'altra volontà, egli è, o cristiani, il più grossolano (1) V., intanto, alcune fini osservazioni neU'op. cit. del Momigliano, pp. 73-75. (2) Questi alla giurata dichiarazione di Fermo -- ovverosia Renzo -- clie perdonava, aggiungeva: «Sì, Fermo, a don Rodrigo: è un nome che fu posto sul fonte della rigenerazione ad una creatura redenta col sangue d'un Dio; è un nome che forse è scritto sul libro della vita; perchè Dio perdona: guai a te se non fosse!» (Sp. prom., p. 748). di tutti gli errori ... Di tutti i tempi quello in cui la penitenza vera è più difficile, è il tempo della morte». Il Massillon intonava un suo sermone allo stesso modo, e il Segneri alla vana illusione che è necessario solo una «morte buona» opponeva il monito di Cristo: «In peccato vestro moriemini» (*). Perchè, poi, il Manzoni abbia mutate le circostanze della fine di don Rodrigo, e se a ciò abbiano concorso con le ragioni morali nuovi motivi e nuove ispirazioni poetiche, vedremo a suo luogo; ora mi restringo a notare che l'ossequiente proposito di rappresentarci la parte di carità della Chiesa, lasciata sulla minuta quasi nell'ombra, la più attenta meditazione di quella pagina della stessa Morale cattolica (^) nella quale si spiega come * un filo di speranza di salvare un suo figlio basta alla Chiesa per non abbandonarlo > e come essa abbia non meno l'ufficio della severità che quello misericordioso «d' ispirar fiducia a' peccatori moribondi» hanno contribuito a trasformare il contenuto etico-religioso del tragico episodio. S'intravede l'orma del pessimismo cristiano e della preoccupazione dottrinale anche nel modo come il Manzoni nel primitivo disegno ritrasse il carattere di Gertrude e tratteggiò i delittuosi precedenti di lei e le scene stesse che hanno diretta attinenza con l'azione del romanzo. L' analisi del colpevole amore di quella disgraziata, lo studio evidente di figurarne l'animo esagitato dalla mala passione, dall'imbelle sofferenza di quella vita peccaminosa, dal terrore di altre colpe e delitti, a cui la trascinava il diabolico fascino di Egidio, non si trovano -- come ormai tutti sanno -- se non nella minuta. Ne dovrò trattar particolarmente in altra parte di questo lavoro; qui mi sia lecito osservare che le notizie raccolte dal buon Ripamonti non sarebbero bastate al Manzoni per concepire, anzi per decidersi a rappresentare con arditezza d'analisi psicologica e di drammatici colloqui quelle colpe e que' delitti, se non ve l'avesse indotto la considerazione triste e profonda del tragico potere che hanno le passioni -- non ostanti gli esempi e i precetti della religione -- sulla volontà e sul sentimento e della miseranda abiezione in cui precipita l'umana natura, quando sia sviata, per volontà o impotenza, fuori della legge della morale religiosa, istituita appunto «per la vittoria dello spirito sulla carne» (^). (1) V. Oss. s. mor. catt., pp. 257-9. (2) Il)id., p. 262, (3) ma., p. 498. Ma la figura che offre il più cospicuo documento -- pel modo come parlava e agiva nella minuta -- delle inclinazioni tra moralistiche e apologetiche, con cui il Manzoni si accinse al grande lavoro, e del tono pessimistico che di conseguenza doveva prevalere nella rappresentazione de' fatti e nell'analisi de' caratteri, è quella di padre Cristoforo, che in ogni contingenza, ne' discorsi in casa di Lucia, nel colloquio con don Rodrigo, in quello con Renzo nel lazzaretto, ne' conforti e addii stessi che dava agli sposi e ad Agnese fuggiaschi nella chiesetta del convento, era come agitato da certa fierezza guerriera e violenta, da un amaro corruccio, che traversava di foschi balenìi l'ardore stesso della sua carità. Nel soliloquio in casa di Lucia ravvolgeva tra sé e sé accenti piìi rozzi e turbati di quello che si legge nella stampa, ma press'a poco con lo stesso spirito, circa il modo di ridurre al dovere don Abbondio, di «mettere un freno a quel birbante», di «mettere in moto le sue barbe di Milano»; ma poi nell'osservare che «costui faceva il protettore dei cappuccini», s'abbandonava a queste amare riflessioni, che non traspaiono più nemmeno dal discorso indiretto dell'ultima redazione: «e chi sa come si rappresenterebbe la cosa? e quando si vedesse che si tratta di soccorrere una povera figlia che non può compensare con altrettanta protezione! Ah! se fosse una gran Signora ! Ma se fosse una gran signora, non sarebbe in questo caso. Oh poveretti noi! Oh che tempi! Quando io credeva che facendomi cappuccino sarei fuori di questo mondo infame ! Eh non se ne va' fuori che quando si muore» (*) ! Ma e' è qualcosa di più significativo in una scena successiva. Quando Renzo, agitato dalla nera idea di farsi giustizia da sé, lagnavasi degli amici, un tempo gran prometti-tori d'aiuto, ma che ora, da lui cercati, si ritiravano, il frate, nel rimproverarlo con gran forza, faceva questo tristo quadro della bassezza umana: «Come! tu speravi soccorso da questi che ta chiami amici? Soccorso per liberarti dalla ingiustizia? Poveretto ! non sapevi che ogni uomo ama troppo la sua vita e il suo riposo per sacrificarlo alla giustizia, alla giustizia altrui -- Si, pel denaro, per la vendetta, pel diletto di far male, l'uomo disprezza il pericolo; si allora egli sente qualche cosa che lo porta con gioia ad affrontare il suo simile: ma perchè uno non sia oppresso, ma perchè non s'impedisca una cosa giusta, ma perché le cose vadano come dovrebbero andare, tranquillamente, ordinatamente, tu credevi che troveresti chi si armerebbe con te contro un potente? Gli uomini (1) ò'p. prom., p. 82. 110 - PARTE PRIMA non provano per questo quella gioia feroce che fa desiderare di affrontarsi coir uomo: o se n'ha di tali sono tanto rari;... e... e anche questi han torto» (*). Nel tumultuar di questi rudi e cupi sentimenti e giudizi -- sdegnosa sfiducia de' confratelli dell'ordine adulanti i potenti, ribrezzo dell' universal corruttela, rampogna fieramente sconsolata del mondo, pronto a cooperare per l'ingiustizia, vile dinanzi la causa della giustizia -- fremono la tristezza e la battagliera generosità di che abbiamo visto avvivarsi il pensiero del Manzoni moralista nel ragionare delle passioni e del coraggio cristiano: i confratelli, amici di don Rodrigo, son quelli ai quali «nei casi difficili in cui bisogna disubbidire a Dio agli uomini, sembra di essere disobbligati» dalla «proibizione, che fa la «legge di Dio», di «ogni cooperazione volontaria all'ingiustizia», come a don Abbondio col pretesto della «necessità», con quello della «prudenza» (*); sono i falsi interpreti nel seno stesso della Cliiesa che pur «non parla che di giustizia e di dignità, di ordine e di coraggio, che proscrive l'arbitrio e la rivolta contro le leggi, che impone l'obbedienza ai privati e la giustizia ai popoli», che rifiuta, come non sue, «le interpretazioni vili per adulare i potenti i (^); quegli altri, del mondo -- e sono i più -- attestano con la loro tristizia quell'altra amara verità che segnalava il Manzoni nella condotta degli uomini: «purtroppo vogliamo il coraggio soltanto quando è necessario per secondare una impresa, per tentare un vantaggio; ma soffrire soli, soffrire tranquillamente, e col solo conforto di soffrire per la giustizia, e senza applauso, ci sembra quasi una virtù chimerica; tanto siamo affezionati alla terra» (^) !. La stessa cupa tristezza fremeva sulle labbra di fra Cristoforo nel congedare gli sposi e Agnese la notte della fuga: «per ora è necessario allontanarvi di qui: vi siete nati, è casa vostra, non avete fatto torto a nessuno, ma il serpente talvolta fa disertare l'uomo dalla sua dimora, e gli uomini pure si cacciano su questa terra, come se fossero destinati a divorarsi l'un l'altro» (^). E più dolorosa, più tetra, quasi direi col tono del salmista gemente e fremente, sonava la sua parola sul finire del drammatico colloquio con Renzo nel lazzaretto: «Tu rimani a vivere in un secolo doloroso: i giorni (li Sp. proni., p. 84. (2) Oss. s. tnor. catt., p. 492. (3) Opp. in. o r., voi. Ili, p. 356. (4) Oss. s. mor. catt., loc. cit. (5) Sp. prora., p. 148. che noi veggiamo sono cattivi; quei che si preparano, saranno peggiori: i figli dei provocatori, dei superbi, dei violenti, lo saranno più dei padri loro. Gran Dio ! questo flagello non corregge il mondo: è una grandine che percuote una vigna già maledetta: tanti grappoli abbatte; e quei che rimangono, son più tristi, più guasti di prima» (^). IV. Il pessimismo cristiano del Manzoni, esuberante nella primiera concezione del suo alto lavoro, assumeva dunque forma e voce e significazione più profonda nel carattere di fra Cristoforo, così come il suo idealismo religioso -- eh' era in quella ancora discreto e contenuto -- trovava la sua più cospicua espressione nel carattere di Federigo: l'uno poi, nel processo evolutivo della meditazione reli giosa e della ricomposizione psicologica e fantastica, è riescito più composto, più mite, e, quasi direi, circonfuso di dolce mestizia evangelica; l'altro è cresciuto di forza e di luce. Certamente queste due potenti energie del pensiero cristiano hanno, dirò così, fecondato tutta l'opera poetica del Manzoni, dal carme In morte di Carlo Imbonati ai Promessi sposi; ma non sempre con egual forza e con perfetto equilibrio d'ispirazione: che di quella giovanile visione il motivo etico, piuttosto che da un'interpretazione pessimistica della vita, proviene da un atteggiamento stoico del pensiero civile; negli Inni, nelle tragedie, nel Cinque maggio e nel romanzo quelle due forti correnti della coscienza cristiana premono e involgono la concezione morale e civile del poeta, s' incontrano, anzi, ne' sostrati etico-religiosi della creazione poetica, ma non sempre si fondono in quella giusta armonia che è la forza viva e profonda del cristianesimo. E precisamente in codesta armonia superiore si contemperano la triste meditazione della nostra ingenita debolezza, del perpetuo contrasto degl'istinti e delle passioni con la legge di Dio, e la confidente valutazione delle congiunte virtù segrete, onde la creatura, fatta ad immagine di Dio, può redimersi e perfezionarsi, quando la soccorra la Grazia; appunto nello sforzo eroico di ricomporre le dlsarmonie della vita e della storia in una visione illuminata dall'operosa confidenza nel bene e dalla speranza d'una giustizia migliore il Manzoni è venuto ricostruendo quell'idealismo cristiano che ispira la concezione della morente Ermengarda, cer (3) Sp. pruni., pp. 71S-9. cante col «tremulo sguardo» il cielo, e quella di Napoleone, sollevato alla fede consolatrice nella pace celeste; che intona alla speranza nella misericordia divina le ultime stanze della Passione; che ravviva di santo giubilo i giusti nelle ultime strofe della Risurrezione; che dà r ansia della fiduciosa preghiera nel Nome di Maria; che tutta pervade la Pentecoste, rinnovata e compita, dopo un intenso lavorio d' intelletto e di fantasia (*); che, infine, solleva, purificandolo e ritemprandolo di più serena spiritualità, il mondo del romanzo, qual era uscito dal primo getto, nella forma de' Promessi sposi. I manifesti segni di rigorismo etico e di pessimismo tra intellettivo e sentimentale, che abbiamo rilevato nella prima forma del romanzo, e altri che potremo ritrovare nello studio della composizione psicologica ed estetica de' singoli personaggi, sono stati attenuati addirittura dispersi via via che il poeta procedeva nell' elaborazione e trasformazione dell'opera sua, conformando quel mondo, che pareva ancora echeggiasse dello spirito apologetico della Morale cattolica e delle cupe moralità dell'Adelchi, ad una visione psicologica del male e del dolore più compiuta ed organica, con uno spirito di più calma e profonda meditazione cristiana, II fosco e truce quadro della vita del Seicento è stato ricomposto con la severa pensosità dello storico e del moralista che da una più equa comprensione delle aberrazioni umane attinge tale disciplina e sobrietà di giudizio e di rappresentazione da persuadere il lettore alla riflessione dolorosa senza eccitarne l'orrore e il disprezzo; quel senso amaro e acre eh' era diffuso qua e là nel romanzo, sia che il poeta ritraesse la tristizia umana sia che mirasse a cogliere quel che di torbido può essere nell'animo risentito de' buoni, s'è dileguato con la soppressione o con la modificazione di talune scene e situazioni psicologiche (*); quella propensione a rilevare nell'attività degli uomini, ove non sia ispirata dalla legge del Vangelo, non altro che effetti disordinati e ingiusti, è rimasta, ih quanto è (1) Cfr. il mio studio cit. su La cumposiz. della «PeiUecoste». (2) Sono stati, ad es., soppressi il consiglio che don Rodrigo teneva col conte Attilio e col Griso per cercare il modo di sbarazzarsi di Renzo {Sp. prom., pp. 267-9) e quell'adunata, fatta a questo scopo, del podestà, del dottore e del cugino alla tavola di don Rodrigo, in cui la birboneria de' potenti e la cortigianeria de' magistrati e de' legulei s'incontravano in un accordo d'ipocrita ostentata premura del pubblico bene sulla via dell'iniquità. {Sp. prom., pp. 271-4). È stato mutato -- per citare un altro esempio -- nello spirito e ne' modi l'incontro di Renzo con don Abbondio dopo la peste; i quali erano nella minuta l'uno, così nelle parole come ne' tratti, aspro, brusco, eccitato, l'altro piagnucoloso e convulso (Sp. proni., pp. 700-3). ragione e misura della meditazione religiosa e morale dello scrittore cristiano, senza, dirò così, le accentuazioni moralistiche (*) o la severità critica, velata talora di fredda ironia (*), della prima maniera; quell'intervento, tanto poco necessario quanto troppo frequente, dell'appassionata, e spesso arcigna, censura morale non solo degli atti umani, ma degli avvenimenti storici -- cosa che potrebbe dar forza a talune osservazioni recenti del Croce sul Manzoni storico (^) -- come a proposito della furiosa superstizione collettiva contro gli untori {*), s'è fatto rado ne' successivi rimaneggiamenti e ha smesso il primitivo tòno di rimbrotto e di sdegnoso compatimento; queir insistere sulle idee e sui pregiudizi del secolo (*) con tanta foga che ci sovviene delle pagine polemiche sullo stesso argomento dettate per la seconda parte della Morale cattolica, ha ceduto, per via di stralci e d' alleggerimenti nell'analisi storica, ad una contenuta e meno astiosa rappresentazione del male. (1) si vedano le impressioni di Renzo nel trovar Milano in rivolta (Sp. prom., pp. 479-80 e 507). Sebbene attruibite a Renzo, erano piuttosto del Manzoni (glielo osservava anche l'amico Visconti) quelle riflessioni sul saccheggio de' forni, che «quella cuccagna non sarebbe stata che per i birboni più vigorosi e più svergognati, che i veri languenti per fame non si sarebbero gettati in quel tumulto: e cosi la parte più debole e la più degna di soccorso avrebbe continuato a patire, e in quel giorno principalmente sarebbe stata forzatamente priva anche dei soccorsi della carità volonterosa, ma impotente» (pp. 479-80). (2) È uno spiccato esempio d'intransigenza quel lungo ragionamento sulla promessa di mettere sotto processo il vicario, fatta al popolo da Antonio Ferrer e poi niente affatto mantenuta: osservabile per la vivacità con cui il Manzoni risponde all'obiezione di chi vorrebbe separare gli espedienti politici dalla morale: «Tanto peggio per un sistema che mette i suoi autori e i suoi agenti in impicci, dai quali non si possono cavare che dando una parola, che il sistema poi impedisce di maturare» (Sp. prom., pp. 525-6); più osservabile per la finta rassegnazione alle parole del suo immaginario contraddittore: «il fondamento della vera sapienza pratica consiste nel prendere gli uomini come sono»; le quali parole -- dice ironicamente il Manzoni, ? «proferite così spesso, e sempre così a proposito che non hanno mai perduta la loro forza, e sciolgono tutte le questioni, troncano meravigliosamente anche la presente» (p. 526). V., addietro, con che austerità giudicasse della comoda teoria del prender gli uomini come sono. (3) V. B. Croce, La storiografia in Italia ecc., VII: gli sviati della scuola cattolico-liberale, in Critica, a XIV, fase. IV (20 luglio 1916), pp. 247-54 e fase. V, p. 325; ma si veda anche F. Crispolti, Il Manzoni storiografo secondo B. Croce (Lett. all'autore), estr. da Vita e Pensiero, a. II, voi. IV, fase. 2 (31 ag. 1916). (4) Sprezzante quel tratto, a proposito della gente accorsa al grido della vecchia contro Renzo; «gente che forse a qual si fosse più pietoso chiamar di soccorso non sarebbe uscita dalle tane, dove si stava rimpiattata per paura, ma per graffiare e per prendere un untore era pronta» (Sp. prom., p. 725). (5) Si veda, ad es., la disputa di don Ferraute e del Signor Lucio in «una brigata signorile» sul contagio e gl'influssi maligni degli astri e quel saggio, che segue, di una vera dissertazione sulle «origini» i «progressi» e la «caduta» delle idee «false e credule» «nelle diverse età» (Sp. prom., pp. 646-57). Concorda con questo processo di riduzione e d'attenuazione del soverchiante razionalismo e moralismo rigoroso la rifusione psicologica e fantastica -- derivante da una comprensione etica e religiosa, più delicata e serena, del mondo osservato ?, con cui il poeta ha riformato la materia tutta del romanzo, i caratteri tutti de' personaggi e le situazioni loro, la dipintura della natura stessa che è teatro alla drammatica storia. Le analisi ulteriori confermeranno questo giudizio, ma or conviene riguardare per poco talune differenze profonde tra la minuta e l'ultima redazione a questo riguardo: scegliamo, fra altri punti, la descrizione della notte che Renzo passa nel bosco dopo la sua fuga da Milano, lo studio dell' anima dell' Innominato prima e dopo la conversione, l'atteggiamento che prende sulla coscienza di fra Cristoforo il ricordo sempre vivo dell' omicidio commesso quand'era Lodovico e il colloquio di don Abbondio col card. Federigo, L' animo di Renzo co' suoi pensieri ed affetti, co' suoi risentimenti e ricordi, con le sue trepidazioni e speranze, e gli aspetti stessi delle cose circostanti non avevano nel primitivo disegno che tocchi scarsi e superficiali: il ribollir pronto della coscienza onesta del giovine ripensando alle cabale calunniatrici del mercante nell'osteria di Gorgonzola, l'uggia, il terrore indefinito e le molteplici impressioni di sbigottimento, che il bosco, le tenebre, il rumor de' suoi passi gli mettono nell'animo, il disperato smarrimento che quasi lo perde; r amica voce dell'Adda, che lo rianima e fa «svanire in gran parte quell'incertezza e gravità delle cose,» e poi il ricovero nella capanna di paglia, i ringraziamenti che rende a Dio, le devozioni che dice^ i pensieri e le immagini che gli si destano in mente in quel raccoglimento, i discorsi interiori che fa con sé, il risveglio sull' alba, la pittura di quel cielo di Lombardia, tutto ciò è stato nuovamente pensato e analizzato e ritratto così che i grami, informi ed embrionali elementi descrittivi e narrativi della prima stesura si sono svolti, purificati ed elevati in un armonico quadro, donde, tra quel vago misterioso senso, tutt' intorno diffuso, della natura avvolta ne' silenzi tenebrosi della notte, balza nella sua pienezza morale ed affettiva, nella sua potente evidenza fantastica il carattere del povero sposo, immeritamente ramingo e incerto del suo destino (*). L' Innominato, da quello che era nella prima redazione, una figura, cioè, concepita e atteggiata a specchio della storia del Seicento lombardo e secondo le ispirazioni dirette delle fonti contemporanee, s' è (1) Cfr. Sp. prom. pp. 564-7; Prom. sp., cap. XVII, pp. 248-55. trasformato via via, per non meno di tre rifacimenti, sino ad elevarsi, in virtù dell' idealizzazione etica e fantastica dell' ultima forma, di sul fondo fosco e volgare delle testimonianze, delle narrazioni e de' giudizi dei biografi, a tal carattere che nulla più ha dell' indole rozza, brigantesca, brutalmente truce della prima maniera, ma s'accampa cupo e misterioso, solenne nel suo intimo travaglio compresso non meno che nella sua vasta volontà dominatrice. Quand'era più prossimo all'immagine della realtà storica, co' suoi misfatti e con la sua conversione, tal personaggio aveva piuttosto un vivo risalto romanzesco nella trama delle vicende di Lucia: era una poetica figurazione dello spirito fazioso, vendicativo, sanguinario del secolo, e la sua conversione aveva qualcosa di brusco, di superciale, d'aneddotico e d' inesplicabile, come fu di molte conversioni segnalate dai cronisti del tempo (^); ma nella rinnovata concezione e rappresentazione della sua anima e del suo intimo dramma, pare incarni, piuttosto^ lo spirito appassionato del male che vige in tutti i tempi nella perpetua lotta con la legge del bene, assurgendo, per tal modo, nella coscienza morale e poetica del Manzoni, all'eterna concretezza d' un simbolo. La sua conversione, per essere la risoluzione d' una profonda crisi d' anima gagliarda e complessa, attinge un alto significato umano; per essere la vittoria del bene sul male, della giustizia sull'empietà, della luce di Dio sulla tenebra del peccato -- tanto più solenne in quanto s'aderge sul fondo d'istinti, di tendenze, d'abitudini, di sentimenti non superficiali, capricciosi, volgari, ma possenti e coerenti nella salda compagine d'una volontà superiore -- ha la gravità austera d' un'epopea religiosa. La stessa descrizione della vita dell'Innominato dopo la conversione, osservata nella prima e nell' ultima redazione, riflette con rilevante contrasto la vicenda per cui è passata la concezione eticoreligiosa dell' insigne personaggio: il facinoroso capobandito ci tornava dinanzi mutato in un brav'uomo, pio, umile, servizievole, come un decente esempio di riabilitazione morale; ma nell' ultima forma il rinnovato carattere del potente signore assume gli atteggiamenti di una santità impavida e ardente, consapevole dell'eroica missione a cui l'ha chiamato la Grazia: il suo mutamento è, più -che la riabilitazione d' un malvagio, la trasfigurazione di un invincibile nemico della legge e dell' umanità in un eroico cavaliere della giustizia e della pietà (*). Basta riguardarlo quando finalmente si (1) V. i miei Saggi manz. cit., p. 21. (2) Ibid., p. 23 e segg. ritira a dormire, la sera di quella giornata così piena di prodigiosi avvenimenti. 11 suo ritorno al castello, la radunata de' bravi, il discorso e il contegno di lui, le impressioni che quelli ne ricevono, sono tratteggiati nella nuova stesura con un tòno di severa spiritualità, con una rapidità vigorosa d'analisi, che la prima soffocava sotto l'affastellamento de' particolari e il peso di uno psicologismo minuto, discontinuo, frastagliato: in questa c'era unicamente la cura d'interpretare la condotta del convertito secondo gli svelti e gagliardi cenni che ne aveva lasciati il Ripamonti; in quella c'è la meditazione religiosa che, assorbendo le preoccupazioni della storico, ispira e regge la fantasia deì poeta nell'icastica rappresentazione di una nuova coscienza (*). Ma piti e' interessa ciò che segue a quella solenne professione dell'uomo nuovo dinanzi a' suoi bravi, come, cioè, si raccogliesse a meditar su sé stesso nel silenzio della sua camera, tornasse, dopo tant'anni, alle orazioni dell'infanzia con una dolcezza ineffabile, un inasprimento di rimorso, un santo zelo di bene, una riconoscenza, una fiducia in Dio, e trovasse «immediatamente» riposo nel sonno «in quel letto in cui la notte avanti aveva trovate tante spine» (*). È un tratto nuovo, che aggiunge forza e gravità alla conversione, integra e svolge quell'ingenita nobiltà morale, occulta nell'animo superbo e violento, che abitudini delittuose avevano traviato, ma che un oscuro travaglio e circostanze straordinarie hanno ormai risollevato al dramma del rimorso e dell'espiazione; e su questo irradia tale austerità religiosa, tale umiltà eroica, tale fiducia operosa di redenzione che già intravediamo la magnanima figura cristiana che Federigo nel memorando colloquio vaticina con tanto ardore di carità. E in piena luce ce la presenta il poeta nel narrare come l'Innominato accogliesse nel suo ben difeso castello i fuggiaschi al passaggio delle bande alemanne. È tutta nuova anche questa pittura (^) della vita penitente e benefica di colui eh' era stato il terrore della contrada, mentre le vaghe e smilze notizie del primo disegno lasciavano nell'ombra quella nuova spiritualità magnifica. Medesimamente quel restringersi -- subito dopo il racconto della conversione -- a riportare il passo del buon Ripamonti, che ne toccò «in termini generali» (*),tconferma quanto addietro osservavo, es (1) Cfr. Sp. prom., pp. 411-15; Prom. sp., cap. XXIV, pp. 360-3. (8) JMd., p. 363. (3) Prom. sp., cap. XXIX, pp. 433-6. (4) Sp. prom., pp. 410-11. V. un magro cenno della vita del Conte dopo la conversione a p. 622. sere, cioè, prevalsa la concezione storica su quella umana e morale nel modo come il Manzoni la prima volta evocò e tratteggiò il grande peccatore. L'aggiunto ritratto della novella vita piamente operosa e l'analisi lucidissima e, per ogni aspetto, compiuta de' vari sentimenti d' ammirazione, di compiacenza, di rispetto, che nel popolo, ne' magistrati, ne' grandi, negli stessi offesi aveva fatto nascere quella gran conversione, di quello spirito di gioia e di pace de' buoni, d' acquietamento o almeno di remissione delle più rabbiose passioni non solo concorrono necessariamente allo svolgimento psicologico e morale del nuovo carattere del personaggio, ma offrono un'immagine della molteplice anima sociale, su cui il grandeggiante spirito del convertito riverbera la sua carità e mansuetudine, suscitandovi segreti istinti d' inconscia bontà e impeti d'allegrezza, anche di dolore e di stizza, ma non «disprezzo né odio» (*). Cosi la trasfigurazione morale d' una singola anima attrae nella sua spirale ascendente -- tolti i casi scarsi di riottosità caparbia e d'invincibile abitudine al malefizio -- il multanime mondo che le palpita intorno: l'uomo e la società, riconciliatisi, si ricompongono in una vita migliore; imperfetta, si, e inquieta, come comporta la nostra fragile natura, ma animata dall' ansia del bene, ma illuminata dalla speranza di un più riposato domani. In nessun altro punto del romanzo è cosi significativo^ come in questo, quel giusto contemperamento di pessimismo e d'idealismo cristiano nella concezione etica dell'uomo a cui il Manzoni è pervenuto, meditando, con lo sguardo sempre più profondo e sereno, il male e il bene della vita. Alla purificazione ed elevazione del mondo manzoniano, quale usci dal primo getto, hanno concorso non meno la coscienza religiosa che la coscienza poetica: l'elaborazione fantastica e il progressivo perfezionamento artistico del capolavoro han proceduto di pari passo -- nota giustamente il Momigliano -- col «rinvigorirsi» e l'«allargarsi delle convinzioni morali» del pensatore cattolico: «r edizione definitiva dei Promessi sposi» (e tanto più limpidamente quella del '42) «rappresenta l'assetto definitivo e più complesso della coscienza cristiana del poeta» (^). Che altro è codesto assetto se non quell'armonia superiore che il pensiero religioso del Manzoni ha raggiunto correggendo, limitando e fondendo in una sintesi lucida e tranquilla le opposte concezioni (1) Prora, sp., cap. XXIX, p. 434. (2) Op. cu., p. 65. dell' uomo, secondo che lo riguardi nella sua ingenita debolezza o nelle sue attitudini ad elevarsi a Dio ? Frutto di questa sintesi superiore della meditazione cristiana è anche la figura morale di fra Cristoforo, come il Manzoni la venne rielaborando nell'ultima forma del romanzo. Ne' due contrasti vivacissimi che il frate ha con Renzo nella casetta di Lucia e al lazzaretto ciò che caratterizzava il suo contegno primitivo era l'insistere sull' omicidio commesso in gioventù con particolari di fatti e con passione di ricordi; era la spietata analisi che il fiero esaminator di se stesso faceva della colpa di un passato tanto lontano (^). Il primo fra Cristoforo appariva tutto preso da quella tragedia giovanile, con un'ombra tetra nell'anima e sul volto che soverchiava smoderatamente l'intensa e sempre viva luce d'una lunga vita eroicamente espiatrice: la qual composizione disarmonica e inorganica del carattere era forse dovuta alla malformata intenzione d'accrescergli grandezza con l'accentuarne le punte del perenne rimorso, ma pareva, piuttosto, conseguire dal dissidio tra r interpretazione pessimistica e la visione idealistica della vita, dal prevalere, anzi, di quella su questa con manifesti perturbamenti nella genesi e nella formazione etica e artistica di un personaggio che è, certo, de' più profondamente sentiti e amorosamente studiati dal nostro poeta. Il quale ne' Promessi sposi ne ha stinto il colorito tragico e abbellita la nobiltà austera, l'ha rappresentato memore sì del suo tristo caso, ma così compostamente pensoso nel ricordo e nel sentimento, da ritrarne, nella sua nuova vita, fiamma di carità riparatrice. Il medesimo processo di ripensamento etico-religioso della materia, dovuto ad un' ispirazione più armonica dell' ideale cristiano, si osserva nel rimaneggiamento del colloquio di Federigo con don Abbondio (*). La parola del magnanimo vescovo, severa, pietosa, ardentissima aveva spesso i bagliori e i fremiti d'un cupo dolore: i sentimenti, che ne erano espressi e, a un tempo, accresciuti, eran (1) V. Sp. prom., pp. 83, 120-1, in cui il frate perfino negli ammonimenti fatti a Renzo rifletteva molto del suo intimo affanno, e pp. 746-8, tutte pervase dall'amarezza del ricordo e del pentimento. E cfr. quelle parole che diceva al giovine: «Son quarant'anni ch'io vi penso, e grazie a Dio, per quarant'anni ne ho avuto dolore, e mi sono accusato Non'creder tu ora dunque di poter consolarmi: consolati piuttosto di essere tu in tempo di perdonare: non ispender vane parole; ascolta piuttosto le mie: v'è dentro il pensiero di tutta la mia vita, della men trista parte di essa»... (Sp. prom., p. 746) con queste de' Prom. sp., più misurate e profonde: «Ah ! s'io potessi ora metterti in cuore il sentimento che dopo ho avuto sempre, e che ho ancora per l'uomo ch'io odiavo»! (cap. XXX v. p. 527). (2) Sp. prom.. pp. 439-53; Prom. sp., cap. XXV. pp. 373-6; cap. XXVI. pp. 376-82. proprio quelli che il poeta scorgeva dipinti e nel vólto composto al silenzio:» «l'ira senza peccato, la commiserazione, un riflesso di terrore sopra se stesso al ricordo di quei doveri, che gli erano comuni con quello, eh' egli riprendeva d' averli sconosciuti > (^). Tutta la scena era dominata da una viva apprensione della tristezza del mondo (*), dell' angosciosa infermità della carne {^), de' duri contrasti del debole con l'iniquità (*), del pervertimento a cui l'ingiustizia patita trascina gli onesti (*): nel suo acceso discorso Federigo univa anche una «pietà rispettosa» per la debolezza carnale del curato ai rimproveri per l'abbandono in cui egli aveva lasciato gì' innocenti, ma lo richiamava, a un tempo, con ascetica rudezza al dovere di sacrificare la vita (^), e delle sentenze (1) Sp. prom., p. 449. ^^t2F«L' uomo -- diceva -- è tanto artificioso per giustificare i mezzi che lo possono condurre ai suoi desiderj: che debb'essere quando i desider j son giusti ?.. Ah ! tutti errano pur troppo, anche quelli che dovrebbero raddrizzare gli errori altrui: v'ha tanti scellerati impuniti, Dio volesse che la paura, che il terrore della pena non cadesse mai sugli innocenti» ! (Sp. prom., p. 447). E dei poveri diceva: «Ah ! per quanto l'iniquità trionfi, s'è pure annessa un po' di forza per la giustizia; ma i poverelli, inesperti, ignari, diffidati, non sanno dove andarla a cercare: bussano alla prima porta; e, se la trovano chiusa, sorda, crudele, si disanimano affatto, e non sanno come adoprarsi» (p. 446). (3) Al confessato spavento di don Abbondio Federigo ripigliava: «La carne inferma, ed è questa la nostra miserabile condizione»?, e poi: «Il vostro corpo si abbattè sotto lo spavento: guai al tristo superbo, che ne pigliasse argomento di befi"a e di dispregio: per questa debolezza, che non è della vostra volontà, non sento altro che una pietà rispettosa; ma nella umiliazione del vostro terrore, ma nelle angosce della nostra infermità, come non avete pensato alle angosce, che erano minacciate a quelli pei quali voi dovevate vegliare»* 'Sp. protri., pp. 444, 445). (4) «Pur troppo -- osservava amaramente -- io l'ho più volte esperimentato in questa diffìcile altezza: il debole che si richiama al superiore, che gli fa conoscere la sua ragione, che ottiene una giustizia, troppo spesso momentanea, peggiora spesso la la sua condizione. Quegli, che è stato ripreso per sua cagione, tace dinanzi alla riprensione, cede al suo maggiore; ma trova poi il mezzo di fare espiare al debole quel breve trionfo. Son tanti i mezzi di fare anche torto al debole»... (Sp. prom., pp. 451-2). (5) Del presunto pervertimento di Renzo «profugo, esacerbato, col sentimento della giustizia negata», Federigo faceva apertamente carico a don Abbondio, dicendo fra altro: «I poverelli sanno, devono purtroppo saperlo, che v'ha dei soverchiatori violenti: hanno appreso ad adorare anche nella iniquità degli uomini la giustizia e la misericordia di Dio entrambe infallibili, ma riserbate entrambe a momenti eh' Egli solo conosce. E quante volte la persecuzione dell'empio non accresce in essi la fede? Ma quello che la turba, quello che investe la loro coscienza, quello che travolge il loro proposito, è l'abbandono per parte di coloro che predicano la fede, la coscienza, il proposito Quell'infelice ha veduta e ha sentita l'ingiustizia sola: l'ha veduta impunita, temuta; ha veduto colui, dal quale aveva imparato a detestarla, ritirarsi, cedere, assecondarla, quando si è mostrata nella sua forza; dopo averla abborrita, egli ne è stato abbagliato, ne ha fatto il suo Dio». {Sp. prom., pp. 448-9). (6) «Offeritela -- incalzava il cardinale -- per le mani dei violenti in sacrificio alla fede e alla carità, e la Chiesa la raccoglierà come un nobile tesoro, la conserverà di generazione in generazione, di sacerdozio in sacerdozio, come un oggetto di culto, del divino Maestro ripeteva contro il pusillanime la più fiera e terribile (*). Nella nuova stesura il tòno è grave, austero, accorato, ma non <ì09ì cupamente doloroso come nella prima: Federigo interroga e scruta, incita e contuta, rimprovera e giudica più con l'ansia di ridurre il curato alla confessione, al pentimento, alla promessa di carità che di suscitargli nell'animo l'orrore dell'iniquità commessa, senza perturbarlo, come faceva negli Sposi promessi, con la visione della sciagurata vita di Renzo: nella sua voce vibra piuttosto la gentile energia di Paolo che il fremito minaccioso del veggente di Patmos: pensoso delle umane passioni non meno che lo fosse nella primitiva redazione del colloquio, è tuttavia parco nel dipingerle e nel deplorarle (*); più che il cruccio per la tristizia de' potenti, per l'oppressura degli umili e l'infermità della carne, erompe dal suo discorso la convinzione cristiana della santità del ministero^ della potenza di Dio, che largisce infallibilmente il coraggio a chi glielo chiede, della necessità del dovere e dell'amore (^): onde insiste con penetrante analisi nell'esaminare la colpa del parroco vile, nel precisare la condotta che questi avrebbe dovuto tenere (*), sorvolando sulle funeste conseguenze del suo fallo ('): insomma dal contegno e dalle parole dell'alto prelato traspira un'indignazione profonda sì, ma contenuta, una fierezza evangelica non scompagnata ?come un testimonio della forza che le è stata data dall'alto, come un tempio dove lo spirito avrà operate le sue meraviglie» (Sp. prom., pp. 441-2). (1) «Chi non ha cura dei suoi -- ripeteva con Gesù il cardinale -- ha negato la fede, è peggiore dell'infedele» (Sp. jjrom., p. 449). (2) Sono rapidi accenni o giudizi pacati: «Non sapevate voi che e' eran de' violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che a voi sarebbe comandato*» (cap. XXV, p. 374). «Perchè vi siete voi impegnato in un ministero che v'impone di stare in guerra con le passioni del secolo!» (ibid., p. 376). «L'iniquità s'era fatta vedere a voi, per intimarvi il suo desiderio; ma voleva rimanere occulta a chi avrebbe potuto ripararsi da essa, e mettersi in guardia; non voleva che si facesse rumore, voleva il segreto, per maturare a suo bell'agio i suoi disegni d'insidie o di forza; vi comandò la trasgressione e il silenzio: voi avete trasgredito, e non parlavate» (cap. XXVI, p. 377). «Non sapevate che, se l'uomo promette troppo spesso più che non sia per mantenere, minaccia anche non di rado, più che non s'attenti poi di commettere? Non sapevate che l'iniquità non si fonda soltanto sulle sue forze, ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui»ì (ibid., p. 379). (3) V. specialmente le pp. 376 e 378. (4) V. pp..cit. e pp. 377, 379. ib) Vi allude con quelle parole: «avendone presa un'altra [strada], ne restate mallevadore voi; e di quali conseguenze» ! (ibid., p. 378) e un po' più apertamente, ma misuratamente, con quest'altre: «Ora uno fuggitivo da casa sua, l'altra in procinto d'abbandonarla, tutt'e due con troppo forti motivi di starne lontani, senza probabilità di riunirsi mai qui, e contenti di sperare che Dio li unisca altrove» (ibid., pp. 381-2). da un grande ardore di carità, un vivo dolore per le aberrazioni umane, ma temperato dalla speranza. Non v'era nella prima redazione la magnifica frase di don Abbondio: il coraggio, uno non se lo può dare» (*); né all' atto del colpevole che «restò lì senza articolar parola > alle domande di Federigo: «cosa v'ha ispirato il timore, l'amore? cosa avete fatto per loro? cosa avete pensato» ?, seguiva quella curiosa riflessione del Manzoni: «anche noi sentiamo una certa ripugnanza a proseguire: troviamo un non so che di strano in quel mettere in campo, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di se. Ma pensando che quelle cose erano dette da uno che poi le faceva, tiriamo avanti, con coraggio» (*). La risposta di don Abbondio non è soltanto una magistrale pennellata che ne mette in piena luce il carattere, ma insieme con quel commento, così sapido d'arguta bontà, rivela un aspetto, che nella prima redazione dell'episodio rimaneva, se non occulto, oscurato, del pensiero etico e religioso del Manzoni: quell'attitudine, esercitata con serena indulgenza, a non trascurare, nel giudizio dell' uomo, 1 limiti e i mezzi della nostra natura, a valutare, senza querimonie o recriminazioni, la distanza tra ciò che l'uomo è nella sua realtà storica e l'ideale di perfezione, che gli si offre ne' precetti e negli esempi solenni. Codesta concezione più comprensiva e pili profonda della realtà limitatrice dell' ideale, ha consentito al Manzoni di raggiungere la più alta vetta della coscienza cristiana, di guardare, cioè, la vita, temperando con la sapiente bontà, ispirata dall'esperienza e dal senso del reale, l'austero pessimismo germinante dal fondo stesso dell'etica religiosa; ha, di conseguenza, concorso a quella maggior misura e sobrietà, a quella concretezza più risentita e vitale, a quella più universale umanità di che a suo tempo vedremo la fantasia dello scrittore rinnovar la materia del primo getto. Né soltanto nel luogo citato, ma in altri ancora, che nella prima stesura non si ritrovano, vediamo i segni di cotale attitudine del pensiero manzoniano. Nel rifare la biografia di Federigo Borromeo il Manzoni ci offriva da prima un ritratto di quasi assoluta perfezione, evidentemente per rendere, in forza del contrasto, più turpe e obbrobrioso il quadro della corruttela e della barbarie della società secentesca; e, se pure ammetteva che talune superstizioni universali si fossero imposte alla mente di quel magnanimo, ne esaltava (1) Prom. sp., cap. XXV, p. 375. (2) Ibid., p. 376 e cap. XXVI, 377. la somma virtù anche nell' applicazione di esse (*). Ma ecco l'osservato concetto della realtà limitatrice dell'ideale, inducendo il Manzoni ad una valutazione più esattamente storica di quella complessa personalità, gli suggerisce la notevole aggiunta che si legge nell'ultima redazione: < Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d'oggi parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate >, e gli fa lasciare, con arguto riguardo, insoluta la questione se possa valere «quella scusa così corrente e ricevuta, ch'erano errori del suo tempo piuttosto che suoi», «bastandoci -- soggiunge -- d' avere accennato così alla sfuggita che, d' un uomo così ammirabile in complesso, noi non pretendiamo che ogni cosa lo fosse ugualmente; perchè non paia che abbiam voluto scrivere un' orazion funebre» (^). Nella scena stessa dell'incontro de' bravi la paura di don Abbondio non aveva nel prima getto quello sviluppo organico, quella determinazione di motivi e d'atteggiamenti che ha ricevuto di poi. Dopo le prime brevi battute di divieto circa il famoso matrimonio e d'intimidazione, uno de' bravi usciva a dire: «Signor Curato, ci ha intesi: l'illustrissimo Signor don Rodrigo nostro padrone le fa i suoi complimenti». Poi seguiva l'intimazione del segreto e tra questa e il salato significativo da parte di don Rodrigo non correvano che le magre parole del curato: «Se mi sapessero suggerire...» e quelle, di rimando, del bravo: «Oh! suggerire a lei che sa il latino» (3) ! Nel rifacimento ha tutto un nuovo vivido risalto l'impressione di sgomento che colpisce il malcapitato a sentire il nome di don Rodrigo: «fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d'un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore». Il dialogo, dopo l'intimazione del silenzio, prosegue tra quel domandare esigente del bravo: «Via, che vuol che si dica in suo nome all' illustrissimo signor don Rodrigo?..» e il titubare del curato che risponde: «Il mio rispetto...»; tra l'incalzar dell' uno con quel brusco: «Si spieghi meglio» ! e quella disperata dedizione dell'altro: «Disposto... disposto sempre all' ubbidienza»; e ha per suggello quel commento, pieno d' ironica urbanità, dell'autore: «proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa o un complimento» {*). (1) V. n. 296. (2) Prom. sp., cap. XXII, pp. 323-4. (3) Sp. prom., p. 21. (4) Prom. sp., cap. I, pp. 12-13. La cura con cui il Manzoni svolge, e arricchisce di motivazioni nuove, l'azione dialogica nell'ultima forma dell'episodio, risolve la situazione, ch'era nella primitiva ancor vaga e imprecisa, dell'evidente contrasto tra la natura di don Abbondio e l'arduo ufficio del suo ministero: la risolve deliberatamente con una catastrofe così chiara e definitiva che non solo ne vediamo escire ormai nettamente segnato il profilo psicologico e morale del personaggio, ma avvertiamo con quale forza immanente e irresistibile la realtà delle cose e de' temperamenti umani perturbi, o addirittura soggioghi, le più alte missioni ideali della vita: sentiamo che l'ideale è grande e degno, altresì, d'essere esaltato nella parola severa e ardente d' un Federigo Borromeo, ma che, nella realtà dell' azione, urta irreparabilmente contro il limite della nostra natura finita. A questa semplice verità umana pensava il Manzoni nel ritoccare il contegno degli sposi e di Agnese fuggiaschi, quando fra Cristoforo mostra di credere che Menico «gli avesse trovati tranquilli in casa, prima che arrivassero i malandrini»: «nessuno lo disingannò -- dice il Manzoni ne' Promessi sposi -- nemmeno Lucia, la quale però sentiva un rimorso segreto d'una tale dissimulazione, con un tal uomo; ma era la notte degl' imbrogli e de' sotterfugi» {}). Questo tratto non si leggeva nella minuta, né v'era altro che un cenno della rivelazione, fatta dal frate, del pericolo corso dalla povera Lucia (^). Con r avere circostanziato e precisato quel primo incontro, e fatto commettere ai fuggiaschi, a Lucia stessa, un altro imbroglio dopo quello, più grosso, del tentativo di matrimonio per sorpresa, il Manzoni ha voluto riavvicinare all'ordinaria realtà delle cose e dello spirito tali personaggi, come son questi, pensati e plasmati al lume del suo ideale religioso, perfino quella sua Lucia in cui si compiace specchiare talune delle più alte virtù cristiane: ne ha sottoposto, per così dire, la genesi idealistica (né in questo sol punto, né di questi personaggi soltanto) all' «acre foco» del realismo psicologico, limitando, sì, l'ideale, ma approfondendo l'umanità delle creature nate dalla sua coscienza morale e artistica. Chi non sente quanta vita vera palpiti in quella notte che il corso del destino voleva fosse «la notte degl' imbrogli e de' sotterfugi» per tutti, -- e buoni e cattivi, e oppressi e oppressori, e piccoli e grandi, -- e come naturalmente pervada e di sé colorisca spiriti e cose la realtà con le sue leggi ferree e con le sue imperfezioni irrimediabili? (1) Prom. sp., cap. Vili, p. 120. (2) Sp. prom., p. 148. Questo era tutto: «E qui raccontò ai poveretti il pericolo a cui erano sfuggiti». Alla realtà, limitatrice delle forze morali dell'uomo, nessuno sfugge de' personaggi manzoniani: non Federigo, non Lucia, non fra Cristoforo; tanto meno gli altri: essa è la legge eterna della vita, dal poeta assunta nel disegno dell' azione generale e nella creazione particolare de' caratteri: ancora confusamente intuita e incertamente applicata nella prima forma del romanzo, qualche volta rudemente applicata per eccesso di colorito storico e di psicologismo, come nella primitiva figurazione del carattere di fra Cristoforo, s'è fatta chiara, armonica, costante nell'ultima forma, cooperando a temperare, nel gioco delle idee etiche e de' motivi sentimentali e nel processo stesso di ricreazione e trasfigurazione fantastica, gli eccessi di pessimismo e d' idealismo moralistico del primo getto e ad unificare le due contrastanti tendenze in una piti cooerente e serena concezione cristiana. ---- LA GENESI LETTERARIA CAPITOLO I. Fondamenti dell'estetica manzoniana I. L'arte come rappresentazione delle verità eterne dello spirito. -- II. La poesia in relazione con V ideale di perfezione e con la realtà conosciuta. -- III. La poesia e la verità storica. I. Come nella prima parte di questo lavoro ho ricercato e illustrato la genesi e la trasformazione del romanzo manzoniano in ordine ai principi, ai motivi e agli atteggiamenti del pensiero etico-religioso, donde il poeta trasse la più remota e più profonda ispirazione, così ora devo riguardare dell' una e dell' altra le ragioni e le vicende in ordine alle sue idee letterarie e al suo sistema del romanzo storico. E impossibile farsi un' idea esatta dell' estetica manzoniana, se non se ne studiino le relazioni di dipendenza e d'influsso reciproco eh' essa ha con le idee morali dello scrittore e col suo concetto del vero e della storia. Pel Manzoni l'attività poetica e il sentimento e il giudizio morale sono inscindibili nell'unità dello spirito. Solo quando si fondi su quest'accordo, la poesia è consolatrice della vita e ausiliatrice della missione religiosa: luce benigna riverberata da quell'ordine ideale che noi vagheggiamo, ma che non ha compimento se non oltre il nostro vivere terreno (*). Fermo questo concetto che la poesia deva essere un'efficace e piena rappresentazione del mondo morale, il Manzoni non si perita d' asserire: «la perfezione morale è la perfezione dell'arte»; onde Shakespeare sovrasta a tutti i poeti, «perchè più morale», cioè perchè primeggia in quella «rappresentazione dei dolori profondi e dei terrori indeterminati» che^ secondo (1) 0%)p. in. r., voi. Ili, p. 198. il Manzoni, «è sostanzialmente morale, perchè lascia impressioni che ci avvicinano alla virtù» (*). Pensa egli che «più si va in fondo del cuore,» più si scopre r uomo nella sua intima e profonda natura, commosso o dal dolore o dal terrore, e che per tal via «più vi si trovano i principi eterni della virtù >, Questi, «nelle circostanze comuni,» cioè «nelle passioni più attive che profonde», più sensuali che spirituali, come ne' desideri e conati «verso un intento, sia d'amore, sia d'ambizione, sia d'altro», sono dimenticati dall'uomo. L'arte che rappresenti codesta vita superficiale dello spirito non ha la nostra simpatia, non genera l'immedesimazione dell'anima nostra con la rappresentazione poetica: è l'arte delle opere teatrali francesi, guardando esclusivamente le quali il Bossuet, il Nicole e il Rousseau sentenziarono essere il teatro essenzialmente immorale. Qual' è, per contro, l'effetto della rappresentazione artistica «dei dolori e dei terrori» -- Che r uomo, trasportandosi con l'immaginazione fuori delle cose note, degli accidenti comuni della vita nella «regione infinita dei possibili mali, sente la sua debolezza; le idee ilari di vigore e di difesa l'abbandonano, e pensa che in quello stato, la sola virtù e la retta coscienza e l'aiuto di Dio posson dare qualche soccorso alla mente» (*). Ripensiamo alla notte terribilmente angosciosa dell' Innominato nel suo castello, a quella, agitata da ben altri terrori e patimenti, di Lucia, al pauroso sogno di don Rodrigo, al terrore che l'invade, quando scorge su se stesso i segni mortali della peste, e all'agonia greve silenziosa di lui sul giaciglio nel lazzaretto: sono stati d' animo e scene che il poeta ha vigorosamente concepito e rappresentato conformi a quel suo ideale d'arte austeramente edificativa. La poesia -- ammonisce inoltre il Manzoni -- deve rendere il lettore o lo spettatore non complice de' personaggi e delle passioni loro, ma giudice, e farlo sentire separatamente da essi: cioè la rappresentazione delle passioni non deve eccitar la simpatia, ma la riflessione sentita; solo in questo caso è veramente poetica (^). E poetico sempre sarà altresì il rappresentare coi mezzi dell'arte le inquietudini e i patimenti umani, poiché il poeta non può dare che una visione pessimistica della vita: dipingere le «rimembranze meste del passato, che ci sembra essere stato più felice per noi», e le «speranze dell'avvenire» è far poesia; «ma deve il poeta far sentire la vanità di questi sentimenti». Ed ecco il Manzoni chiarire con (1) ma., p. 163. (2) Ibid., pp. 205-9. (3) Jìiid., pp. 210, 212. nuovo acume una sua idea estetica, già in altro luogo adombrata, con questa schietta asserzione: «A chi dicesse che la poesia è fondata sulla immaginazione e sul sentimento e che la riflessione la rafiFredda, si può rispondere che piti si va addentro a scoprire il vero nel cuore dell' uomo, più si trova poesia vera (*)», Il Manzoni stringe in una sola unità spirituale il «bello morale» e il «bello poetico», reputandone assurda la distinzione, perchè la poesia non può aver fondamento che sulla verità, non la verità che abbia l'approvazione de' contemporanei, in quanto è conforme alle loro idee e ai loro gusti, ma quella che ottiene l'assentimento de' posteri: unicamente interessanti sono le verità che non soddisfano gli spiriti leggeri, ma quelli che cercano di comprendere la natura umana ed i mali della vita (*). Il diletto letterario stesso non è che assentimento alle verità morali. E non può essere inteso che in questo senso morale ciò che il nostro scrittore dice del «sentimento vero e sincero» espresso dalla poesia cui spetti l'immortalità. Ne consegue che il poeta deve tendere «al perfezionamento della società», disobbligandosi dalle particolari circostanze del suo secolo, per avventura opposte a quel fine, giacché «le cose eternamente vere sono le più sentite e le più lodate^ se non dai contemporanei, dai posteri (^); con ciò il Manzoni afferma un principio che supera la poetica de' romantici italiani, quello dell'universalità e perennità della poesia in ragione diretta delle leggi e degli aspetti eterni della vita, che l'arte intuisce e significa nelle sue forme concrete. Egli è perciò avverso a tutte le censure e le distinzioni sistematiche e ai pregiudizi teorici, che vorrebbero limitare l'indipendenza dell'arte; onde allo stesso A. G. Schlegel, tanto caro ai romantici, che nel suo corso di letteratura drammatica aveva mosso appunti alle tragedie d'Euripide, perchè non vi trovava la pura essenza del dramma greco né l'idea dominante del Fato, il Manzoni osserva che Euripide era libero di concepire un'altra specie di tragedia, né poteva quell'idea, in quanto falsa e caduca, costituire il carattere esclusivo della poesia drammatica (*). Al medesimo Schlegel, il quale aveva detto essere l'ispirazione dell'Alfieri piuttosto politica e morale che poetica, ribatte che tale (1) Ibid., p. 197. (2) «11 n' y a qu' une règie pour juger des peintures de caractère; c'est d'examiner si elles présentent des vérités intéressants». (Opp. in. o r., voi. II, p. 440). (3) Ibid., p. 441. (4) Ibid., p. 433. Bu setto -- e distinzione, all'analisi dell'opera alfleriana, svanirebbe (*), appunto perchè un ideale politico ed etico, poeticamente significato^ in quanto è una verità eterna dello spirito, non può non essere l'essenza stessa della poesia che lo rappresenta. Posto come principio dell'arte l'inscindibilità della rappresentazione artistica dal suo contenuto ideale, non poteva giudicare che sorgente inesauribile d'errori la distinzione, usata nella critica anche de' suoi giorni^ tra le idee e le emozioni: non si può fare -- egli osserva -- poesia senza idee, e se un'opera letteraria produce delicate emozioni in chi s'accosti ad intenderla e a gustarla, bisogna ammettere eh' essa sia l'espressione di un ordine d'idee dominanti a cui si sia elevato arditamente 11 poeta; poiché che fa il poeta se non «dare espressione ai desideri, ai patimenti e alle convinzioni della società? (*). Ma -- si noti bene -- non perciò il poeta ha da «tener conto delle norme convenzionali e dei desideri, per lo più temporanei, della maggior parte dei lettori»; poiché, se è l'interprete d'un mondo ideale, non ha «mezzo migliore > pel suo alto fine che «di fermarsi nella viva e tranquilla contemplazione» del suo argomento {^). Questo modo di considerar la poesia come lo specchio di principi eterni, come uno strumento del perfezionamento morale e sociale dell'uomo non limita lo spirito critico del Manzoni, quando gli si offre il destro di valutare l'organismo, che è quanto dire l'unità estetica dell'opera d'arte. In una lettera a Diodata-Saluzzo, ben nota, ma, eh' io sappia, non del tutto apprezzata per le idee che vi sono espresse, egli, conformandosi ad un principio enunciato da A. G. Schlegel, dimostra con mirabile chiarezza che il valore di un componimento letterario consiste nell'avere una forma organica, individuata, con caratteri suoi propri, con una sua intima armonia e convenienza della rappresentazione al soggetto, con un suo svolgimento interiore e una tale relazione delle parti tra loro che conferisca equilibrio logico e unità artistica al tutto (*). Ma le parti, -- avverte il Manzoni, correggendo un altro giudizio dello Schlegel a proposito di una situazione del coro nell'Antigone sofoclea -- abbiano ciascuna la propria ragione logica e compiutezza poetica in 8è, indipendentemente dal suo rapporto col tutto (^); onde è giusto -- soggiunge contraddicendo ancora quel critico tedesco -- che (1) Ibid., p. 435. (2) Ibid., p. 438. (3) Lett. al Goethe del 23 genn. 1821 (in Cart. cit., p. 520). (4) Lett. del 6 sett. 1827 (in Epist. cit. voi., I, pp. 355-7). (5) Opp. in. o r., voi. II, p. 432. si ammiri la parte, che sia per sé bellissima, di un'opera, anche se le altre siano difettose, giacché il fatto che le parti coesistono necessariamente nel tutto non legittima il pregiudizio che così le parti belle come le brutte abbiano a soggiacere alla stessa critica negativa (^). Per questa rapida ricostruzione del pensiero critico del Manzoni intorno all'essenza dell'arte mi sono servito -- come s'è visto -- dei cosidetti Materiali estetici e delle tracce e de' frammenti di un discorso, vagheggiato dal Manzoni, sulla «Moralità delle opere drammatiche ?», non che delle Postille preziosissime; i quali scritti risalgono tutti, a un di presso, -- come addietro notavo -- al tempo della composizione del Carmagnola, à.Q\V Adelchi e dell' ideazione del romanzo, tra il 1816 all' incirca e il '21, o giù di li. Giova infatti, al fine di intendere l'arte d'uno scrittore, osservarne lo spirito critico nella spontaneità e nel fervore della sua attività giudicativa, mentre egli viene, ad un tempo, esplicando quella originalmente creatrice. * * * II. Su questo proposito, e proprio di questo tempo (*), v'ha una lettera all'amico ab. Gaetano Giudici, nella quale il Manzoni rischiara di nuova luce il suo concetto della poesia, riguardata come espres-' sione di un ideale superiore e come figurazione realistica del vero. L'opera poetica -- dice il Manzoni in questo suo scritto, tanto più notevole per la calda spontaneità e la lucidità delle idee -- genera un duplice interesse: l'uno, diremo così, ammirativo per le figure poetiche conformate a un tipo di perfezione, qual' è nel nostro desiderio; l'altro consistente nella tendenza «di conoscere quello che è realmente e di vedere più che si può, in noi stessi e nel nostro destino su questa terra». Se ben si legge nello spirito delle parole, il Manzoni intende che il poeta perviene al primo con l'idealizzazione della personalità umana, al secondo con l'interpretazione psicologica della verità storica. Circa questa verità e il grande valore morale e sociale che l'arte consegue facendosene rappresentatrice, vedremo fra poco; osservo intanto che, d'accordo coi romantici lombardi, giudica il secondo interesse «il più profondo ed il più utile ad eccitarsi >; ma non esclude che l'uno e l'altro possano (1) ma., p. 437. (2) È del 7 febbr. 1820 (in Cart. cit., pp. 466-7). trovarsi riuniti in una medesima azione e in un medesimo personaggio, come appunto egli fece nel romanzo rievocando artisticamente dalla storia (che altro è l'interpretazione psicologica della storia se non un'evocazione artistica di essa?) e ingrandendo alla luce di un' alta idealità religiosa la figura di Federigo Borromeo. D' altra parte chiama «metodo vizioso quello di trasportare negli avvenimenti la perfezione che non è che nella idea, e che quando sia rappresentata in idea, è veramente poetica e morale». I cori delle tragedie sono appunto la rappresentazione poetica di un ideale di perfezione, che è nella coscienza del poeta o dei lettori e spettatori; medesimamente alcune parti liriche de' Promessi sposi sono effusioni di codesto bisogno spirituale, tributi della poesia all'ideale della perfezione morale, come V Addio, monti, -- sospiro dell'anima all' ideale di pace domestica nella consolante letizia dell'amore santificato da Dio ?, come quel discorso del card. Federigo all' Innominato pentito, che s' intona solenne e ispirato con le parole: «cosa può far Dio di voi?», ed è l'inno fervido e devoto dell'anima cristiana alla carità divina, come la sublime celebrazione, che egli stesso fa nel colloquio con don Abbondio, dell'ufficio sacerdotale e della missione religiosa nel mondo, come nelle parole, tutte amore e fierezza, che a don Rodrigo rivolge fra Cristoforo, esaltando, nel vituperio delle nostre passioni vane o inique, la giustizia divina. Non che il Manzoni confondesse l'estetica con la moralità, il sentimento con la rappresentazione artistica, la realtà, divenuta motivo di commozione affettiva, con l'arte di figurarla: egli osservava che le idealità morali, suscitate in noi dal travaglioso desiderio di perfezione, ricevono una lor viva incarnazione nella poesia, in guisa che r idea e la forma si fondano in una rappresentazione poetica che tocchi le più alte vette della lirica; e che la realtà universa (non esclusa la natura), quel «misto di grande e di meschino» che è, alla fin fine, la storia, è traducibile in forme d'arte concrete, in cui il reale, l'accaduto, il contingente si specchi riflettendo la vicenda delle armonie e disarmonie della vita, non però straordinarie, ma, per così dire, prodotte e governate dalla logica delle cose e dalle leggi eterne dello spirito umano (*). La poesia dunque va dall'efficace e vivace rappresentazione di ciò che è reale, ovverosia storico, alla celebrazione lirica di ciò che è idea, come aspirazione a un (1) V. anche la lett. al Fauriel del 29 maggio 1822 (in Epist. cit., voi. I, p. 242), nella quale biasima ne' romanzi contemporanei «l' unite artificielle que l'on ne trouve pas dans la vie réelle» per ciò che concerne il succedersi degli avvenimenti e il loro influsso sul destino de' personaggi. mondo superiore: è, ad un tempo, quadro e inno della vita e degli ideali umani. In queste tendenze critiche, in questi concetti della poesia e dell' arte, che è lecito scorgere nella lettera del 1820 al Giudici, c'è qualche cosa che s'inalza sopra la schematica regola, che il Manzoni enuncia nella celebre lettera sul Romanticismo inviata tre anni dopo a Cesare d'Azeglio, dover cioè proporsi «la poesia o la letteratura in genere, l'utile per iscopo, il vero per soggetto, e l'interessante per mezzo» (*), In quella lettera, nel fervore con cui vi esamina, indaga e svela le ragioni dell'arte sua, che ha sentite e secondate componendo il Carmagnola e che certamente operarono con egual forza anche nell'ideazione e composizione dell'Adelchi e de' Promessi sposi, il Manzoni ci si presenta in un aspetto singolare e definito di critico meditante sull'arte propria e sulla poesia in genere, esprime concetti acuti e ci rischiara la via a intendere la genesi e i modi delle sue creazioni poetiche. Del resto, che la poesia si dovesse ricondurre alla rappresentazione della vita reale, che dovesse essere, a un tempo^ l'espressione ammirativa ed educativa d' un' idea di perfezione morale erano codeste idee non dissimili dalla dottrina, e qualche volta dalla pratica della scuola romantica (*); ma è merito del Manzoni averle pensate e professate con vigore nuovo che le fa apparire in lui quasi originali, e averle fedelmente osservate (assai più fedelmente di tanti romantici, compreso il suo dilettissimo Grossi) nel fare poesia, ond'egli -- più loico de' suoi confratelli in arte -- rifuggiva dal vago, dall' indeterminato, dal favoloso, e anzi metteva una buona dose della sua fine ironia nel citare quel «beau principe» (principio essenzialmente romantico!) che il vago, l'indeterminato, il confuso fosse poetico di sua natura (^). * III. Le idee letterarie del Manzoni, fin qui riguardate ne' rapporti con la sua dottrina etica, hanno altresì una intima colleganza col suo concetto del vero e della storia. È principio assiomatico del pensiero manzoniano che nell' opera letteraria la verità storica e il significato morale sono nettamente (1) Vedine l'ediz. data nell'Epist. cit., voi. I, p. 306. (2)' Cosi alla stregua di quel principio il Manzoni lodava i Profughi di Parga del Berchet in una lett. del 29 genn. 1821 al Fauriel (in Cari, cit., p. 513). (3) V. Cart. cit., p. 528. 134 PART2 SECONDA connessi, poiché quanto più i personaggi, le loro lotte interiori, i loro delitti, i loro caratteri saranno rappresentati secondo la verità storica, tanto maggior rilievo e significazione morale riceveranno. Nulla è tanto possente quanto l'interesse della verità: può destar dolore, ma perfeziona l'anima, ed ha indubbiamente effetti morali, se il disgusto che eccita è disgusto del male (*). Perchè il Manzoni si mise risolutamente sulla via del dramma storico e fu tanto preso dalla questione che ferveva intorno ad esso? Appunto perchè vi trovava una forza morale purificatrice (*). La storia è un' eterna scuola di morale (^): eccita in noi l'interesse coi «fatti grandi > che presenta, ma ci lascia, ad un tempo, nel «desiderio di conoscere o di immaginare i sentimenti reconditi, i discorsi ecc.» che hanno accompagnato gli avvenimenti; ebbene, a soddisfare questo desiderio interviene la poesia, inventando quei sentimenti «nel modo il più verosimile, commovente e istruttivo». Ciò osserva il Manzoni a proposito dell'ideale drammatico, che vede attuato al più alto grado in molte tragedie dello Shakespeare e manifesto anche nello Schiller e nel Goethe; ma non v'ha dubbio ch'egli vi aderisce per una ragione morale. Che si propone infatti quel genere di dramma? «Di interessare vivamente colla rappresentazione delle passioni degli uomini, e dei loro intimi sensi sviluppati da una serie progressiva di circostanze e di avvenimenti, di dipingere la natura umana, e di creare quell'interesse che nasce neir uomo al vedere rappresentare gli errori, le passioni, le virtù, l'entusiasmo e l'abbattimento a cui gli uomini sono trasportati nei casi più gravi della vita, e a considerare nella rappresentazione degli altri il mistero di se stessi» (*). Ciò che tace la storia rivela la poesia -- dice altrove il Manzoni estendendo il suo concetto del dramma ai componimenti letterari in generale: -- lo studio, l'analisi, la rappresentazione progressiva dei mutamenti di un'anima^ de' suoi disegni, delle sue illusioni, de' combattimenti intimi che hanno preparato la sua caduta e il suo trionfo, tutto ciò è «profond, instructif et dramatique» ('). La nostra miseria morale non può essere rappresentata che dalla poesia, poiché è di questa appunto una delle più belle facoltà quella (1) Lettre à M. C. sur V unite de tonps et de lieu dans la tragèdie, in Opere varie (ed. cit.) pp. 409-10. (2) V. A. Galletti, Studi e saggi cit., p. 8 e segg. (3) Per ciò che si riferisce alla teoria storica rispetto al dramma, v. l'esposizione fattane dal Galletti in Studi e saggi cit., pp. 16-20. (4) Opp. in. r., voi. Ili, p. 155 e Lettre sur l'unite cit., p. 432. (5) Lettre cit., p. 409. di «fermar la nostra attenzione, con l'aiuto di un grande interesse, sopra fenomeni morali, che non si potrebbero osservare senza repugnanza» (^). «L'essenza della poesia non consiste nell' inventare ì fatti», che anzi «la grande poesia ha sempre avuto fondamento sulla storia o su ciò che è stato considerato come storia» (^): la tragedia greca, ad es., ha tratto i soggetti dalle tradizioni nazionali; ma anche i tragici moderni hanno voluto (o almeno creduto) tenersi fedeli alla storia, come, ad es., il Racine e il Corneille. La relazione della storia con la poesia consiste in questo, che la poesia compie r interpretazione psicologica e drammatica de' caratteri umani, offerti dalla storia, e la loro figurazione e rappresentazione artistica. È questo il medesimo procedimento pel quale ne' Promessi sposi la realtà storica, evocata di su i documenti o intuita nello spirito della vita e de' costumi del Seicento italiano, ha assunto le forme della poesia. Posto il vero storico come fondamento della concezione poetica, sarà la storia -- secondo il Manzoni -- che redimerà l'arte dai modi convenzionali e falsi delle vecchie scuole: i progressi degli studi storici, rivelando il vero, riscattandolo da intenzioni parziali, da sistematiche astrazioni, affezioneranno le menti e le invoglieranno a vedere lo svolgimento de' fatti sulla scena. L'arte troverà i suoi limiti ne' limiti stessi della natura, cioè della realtà, cioè della verità; né cercherà più d'ispirare le passioni negli spettatori o lettori, ma la forza morale con cui dominarle e giudicarle. l'ideale della poesia ispirata dalla storia è tutto in queste calde parole che valgono non più per la tragedia che per ogni altra forma dello spirito poetico: «C'est de l'histoire que le poète tragique peut faire ressortir, sans contrainte, des sentiments humains; ce sont toujours les plus nobles, et nous en avons tant besoin! C'est à la vue des passions qui ont tourmenté les hommes, qu' il peut nous faire sentir ce fond commun de misere et de faiblesse, qui dispose à une indulgence, non de lassitude ou de mépris, mais de raison et d'amour» {^). Testimoni, non attori, degli avvenimenti, rievocati poeticamente dalla storia, ci abitueremo alle idee calme e grandi che essa presenta, e, che, se si affacciano al nostro spirito nell'urto della quotidiana realtà delia vita, sono disperse ben presto: così l'arte integra la vita, e le può conferire saggezza e dignità, o meglio assicurargliele, vivificando e sviluppando nelle anime l'ideale di bontà e di giustizia, che ciascuna reca in se stessa, rintuzzando le tendenze (1) IMd., p. 410. (2) Ibid., p. 425. (3) IMd., p. 449. alle false passioni, sollevando la ragione sulla nostra debolezza e sui nostri pregiudizi. La questione della rappresentazione storica nell'arte e massime nella tragedia, non era nuova; e s'era convenuto che si potessero inventar circostanze per render drammatica l'azione ma tali che non contraddicessero ai fatti più conosciuti e più importanti dell'azione rappresentata. La ragione che si metteva innanzi comunemente era che lo spettatore non avrebbe potuto prestar fede a ciò che fosse contrario alla verità ch'egli conosceva. Ora, a vero dire, non era questa una ragione molto inerente né essenziale all'arte; il Manzoni, per quanto la riconoscesse giustissima, non poteva appagarsene, e ne trovò un' altra più valida, che, cioè, «les causes historiques d' une action sont essentiellement les plus dramatiques et les plus intéressantes > (^): in altre parole, sono i fatti che, in virtù della loro verità essenziale, possedono in più alto grado il carattere di verità poetica, che si cerca nel dramma, nel romanzo o in altro simile genere di poesia: la rappresentazione realistica dell'uomo ci fa scoprire e valutare ciò che v' è di vero e d' intimo nella sua natura, ci fa vedere gli effetti de' fenomeni esteriori sulla sua anima, il fondo de' suoi pensieri, ond'ebbe l'impulso ad operare; a più forte ragione assentiremo all'analisi, come il poeta la fa, de' caratteri, alla rappresentazione di essi in azione, se egli, per dare dell'uomo e della storia un'idea più vera, più intera, più viva, rappresenterà de' personaggi sentimenti veramente provati, azioni effettivamente eseguite, mezzi realmente adoperati al conseguimento di un fine (^). Nonché alla storia sia concesso di accamparsi nel dramma o nel romanzo con la sua rigida somma di fatti e con questa sola; così facendo, l'arte si ridurrebbe ad una meccanica riproduzione del reale. No: il poeta -- pensa il Manzoni -- non riproduce, ma crea; e dare all' azione, scelta in una serie di fatti, e ai caratteri de' personaggi «uno sviluppo armonico, completare la storia, ricostruendo, per così dire, le parti perdute di essa, immaginare pur anche de' fatti, ove la storia non offre che cenni, inventare, se occorra, de' personaggi che servano a figurare i costumi conosciuti di una data epoca, prendere, infine, quanto esiste >, ovverossia è storicamente documentato, e «aggiungervi quel che manca, ma in maniera che l'invenzione s'accordi con la realtà, e sia anzi un mezzo per darle più vivo risalto» tutto ciò si può ragionevolmente chiamare creazione poetica (^). (1) IMd., p. 450. (2) IMd., p. 427. (3) ma., p. 428. La teoria del romanzo storico e la primitiva composizione dei Promessi sposi I. La creazione poetica e la giustificazione estetica del romanzo storico. -- II. La teoria letteraria del romanzo storico e lo storicismo degli «Sposi promessi». -- III. I reciproci influssi della tendenza storica e della tendenza etica nella prima concezione del romanzo e le singolari prove della preoccupazione storica del Manzoni, rivelate dalla prima stesura. Le digressioni storiche. -- IV. Le rivelazioni al Fauriel e la costruzione storica degli «Sposi promessi». Non v'ha dubbio che anche la teoria del romanzo storico deve rientrare nella generale dottrina della poesia e dell'arte, fondata suir accordo della poesia con la realtà della natura e col vero della storia. Se non che l'applicazione degli osservati principi al romanzo presenta difficoltà non lievi e rischia di cadere nel falso. Anche costruendo il romanzo -- osserva acutamente il Manzoni -- sulla base larga e solida delle azioni e de' discorsi in cui gli uomini hanno manifestati i loro pensieri, di rado si consegue la verità nell' espressione de' sentimenti umani, nell'analisi e nell'interpretazione del cuore umano: troppe idee oscure, artificiose o false si mischiano alle poche chiare, semplici e vere; la massima difficoltà, che ha reso così scarso il numero de' grandi poeti, è nello sceverare le une dalle altre. Il pericolo è maggiore, quando il romanziere trascuri o sdegni la realtà, inventando di sua testa i fatti: allora la verità gli sfugge; egli non si cura della verosimiglianza così nelle azioni immaginate come ne' caratteri dai quali ha fatto derivare le azioni, e a forza d'inventare casi nuovi e situazioni nuove, rischi inattesi, contrasti singolari di passioni e d' interessi, finisce col figurare una natura umana che non somiglia punto a quella che vive e palpita sotto a' suoi occhi o che, per meglio dire, non ha saputo vedere e interpretare. Questo difetto il Manzoni scorgeva nella, maggior parte dei romanzieri, da M.lle Scudéry a' suoi giorni; onde osservava che l'epiteto romanesque aveva assunto un significato spregiativo per denotare a proposito de' sentimenti e costumi, quel genere particolare di falsità, quel tono artificioso, quei tratti convenzionali che si riscontrano ne' personaggi di romanzo (*). Dal che è lecito dedurre che una delle ragioni per cui il Manzoni scelse il genere del romanzo storico è stata la preoccupazione del vero, il timore di cadere nei falso e nell'artificioso, ove al romanzo fosse mancata una base storica, la persuasione che la conoscenza storica di una data età è freno e misura per la retta rappresentazione della realtà umana: principi e tendenze che contengono in germe la teoria del realismo artistico, in quanto additano la verità storica come unica via per raggiungere la concretezza e l'efficacia dell'arte: d'un realismo artistico, però, a fondo moralistico, poiché move dal presupposto che soltanto la rappresentazione dal vero serva al fine morale dell' arte. In quelle sue rapide e sommarie riflessioni sul romanzo moderno il Manzoni tuttavia non escludeva che vi fossero romanzi degni d' essere riguardati come modelli di verità poetica, e certamente intendeva assegnare il primo posto a quelli dello Scott, poiché, dopo aver concepiti in modo preciso e sicuro caratteri e costumi, (e come avrebbero potuto senza la ispirazione storica?) i loro autori avevano inventato azioni e situazioni conformi a quelle che si avevano nella vita reale, per poter dare sviluppo a quei caratteri e costumi secondo verità (*). Questo giudizio che il Manzoili dà sul romanzo nella lettera allo Chauvet, consacrata alla difesa della riforma drammatica e del suo Carmagnola, ha importanza non solo per le idee che vi sono espresse e per il maturo concetto che egli s' era già fatto della letteratura narrativa, ma anche per l'esatta corrispondenza di esso con noti giudizi e discussioni su cui il Manzoni s'intratteneva in quel medesimo tempo con l'amico Fauriel. Nel riprenderli in esame ci verrà fatto di trarne argomenti utili ad intender l'origine e la elaborazione de' Promessi sposi. (1) ma., p. 431. (2) Ivi. Nel 1821 l'amico Grossi attendeva al suo poema sui Lombardi alla prima crociata e il Manzoni, scrivendo al Fauriel, si compiaceva, come di un felicissimo vantaggio per la poesia epica, dell'idea d'introdurre un «système d'invention des faits pour développer des moeurs historiques >, quale s'era proposto il Grossi con lo scopo «de peindre une epoque par le moyen d'une faible de son invention à peu-près comme dans Ivanhoe». E da ciò traendo argomento ad una considerazione generale, mentre conveniva che mescolare alla storia, per sé stessa interessante, invenzioni poetiche sarebbe stato disgustoso e puerile, soggiungeva: «Mais rassembler les traits caractèristiques d'une epoque de la société et les développer dans une action, profiter de l'histoire sans se mettre en concurrence avec elle^ sans prétendre faire ce qu'elle fait mieux, voilà ce qui me paraìt encore accordé à la poesie, et ce qu' à son tour elle seule peut faire» (^), Qui abbiamo l'idea fondamentale del romanzo storico, come r intese e l'attuò il Manzoni: la lettera è del gennaio 1821 e la prima pagina della minuta del romanzo porta la data del 24 aprile 1821: dunque in quel tempo il Manzoni e il Grossi venivano tra loro studiando e disegnando un ideale di poesia epico-storica o storico-romanzesca con lo scopo di tradurlo in pratica in opere d'arte concrete. Con questa attribuzione che il Manzoni conteriva alla poesia, assunta come rappresentazione artistica dello spirito e della vita di epoche storiche, s'accorda la definizione esplicita e chiara del romanzo storico, come componimento letterario, che dava alquanti mesi dopo che aveva già avviata la prima stesura del suo: «Je le con90Ìs -- scriveva al Fauriel -- comme une représentation d'un état donne de la société par le moyen de faits et de caractères si semblables à la réalité, qu'on pouisse les croire une histoire véritable qu'on viendrait de découvrir. Lorsque des événements et des personnages historiques y sont mélés, je crois qu' il faut les représenter de la manière la plus strictement'historique» (^). Questa enunciazione del modo come il Manzoni concepiva il romanzo storico, è osservabile non tanto per la teoria in genere, che non era, poi, del tutto nuova e originale, quanto pel proposito, recisamente espresso, di volersi attenere strettamente alla realtà storica, sia neir immaginare fatti e caratteri così da ingenerar l'im (1) Lett. del 29 genn. 1821 (in Cart., pp. 513-4). V. anche la notizia del Cousin al Goethe in Cari, cit., p. 518, nota. (2) Lett. del 3 nov. 1821 (in Cart. cit., p. 541). 140 PARTE SECO^'DA pressione che appartengano a vera storia scoperta, sia nel figurare i personaggi storici, mischiati»1 racconto, con scrupolosa osservanza del loro carattere storico, che è quanto dire delle fonti e de' documenti, adoperati per interpetrarli e tratteggiarli. È questo il concetto, secondo il quale aveva già tracciato il vasto disegno del suo romanzo, e che ne impronta profondamente la prima stesura: osservare, interpetrare fedelmente la storia, anche con maggior rigore, come riferiva il Cousin al Goethe in un suo colloquio del 1825 (*), di quello che non avesse fatto lo Scott; far che il racconto romanzesco assuma tutte le sembianze e il colorito della realtà storica e che la storia non sia menomata nella contenenza e ne' caratteri suoi propri. *» * II. Un confronto attento e particolareggiato della prima con l'ultima definitiva redazione potrebbe provare che codesta scrupolosa e, diciamo pure, alquanto angusta interpretazione psicologica della storia, come il Manzoni la intendeva in teoria, influì in molte parti del romanzo quale gli riuscì fatto nel primo getto, nella concezione de' personaggi immaginari, come Renzo e fra Cristoforo, don Abjbondio e don Rodrigo, ma più fortemente nella figurazione de' perjsonaggi storici, come l'Innominato, la signora di Monza e Federigo t Borromeo. Gli uni e gli altri sono stati nel primo momento veramente concepiti e atteggiati «de la manière la plus strictement historique», quelli conforme la piìi pretta interpretazione dello spirito del loro secolo o della classe a cui appartenevano, questi sia raccogliendo con arida esattezza e svolgendo la materia dalle fonti e perfino le parti aneddotiche delle cronache contemporanee, sia conservando, se non anche aggiungendo, alcune note che vieppiù ne individualizzassero il carattere storico in relazione con le abitudini e le passioni del tempo. Abbiamo insomma nel modo come i personaggi sono rappresentati e gli stessi avvenimenti narrati la figurazione artistica, ma non ancora la idealizzazione epica della storia né quella che può dirsi l'elevazione purificatrice di ciò che è storico, contingente a ciò che è umano, universale. Questo sforzo, che è evidente nella prima composizione del romanzo, di attenersi strettamente alla storia, di dare una fisonomia quanto più fedelmente storica agli stessi fatti e caratteri inventati, era dovuto al concetto (4) Vedilo riportato in Cart. cit., pp. 517-8. del reale che già abbiamo osservato nel sistema teorico del Manzoni, essere, cioè, non il reale artistico, ma il reale storico, non il vero artistico, ma l'accaduto, l'esistente, in una parola, la storia. Inteso il romanzo storico come una rappresentazione quanto più realistica sia possibile delle condizioni morali e civili di un dato momento della società, così da sembrare vera storia scoperta, era naturale che il Manzoni, tutto preso dalla sua teoria, mirasse a fondere il suo mondo in un tutto che avesse l'apparenza di quel reale positivo, a lui tanto caro': sforzo inane, perchè l'immaginario, l'inventato, sia nell'intreccio dell'azione che nella pittura de' caratteri, non poteva non avere in sé le impronte e il colore di una creazione poetica, di quella creazione che il Manzoni stesso nella lettera allo Chauvet riconosceva come legittima opera del poeta al fine di integrare e, dirò così, drammatizzare la storia. Ne veniva che, trattando la materia storica con rigida osservanza del vero e con prodigalità, come quella che -- secondo il suo concetto del vero storico -- era necessaria per dare ai lettori la conoscenza esatta e piena di una realtà trapassata, evocando i personaggi storici con spirito artistico sì, ma con la cura angusta che fossero vere individuazioni concrete della società loro; costruendo, poi, di sua invenzione personaggi, un intreccio ed episodi che s'avvicinassero al ristretto vero della storia, il Manzoni né conseguì la riproduzione realistica vagheggiata, né compì un' opera armonica in tutte le sue parti e profondamente poetica. Che la poesia e' è sì, per quanto torbida e grezza, anche nella prima concezione ed esecuzione de' Promessi sposi, ma giustapposta alla storia; la verità storica e la verità poetica non sono fuse nell'unità estetica dell'opera, ma si realizzano in modo discontinuo e frammentario e diffuso, senza un intimo legame ideale tra loro; e così il rigore osservato nel riprodurre il reale della storia, neir atteggiare gli stessi personaggi storici come il mal successo nel tentar di ridurre in pretta sembianza storica anche i fatti e i personaggi inventati fanno sentire piti aperto e più aspro quel disaccordo tra l'ideale e il reale, tra il vero e l'inventato, tra la storia insomma e il verosimile, che al Manzoni stesso (e teoricamente aveva ragione) parve insanabile. Proprio così: se l'arte è, non meno pei Romantici che per i Classici, imitazione del vero, non può esserne una rigorosa e fedele riproduzione, e, posto che al vero, al positivo storico si voglia intrecciare l'immaginario poetico, l'arte fallisce, se restino semplicemente accostati e, sia pure, mescolati; né può salvarsi, se non quando la materia storica si trasformi in poesia, e cioè la poesia assorba in sé la storia, idealizzandola; se non quando la fantasia su figure ed azioni, che le siano ispirate da sentimenti e costumi di un'epoca storica, imprima i caratteri della realtà umana di tutti i tempi, vi rispecchi con immediatezza e concretezza gli aspetti della vita, le vicende eterne delle anime. Vero è che ne' Promessi sposi < il reale positivo -- come dice il De Sanctis -- non ha impedito che egli raggiungesse un reale più profondo e piti succoso, il reale dell'arte» (*), ma la prima forma del romanzo non raggiungeva ancora questo equilibrio artistico e ad essa, non a quella che ricevette poi il suo capolavoro, poteva il Manzoni appuntare la critica che fece del romanzo storico: critica, che se ben guardiamo, colpisce giustamente il sistema, quella immediata e grezza filiazione artistica del sistema che sono appunto gli Sposi promessi. I quali, se nel processo di rielaborazione vennero intimamente trasformati da una più profonda analisi psicologica e da un nuovo vigore di poesia che vinsero lo scrupolo dell'esattezza e della minutezza storica, non è da meravigliarsi che di questo risentissero l'infiusso e gli effetti, perchè in prinao luogo non era corso quasi il menomo intervallo tra l'elaborazione della teoria e la prima attuazione, tanto è vero che quel discutere sull'idea del romanzo storico e quel chieder consigli e pareri al Fauriel cadevano nel tempo stesso che il Manzoni veniva avviando la stesura dell'opera sua; in secondo luogo alla rigidità -- che è propria di tutti i sistemi, massime di quelli costruiti, come il manzoniano, con tanta convinzione e dopo viva meditazione sulle ragioni e il significato della poesia -- non poteva sfuggire il poeta nella prima formazione di un'opera, la cui origine ha così stretti legami con le idee letterarie dell'autore. * * # III. Cade ora in acconcio riesaminare con più ampio sguardo la questione che ho fatto sulla fine della prima parte di questo lavoro, circa l'ispirazione etico-religiosa de' caratteri de' personaggi manzoniani e il loro parziale rinnovamento psicologico e morale operato dal poeta nella rielaborazione di tutto il romanzo. Ora mi pare che il problema si debba prospettare così. Nel figurare nella prima stesura più vili o più turpi i disonesti e gli scellerati e, in generale, un po' turbati di certa grossolanità triviale e fierezza faziosa anche i buoni, il Manzoni risentì esclusivamente di quel pessimismo morale che abbiamo a suo luogo analizzato o fu (1) In Scritti vara ined. o rari, a cura di B. Croce, Napoli, Morano, 1898, p. 45. piuttosto dominato dalla tendenza al realismo storico, dal concetto^ cioè, positivo, che s'era fatto degli uomini, de' costumi, degli avvenimenti del Seicento? da tutt'e due le tendenze? Non v'ha dubbio che di storicità è, per così dire, pregnante il mondo del romanzo quale sin dalla prima creazione se lo formò nella sua mente il Manzoni, meditando con ricca dottrina sulle condizioni storiche del secolo; anzi la poesia -- com'era naturale -- correva rischio d'essere sopraffatta dalla storia; ma quella medesima affezione al vero storico, quello studio di rivelare veracemente la realtà umana conforme il principio che la storia è un'eterna scuola di morale, quella disposizione stessa a portare nella considerazione storica il biasimo o la lode alla stregua dell'etica religiosa, dovevano consociare le ragioni morali e le ragioni storiche in modo indissolubile e allo stesso intento; onde il proposito, così inesorabilmente rigoroso nella prima costruzione del romanzo, di riprodurvi il vero storico, trattandosi di una storia che offriva più di tristizia e d' iniquità che non di virtù, vcDiva, nel tempo stesso, a rafforzarvi le tendenze moralistiche. Del resto la preoccupazione storica nella prima stesura del romanzo era, non che manifesta, addirittura ostentata con quell'arguzia che rivela, a un tempo, la superiorità dell' artista. Eccone qualche saggio. Il Manzoni, dopo aver raccontato come Antonio Ferrer fosse riuscito a portare in salvo il Vicario di Provvisione, soggiungeva: «Gli storici originali contemporanei non parlano più di lui; ma noi, valendoci del privilegio che hanno gli storici di seconda mano, di inventare qualche cosa di verosimile, per rendere compiuta la storia, e supplire alla mancanza dei primi, affermiamo, come se fossimo stati testimoni: che il Vicario, uscito dal castello, quando la sedizione fu affatto compressa, continuò ad essere Vicario pel tempo che gli rimaneva a compire la sua carica, e da poi procurò di diventare tutto quello che potè» (*). Questo passo lascia perplesso chi conosca la fine ironia e l'arguta sottilità dell'ingegno manzoniano: dovremmo prenderlo sul serio, rammentando un luogo, più addietro citato, della Lettre sur l'unite allo Chauvet, nel quale il Manzoni conferisce al poeta la facoltà di «compléter l'histoire» di «en restituer, pour ainsi dire, la partie perdue >; ma, d' altra parte, ci ritorna alla mente quel!' altra celebre riflessione, piena di sorridente arguzia, che il Manzoni aggiunse nella stampa alla viva descrizione di ciò che faceva lo sbigottito Vicario in quel suo nascondiglio, mentre infuriava la tempesta davanti alla sua casa: «Del resto, quel che (1) Sp. prom., p. 524. facesse precisamente non sì può sapere, giacché era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fortuna che e' è avvezza» (*). Immaginiamoci, poi, -- verrebbe voglia di soggiungere -- «gli storici di seconda mano» se la storia, ovverosia «gli storici originali» tirano a indovinare! E poi c'è un altro punto nella prima stesura del romanzo, in cui sono tirate in ballo la storia e l'invenzione con r aria di canzonar le leggi della rettorica, le poetiche della scuola classica, ma che lascia trasparire anche qualcosa altro. A proposito della seconda entrata di Eenzo in Milano, il Manzoni si scusa di dover far venire una seconda volta il suo personaggio nella stessa città, col dire che, se avesse «ad inventare una storia», se ne guarderebbe bene, «che sarebbe un meritarsi l'accusa di sterilità di invenzione, una delle più terribili che abbian luogo nella repubblica delle lettere, la quale, come ognun sa, si distingue fra tutte per la saviezza delle sue leggi,» «Ma -- prosegue facetamente il Manzoni -- io trascrivo una storia quale è accaduta: e gli avvenimenti reali procedono con tutt' altre regole» da quelle «prescritte all'invenzione», «senza darsi pensiero di soddisfare alle persone di buon gusto. Se fosse possibile assoggettarli all'andamento voluto dalle poetiche, il mondo ne diverrebbe forse ancor più ameno che non sia; ma non è cosa da potersi sperare.» Ed è per colpa di «questo incolto e materiale procedere dei fatti» -- dice il Manzoni -- che Renzo ci si presenta due volte in Milano e che vi soggiorna e se ne va in un modo alquanto somigliante (*). Sì, il Manzoni con queste amabili facezie vuol burlarsi de' trattati rettorici e de' classicisti più arrabbiati; ma noi sappiamo che Renzo è uni personaggio immaginario e che le sue azioni -- per quanto in con-] formità col carattere, concepito secondo lo spirito de' tempi -- sono inventate, e potremmo a questa nuova protesta di veridicità e di esattezza storica risponder sorridendo: -- che sì, la storia tira a indovinare e come e' è avvezza ! -- Se fosse vero -- come trapela tra riga e riga -- che l'autore volesse scherzare un po' anche sulla storia, sarebbe questo un curioso tratto di prosa autoironizzante dello storico - poeta, un guizzo di quello spirito d' autoironia che era nel secolo preso a descrivere, e, bonariamente colorito, anche nel temperamento del Manzoni. Comunque, i due passi della minuta, de' quali, si noti bene, non è rimasta traccia nell'ultima forma del romanzo, riconfermano un'os (1) Prom. sp.^ cap. XIII, p. 192. (2) Sp. prom., pp. 709-10. servazione generale già fatta, che cioè un po' sul serio per reazione critica a quel genere di romanzi, che abbiamo già sentito il Manzoni biasimare, un po' per finzione gioconda, s'industriò di dare, la prima volta, al suo mondo un colorito storico con una determinatezza scrupolosa^ tanto da compiacersi di far rivelazioni inutili, per quanto argute, sui suoi intimi procedimenti di narratore. Della preoccupazione storica nelle prime prove del romanzo abbiamo anche altri saggi. Si veda, per es., l'Introduzione. L'ultima redazione definitiva, fissata dopo due o tre rifacimenti, non reca che una rapida affermazione della veridicità dell'Anonimo, per procacciar fede a taluni fatti e costumi che potevano sembrar «così nuovi, cosi strani» da destar qualche dubbio: un cenno, con cui il Manzoni ad altro non intende se non a farci sapere che della storia, impresa a narrare, c'erano documenti e testimonianze. E così press' a poco si legge in una copia della prima stesura. Ma in un rifacimento, che avrò occasione di riprendere in esame insieme con altri due della medesima Introduzione per ciò che vi si dice della lingua e de' dialetti, il Manzoni faceva un' ampia difesa del carattere storico del suo racconto, con tale spìrito e tono che pur qui non sappiamo quando parli sul serio e quando per gioco. Il Manzoni diceva di voler prevenire l'accusa che il suo scritto «non fosse altrimenti fondato sopra una storia vera, ma una pura invenzione >, l'accusa, insomma, «di aver fatto un romanzo». Un romanzo? Intanto ? soggiungeva con velata ironia -- è questo un «genere proscritto nella letteratura italiana moderna, la quale ha la gloria di non averne pochissimi. E benché questa non sia la sola gloria negativa di questa nostra letteratura, pure bisogna conservarla gelosamente intatta, al che provvedono quelle migliaia di lettori e di non lettori che leggono volentieri romanzi stranieri» e ?: si occupano a dar se non altro molti disgusti a coloro che tentano d'introdurre qualche novità». In secondo luogo «questo genere, quand'anche non sia altro che una esposizione di costumi veri e reali per mezzo di fatti inventati, è altrettanto falso e frivolo, quanto vero e importante era ed è il poema epico e il romanzo cavalleresco in versi». Ma viene fatto di domandare: Come -- I vostri Promessi sposi non sono un romanzo? Non avete voluto darci una pittura «di costumi veri e| reali» per mezzo di azioni e di personaggi, in gran parte, inventati?;? ? E voi credete veramente falsa e frivola l'opera vostra -- Ma ecco lo stesso Manzoni promettere al lettore una lunga nota di libri e memorie, da lui frugati e consultati, per dargli la riprova della «verità nel costume, nei fatti e nei caratteri del tempo rappresentato». E osservava: «se si venisse a concedere che questa verità si trova, allora il dire che la storia è inventata, potrebbe quasi parere più che un biasimo una lode, dal che bisogna guardarsi ben bene (*) >. Qui -- se non m'inganno -- si rivela l'intenzione scherzosa di tutto questo discorso sulla storia vera e il romanzo inventato, poiché lode certa spetterebbe all'autore che, pure inventando, avesse intuito e colto il vero, si fosse, cioè, assimilato così lo spirito del tempo da rappresentarlo veracemente anche per mezzo di un romanzo. E non era questo il fine, tante volte significato, e l'intimo segreto dell'arte del Manzoni ne' Promessi sposi f Dunque era proprio quella la lode che cercava, ed è un tratto originale d' arguta modestia il fingere di volersene bene guardare. E poi ci sono le lettere al Fauriel, dove ragionando seriamente del romanzo storico ne dà definizioni e chiarimenti quali poteva suggerirgli la sua retta e precisa convinzione. E e' è, infine, quel tratto della lettera allo Chauvet, dove dal ro4j manzo di pura invenzione distingue quelli fondati sulla storia" com'era il suo. Possiamo dunque concludere, anche sulla scorta di questo passo diéiV Introduzione, che il Manzoni nella prima stesura era dominato, direi quasi assillato, dalla preoccupazione di convincere i lettori che l'opera sua era fondata su una storia esatta e verace, fino ad ostentare scherzosamente la verità storica perfino dei casi e dei caratteri inventati. Anche questa professione di realismo storico, che sentiva il bisogno di fare neW Introduzione e che appare di tanto in tanto nel pieno del racconto (^), era un effetto di quella teoria del romanzo e, in genere, della dottrina letteraria sulla rappresentazione poetica della storia, che abbiamo visto come fosse fondamento e sostanza della poetica manzoniana e che nel periodo della sua operosità artistica tanto l'appassionò quanto di poi la questione linguistica. Sullo storicismo, come tendenza prevalente nella prima formazione de' Promessi sposi, ha scritto in questi giorni alcune pagine lucide e acute A. Momigliano il quale intende dimostrare come l'intento storico del Manzoni nello scrivere il romanzo dette origine a «difetti di misura, corretti quasi esclusivamente per ragioni artistiche», e come «la tendenza speculativa fu un gran pericolo per la fantasia del Manzoni» (^). In generale, le non poche digressioni, che il critico (1) Sp. proni., App. B., pp. 795-6. (2) V., per es., l'episodio giovanile di Federigo, che nella Chiesa di S. Giovanni in Conca con un'occhiata confonde de' giovinastri insolenti: episodio che il Manzoni intendeva introdurre nel romanzo per diligenza storica, ma che, sollecitato da una nota del Visconti, cancellò. V. sp. proni., pp. 351-2, n. 11. (3) Op. CU., pp. 84, 86. rileva negli Sposi promessi come quelle d'economia politica a proposito della carestia, e le altre sulla dimostrazione di don Ferrante circa la peste e sul secentismo letterario e la cultura nel Seicento, si spiegano col soverchiare di quella attitudine, che era vivissima nel Manzoni, all' indagine storica e psicologica e allo studio de' problemi diversi della civiltà. Piii particolarmente, possono essere considerate non solo come una riprova dell' intellettualismo manzoniano, prevalente nella prima fase dell'opera, ma anche come una conseguenza, a cui il teorico obbligava l'artista, di queir idea che il Manzoni s' era fatta del romanzo storico e del modo come intendeva la storia ne' rapporti con la morale e con l'arte. Per ciò che dianzi s'è detto su questo proposito, quelle notate digressioni e altre che sono piuttosto riflessioni e giudizi d' indole o morale o storica o letteraria^ secondo la natura de' personaggi ritratti, delle situazioni analizzate o degli avvenimenti narrati, pareva al Manzoni dovessero rientrare logicamente a comporre il quadro de' tempi, ad illustrare la vita e i costumi, a svelare, massimamente, l'intimo spirito di quella società in mezzo alla quale poneva i fatti e le peripezie dei due poveri sposi promessi. * * IV. Nella lettera del 29 maggio 1822 al Fauriel, che per la sua importanza dovremo rivedere un'altra volta, il Manzoni discorrendo del romanzo, in cui era allora, com'ei diceva «enfoncé», rivelava all'amico le sue impressioni e i suoi giudizi, anzi le sue scoperte su quella società e -- a leggere attentamente -- preannunziava il carattere largamente storico che gli pareva assumesse l'opera sua: «Les mémoires -- scriveva il Manzoni -- qui nous restent de cette epoque, présentent et font supposer une situation de la société fori extraordinaire. Le gouvernement le plus arbitraire, combine avec r anarchie feudale e l'anarchie populaire; une législation étonnante, par ce qu'elle présent et par ce qu'elle fait deviner, ou qu'elle raconte; une ignorance profonde, feroce et prétentieuse; des classes ayant des intéréts et des maximes opposées; quelques anecdotes peu connues, mais consignées dans des écrits trés dignes de foi, et qui montrent un grand développement de tout cela; enfin une peste qu' a donne de l'exercice à la scélératesse la plus consòmmée et la plus déhontée, aux préjugés les plus absurdes, et aux vertus les plus touchantes etc. etc voilà de quoi remplir un canevas; ou plùtot voilà des materiaux, qui ne feront peut étre que décéler la malhabilité de celui qui va les mettre en oeuvre Je faìs ce que je puis pour me pénétrer de l'esprit du temps, que j'ai a décrire, pour y vivre; il était si originai, que ce sera bien ma faute, si cefte qualité ne se comunique pas à la déscription > (*). Nel seguito della lettera il Manzoni tocca del procedere de' fatti e dell'intreccio, cioè della parte romanzesca; me ne occuperò più innanzi; intanto dal passo che ho riportato argomento non solo r inclinazione del Manzoni a dare un notevole sviluppo alla parte storica del romanzo, che abbonda -- se non proprio eccede -- pur nella stesura definitiva, ma altresì la sua disposizione mentale, nel considerar quello stato così straordinario della società lombarda e quello spirito così originale dell'epoca, da sentirsi invogliato a indagare e giudicare e descrivere, a vivere -- com'ei dice -- quei tempi; il che lo portava logicamente, non che ad abbondare nelle parti strettamente storiche^ a mescolare al racconto, digressioni che, se erano inutili all'intreccio o al concetto generale del romanzo, dovevano convenire -- secondo il suo avviso -- alla conoscenza dei costumi, delle istituzioni, delle tendenze spirituali^ di tutto ciò, insomma, che costituisce la tempra storica di quella società, e, per ciò stesso, la ragione giustificativa dell'ordito romanzesco e dell'indole de' singoli personaggi in azione. Quella stessa aperta dichiarazione espressa nella lettera del 3 nov. 1821 al Fauriel, quando del romanzo aveva tracciato indubbiamente il disegno, e già scritti i primi capitoli, di voler raccoglier fatti e caratteri così somiglianti alla realtà che servirebbero alla rappresentazione veridica della società lombarda osservata in un determinato momento storico, onde facesse l'impressione d'essere il narratore di una vera storia esumata dai documenti, che significa, alla fin fine, se non la preoccupazione di comporre un romanzo sì, ma materiato di quanta più storia potesse, di dare, insomma, e col reale e con l'inventato, unal y immagine netta ed esatta della vita civile e morale di un'epocaj storica? Lo storicismo, dunque, nel suo duplice aspetto di realismo storico e di psicologismo storico, ha invaso -- dirò così -- il romanzo nella sua prima composizione sia -- se vuoisi -- per le tendenze intellettualistiche che prepoterono allora (e ne vedremo il perchè) sulla fantasia, sia, altresì -- com' io credo -- per l'effotto immediato che la teoria del romanzo, come mezzo di rappresentazione artistica della storia, esercitò su quel primo tentativo d'arte narrativa, che sono gli Sposi promessi. I quali, in un certo senso, potrebbero esser (1) Epist. cit., voi. 1, pp. 241-2. considerati un romanzo a tesi, in quanto si presentano spiccatamente come l'applicazione di una tesi letteraria e danno a divedere le intenzioni del moralista e dello storico; mentre i Promessi sposi, sebbene di queir influsso conservano non lievi tracce, si presentano come l'opera rinnovata da un' intima rifusione della varia materia al fuoco tranquillo, ma intenso di una fantasia paziente e possente: quelli sono ancora un'opera di costruzione, questi un'opera di contemplazione. Al rinnovamento intimo del romanzo il Manzoni faticosamente, ma vittoriosamente pervenne soprattutto perchè le sue osservate tendenze del rigore etico e della veridicità storica, nella rimeditazione morale e poetica di tutta l'opera, rimisero di quel non so che di aspro, di dogmatico e d'intransigente che è in tutti i principi ordinati e fissati in sistema. La tendenza etica, superando i limiti mal sicuri, in cui ci appare come cristallizzata la storia quando la si consideri anzi staticamente nel giro chiuso di un ciclo storico che dinamicamente come spirito che si fa e si trasforma nel contrasto perpetuo e indefinito delle cose e degli uomini, inalzò e serenò il criterio morale del poeta, infondendovi uno spirito di piti meditata poesia e di più pensosa carità; ond'egli, penetrando con più profondo sguardo e con più esperta bontà ne' fatti, né' sentimenti, nelle passioni della vita di un popolo^ considerata in un suo momento storico, li vide, dirò così, sub specie aeternitatis, ne risentì la nota eterna del bene e del male, delle colpe e delle virtù, vi colse la perenne vicenda di luci e di ombre in cui si dibatte il secolare travaglio dell'uomo, condensò, insomma, nella realtà storica rappresentata tanta verità e tanta umanità da rinnovare le figure, i caratteri, le situazioni e le azioni, in cui, più che l'anima e i costumi di un secolo, vediamo specchiarsi gli aspetti e gli atteggiamenti universali e le perpetue vicende dell' anima umana. La tendenza, che deriva nelle forme del romanzo il vero e il reale, piegandosi alla fantasia del poeta, si contemperò con le esigenze dell' arte, così che la pretta realtà storica ne uscì parte idealizzata in alte forme epiche e drammatiche e parte atteggiata negli aspetti realistici della vita. Del resto, per quanto il Manzoni volesse attenersi alla storia e alla verità storica de' suoi personaggi, non potevano gli uomini e il dramma di quel secolo uscir dal cuore e dalla fantasia di un poeta come lui, se non recando le impronte della sua soggettività d'artista, che è sempre l'unica ed efficace energia onde la grezza materia si fa poesia. Diceva bene il Goethe, accennando appunto al carattere più umano che Storico dì alcuni personaggi deìVAdelchi, che «noi non popsiamo interessarci se non a chi ci somiglia un poco» (*) e viene il sospetto che a questa verità pensasse anche il Manzoni, non ostante il suo attaccamento alla fedeltà storica, e sorridesse, non che degli storici, anche di se stesso per quella gran sicurezza di narrar cose storicamente vere e reali. (1) Nel cit. colloquio col Cousin (in Cart., p. 517-18, nota). Il romanticismo teorico e la genesi e la trasformazione artistica del romanzo manzoniano I. La dottrina romantica e la poesia manzoniana: affinità e divergenze. -- II. Il «crocchio» romantico milanese. L'«Ildegonda» del Grossi nel giudizio del Manzoni. L'«esprit romanesque» negli «Sposi promessi». -- III. L'intima disarmonia classico-romantica nella stesura primitiva del romanzo e l'unificazione estetica raggiunta nella forma rinnovata. I. L'esame, che ho fatto, del sistema storico manzoniano messo a base del romanzo, mi porta a discorrere del romanticismo come dottrina e tendenza in relazione con l'idea originaria del romanzo e con la poetica del gruppo lombardo, a cui indubbiamente, in quegli anni di studio, di discussione e di preparazione il Manzoni apparteneva. Quanti e quali principi della dottrina e quanti e quali caratteri dell'arte romantica accettasse il Manzoni e con quali esclusioni e riserve s'è dai critici ricercato e discorso in vario senso, e di proposito, con molto senno dal Graf, Col quale si può convenire che la «costituzione psichica» del Manzoni, «la sua complessione morale furono appunto quali si richiedevano a intendere appieno e abbracciare risolutamente il principio sostanziale del romanticismo, (*) cioè «quel concetto di un'arte che, non più dell'antica, ma più di quella che s'affanna a rifare l'antica scaturisca dall'intimo della psiche, e viva del vivo, traendo spirito e norma dal veramente sen fl) A. Graf, Il romanticismo del Manzoni, in Sugai su Foscolo, M ---- IL ROMANZO IN FORMAZIONE CAPITOLO I. L'azione generale e gli episodi I. Riordinamento del racconto e rimutamenti di scene. -- II. Soppressioni e riduzioni di scene e d'episodi. -- III. Diversi procedimenti e sviluppi di sceneggiatura e aggiunte di scene e d'elementi episodici. I. L'esame della materia, come la vediamo ordinata nella prima stesura del romanzo e come venne rimutata di luogo e di qualità ne' rifacimenti sostanziali ulteriori, ci mette in grado d'intendere per quale intimo processo dello spirito il Manzoni lavorò a tessere e a rifare l'orditura del racconto nelle fila principali e in quelle secondarie, al fine di raggiungere quell' unità logica nell' insieme degli avvenimenti legati tra loro, quella chiarezza e compattezza nel disegno generale del quadro, quella verosimiglianza e naturalezza nella concatenazione e nello svolgimento de' fatti e ne' reciproci influssi loro, così da trasformare il grande ritratto storico del Seicento lombardo in una armoniosa, alta e complessa rappresentazione della realtà umana osservata nell'eterna vicenda delle sue passioni, de' suoi istinti e dolori, delle sue viltà e de' suoi eroismi. Questo procedimento d'inalzare l'analisi e la rappresentazione di ciò che è il prodotto della nostra ispirazione soggettiva, o della visione storica di un'epoca determinata, al significato di verità umana, al simbolo non solo del momento che si coglie e si ritrae, ma della vita, alla realizzazione, insomma, di un ideale nel presente è un procedimento tutto classico della poesia, di cui offrono esempi insigni la tragedia greca, il poema di Dante e i drammi di Shakespeare. Intrecciare avvenimenti storici e casi romanzeschi in una trama così solidamente tessuta e nelle parti diverse così sapientemente aggiustata, che gli uni formino un tutto armonico con gli altri; le fila della storia si svolgano e s' annodino con l'interessante vivezza del romanzo; l'ordito romanzesco, a quelle inframmesso, presenti i saldi legami e i naturali svolgimenti e la risentita evidenza degli avvenimenti storici, e ad un tempo da codesta tela, tramata sulla storia, si rifletta l'immagine perpetua della realtà vivente, ecco la fatica somma del Manzoni nel dar colore e luce al disegno vastamente concepito, nel rilavorare attorno all'orditura complessa del racconto romanzesco, nell' accomodarlo, senza sconnessure logiche e dissonanze psicologiche, nell' intelaiatura del racconto storico. Soffermiamoci a vedere come il Manzoni è venuto rimutando scene ed episodi e diversamente distribuendo la materia conservata nella composizione definitiva. L'azione del romanzo, dall'incontro di don Abbondio coi bravi fino alla mattinata de' definitivi concerti di Renzo con le donne pel tentato matrimonio e della visita misteriosa di mendicanti sospetti alla casa di Lucia, si svolge -- salvo alcune modificazioni episodiche che vedremo -- secondo il disegno primitivo (*), Né logicamente poteva il Manzoni introdurvi sostanziali mutamenti, perchè la maggior parte de' fatti narrati fino a quel punto -- come ognuno rammenta -- sono ordinati secondo la successione cronologica voluta dalla loro stessa natura e dalle leggi di causalità. Sennonché l'ultimo avvenimento di quella lunga mattinata, quello de' «ronzatori misteriosi > attorno alla casa di Lucia, è predisposto da circostanze e risoluzioni, avvenute nel palazzotto di don Rodrigo, di cui il narratore non ha toccato per seguitare il racconto di ciò che è accaduto nella casetta di Agnese dopo il vano tentativo di fra Cristoforo. L'intreccio comincia ora a complicarsi, perchè ha luogo la contemporaneità di fatti che si svolgono diversamente in luoghi separati, ma che sono strettamente legati tra loro agli effetti di nuove condizioni e di nuovi avvenimenti. Era un carattere proprio della letteratura narrativa -- e l'Ariosto in ciò si era rivelato maestro -- sospendere le fila di una narrazione per riprenderne altre, pur lasciate sospese, al fine di condurre innanzi la trama e di aggiungere, con la ripresa di quelle, nuovi intrecci alla tela del racconto. Osserviamo pertanto nel romanzo che il Manzoni, dopo aver pennelleggiate bravamente le figure di quei mendicanti dalle facce sinistre e scure, torna un passo addietro nel palazzotto di don Rodrigo: la collera, che mista ad un indefinibile sgomento per l'esordio dell'infausta profezia di (1) Prom. sp., capp. I-VII, pp. 7-94. fra Cristoforo, fa andar concitato su e giiì il signorotto per la sala fra i ritratti degli antenati; la passeggiata coi bravi in gran pompa, le punzecchiature del cugino Attilio; la rinnovazione della scommessa; i concerti ch'egli prende col Griso; le prime disposizioni per la scellerata impresa notturna; l'avviso del buon vecchio servitore a fra Cristoforo, tutto ciò (*) interrompe in bel modo la narrazione precedente, che è subito dopo ripresa per proseguire con nuovi fatti e casi: il pranzetto e i discorsi, all'osteria, di Renzo, Tonio e Gervaso, l'incontro con quei ceffl di bravi travestiti, il convegno loro alla casa di Agnese e finalmente la segreta spedizione di tutta la brigata alla casa di don Abbondio, a cui seguono il fallito tentativo del matrimonio per sorpresa e il primo scompiglio nel paese alle grida del curato e al suono della campana a martello (^). Ed ecco il Manzoni interrompe un'altra volta la peripezia notturna degli sposi, per narrare ciò che avveniva, contemporaneamente a quella loro «grand' operazione >, nella casetta di Lucia, e cioè l'invasione e le vane ricerche de' bravi; accompagnati dal Griso, il sopraggiungere di Menico, la confusione de' ribaldi a quello scampanare e la faticosa ritirata del Griso alla testa della masnada, con la rabbia in corpo di tornarsene dal suo signore a mani vuote (^). E qui l'autore pianta in asso i bravi sul cammino del ritorno, per ripigliare a descrivere il tafferuglio nella casa di don Abbondio, l'accorrer della gente in piazza e sotto la finestra di lui, i villani raccolti a far commenti e consulte, poi avviati alla casa di Lucia dietro la voce che vi fossero andati de' banditi e avessero catturato un pellegrino, la vana esplorazione e il ritorno di tutti a casa propria, la fuga degli sposi e di Agnese con Menico fino all' arrivo nella chiesetta di Pescarenico {*). Per una volta, dunque, nella narrazione de' fatti che necessariamente si svolgono dal disegno e dalla tentata attuazione di sorprendere don Abbondio, s'intersecali racconto episodico delle operazioni macchinate e medesimamente tentate al fine di rapire Lucia: dall' una parte e dall'altra s' intrecciano i concerti segreti e le operazioni rischiose, e -- benché di natura diversa -- scoppiano egualmente e medesimamente da un caldo interesse: senonchè Eenzo, Agnese e anche, suo malgrado. Lucia affrontano il rischio e si movono a far pur essi un po' di violenza per avere un po' di giustizia; don Rodrigo co' suoi sgherri gioca un colpo di audacia (1) Proni, sp., cap. VII, pp. 04-99. (2) Prom. sp., capp. VII-VIII, pp. 99-110. (3) Prom. sp., cap. VIII, pp. 110-13. (4) Ibid., pp. 113-19. ? fa la violenza per sopraffare la giustizia; anche le azioni di quelli e di questo corrono parallele, ciascuna verso il suo fine determinato, ne' preparativi del giorno e della sera e nelT esecuzione tentata sulla prima notte quasi ad un tempo stesso,, antitetiche e interferenti ì'una nell'altra; che il risultamento, ne predisposto né preveduto, dell'uscita notturna di quei poveri oppressi è quello di avere frustrata la scellerata impresa di don Rodrigo. Quest' intima connessione logica della realtà si riflette, lungo il racconto, nel duplice intreccio, che ho rilevato, d'avvenimenti contemporanei sì, ma diversi. Nella minuta, al contrario, il Manzoni, rimandando la narrazione degli accordi di don Rodrigo col Griso assai più oltre, continuava a raccontare i fatti e le peripezie della giornata, che precorse la famosa notte, fino a quando Menico trovava sbandati Agnese e gli sposi dopo la cattiva riuscita e li faceva voltar dalla via di casa per viottoli e per campi a Pescarenico (*). A questo punto il Manzoni tornava indietro per descrivere la passeggiata di don Rodrigo co' bravi e le canzonature del conte Attilio, e per narrar, quindi, d'un fiato gli accordi del signorotto col capo de' bravi, la preparazione della spedizione notturna^ l'esecuzione, il ritorno quasi di fuga al castellotto (*). Ma è chiaro che codesto assommare distintamente i due gruppi di fatti, per un grande artista, non ha che il valore di una prima sbozzatura, tanto per ordinar nella tela la varia e intricata materia che s' agita nella sua fantasia; nell'ultimo momento per una più viva penetrazione della realtà e una maggior consapevolezza de' mezzi artistici il Manzoni ha distribuito in altro modo la materia, cavando effetti d' arte felicissimi dall' intrecciarsi de* preparativi del prepotente con quelli de' perseguitati a fini diversi, dallo scompiglio che mettono quei disperati rintocchi della campana così nella brigatella che assalta il curato come nella torma brigantesca che invade la casa di Lucia, dall' incrociarsi delle impressioni de' villani destati con quelle de' ribaldi sorpresi, delle voci, delle supposizioni e astuzie, agitanti la gente accorsa, con lo sgomento e la fuga della masnada e del finto pellegrino fra le ombre della notte. Il ritmo storico, che nelle vicende umane genera talora, per un singolare gioco di forze e d' intenti, (1) Sp. prom., pp. 126-39. (2) Sp. prom., pp. 139-45; ma specialmente p. 143 e segg., n. 7. La scena de' concerti di don Rodrigo col Griso e il racconto dell' infruttuosa spedizione di costui erano assai probabilmente nella prima stesura; ma questa manca di un foglio (l'Se»), onde dobbiamo ricorrere al rifacimento o sostituzione, che si trova nella colonna a sinistra di altri fogli. la contemporaneità di avvenimenti contrari, anzi contrae! ittori, e quel fine senso d'arte, che s'acuiva vieppiù nella meditata rielaborazione dell'opera, hanno suggerito al Manzoni i nuovi accorgimenti d'intreccio. Dopo la fuga degli sposi l'ordine degli avvenimenti, come li troviamo disposti nella prima stesura, fino al viaggio di Renzo a Milano, è stato conservato nelle successive redazioni del romanzo: la trama -- come ognuno sa -- si allarga con le accoglienze e i consigli che ricevono i fuggiaschi da parte di fra Cristoforo, con la traversata notturna del lago, l'arrivo a Monza e la dolorosa separazione di Renzo dalle donne; si complica con l'allogamento di Lucia presso la signora del monastero e con la storia della vita di quella infelice sino a quel giorno che accoglie sotto la sua protezione la povera profuga; si riallaccia, d'altra parte, con nuovi fili alle cose che intanto succedono nel paesello degli sposi: il ritorno del Griso a mani vuote, la sua relazione al padrone, le ricerche in paese sulle cause della fuga dei due fidanzati e di Agnese, la giratina di don Rodrigo in costume da caccia col conte Attilio per campi e per ville e le impressioni, le congetture, le confidenze de' paesani circa i casi di quella notte, i colloqui di don Rodrigo col conte Attilio e i consigli e le profferte d' aiuto che questo gli fa, l'andata del Griso a Monza e le notizie che ne riporta sul rifugio di Lucia^ i divisamenti del signorotto per imbrogliar Renzo nelle reti della giustizia con l'aiuto del dottore Azzeccagarbugli e del Podestà (*). Ma a questo punto il Manzoni nell'ultima redazione del romanzo abbandona don Rodrigo e il paese degli sposi per andar dietro a Renzo, avviato alla volta di Milano, e per dire delle disavventure del giovane colà, della sommossa popolare, della fuga di lui fuor dello stato milanese (*); dopo di che don Rodrigo e il cugino Attilio tornano in iscena, questo nel colloquio col conte zio per ottenerne r autorevole appoggio nelle persecuzioni contro fra Cristoforo, quello nella visita che fa all'Innominato per pregarlo d'aiuto nel nuovo tentativo di rapire Lucia: incontri ed accordi che sono narrati, dopo che Agnese è tornata al suo paesello e ha cercato invano fra Cristoforo al convento di Pescarenico (^). Nella minuta il racconto delle nuove macchinazioni di don Rodrigo non era interrotto, ma alla rapida scena del ritorno del Griso (1) Prom. sp., capp. VIII-XI, pp. 119-72; Sp. prom., pp. 147-276. (2) Prom. sp., capp. XI-XVII, pp. 173-262. (3) Prom. sp., cap. XVIII, pp. 262-71. da Monza e della sua relazione circa le informazioni raccolte sul rifugio di Lucia si saldavano la descrizione della vita dell' Innominato e la notizia del viaggio di don Eodrigo con pochi bravi su al castello di costui, e seguivano, di continuo, il colloquio di lui con quel potente, l'impegno di quest' ultimo, la chiamata di Egidio che assumeva prontamente il carico del ratto, l'incontrarsi del giovinastro, di ritorno dal castello, con Agnese che tornava a casa sua, contenta d' aver lasciata in un luogo sicuro la figlia, la rapida esecuzione ch'egli dava allo scellerato disegno con la complicità di Oertrude, il ratto della poveretta sulla via del convento de' cappuccini, il viaggio sino al castello, la rapida visita dell' Innominato alla sua prigioniera, la notte angosciosa dell'una e dell'altro, l'incontro, i colloqui del terribile uomo col cardinal Federigo, la sua conversione, la liberazione di Lucia accolta nella casa del sarto (*). Ma anche in quest'ordine di avvenimenti, che s'aggirano attorno a don Eodrigo e a Lucia, non collimano perfettamente la prima stesura e l'ultima redazione: in questa, il ribaldo, infervorato nella sua passionacela dall'ordine di esecuzione contro Renzo, che mette sottosopra il paese, dopo dubbi e tentennamenti per la difficoltà di strappar Lucia da un monastero, si risolve pel partito rischioso di chiedere l'aiuto del terribile bandito; ma il Manzoni interrompe anche questo racconto per informarci degl' intrighi di Attilio e dell' allontanamento di fra Cristoforo con le complicità del conte zio e del padre provinciale, de' quali sono descritti i caratteri e i colloqui (*), e lo riprende col ritratto morale dell' Innominato e la visita di don Eodrigo al suo castello (^); nella- minuta dall'informazione del Griso sul ricovero di Lucia sino all' impegno preso dall' Innominato con don Eodrigo e agli accordi, poi, che quegli stringe con Egidio, sino cioè all' imbattersi di questo scellerato in Agnese reduce da Monza, è tutto un racconto difilato (*). Ora, il Manzoni, avviando la storia di Lucia fino al punto che ella e la madre trovano asilo e protezione nel monastero di Monza, avviando poi quella di don Eodrigo scornato fino quasi al giorno che va dall' Innominato, e riprendendo la peripezia di Eenzo, lasciato indietro per seguir Lucia, fino al giorno che giunge al paese quel po' po' d'ordine esecutorio contro la sua persona e i suoi beni, ha fatto -- diceva lui scherzosamente -- come quel «caro fanciullo» (1) Sp. prom., pp. 277-406. (2) Prom. sp., capp. XVIII, XIX, pp. 271-84. (3) Prora.' sp., capp. XIX, XX, 284-91. (4) Sp. prom., pp. 277-99. che sulla sera raccoglieva nel covile un suo gregge di porcellini d'India, adattandosi a spingervi «dentro quelli che eran più vicini all'uscio», e ad andar «a prendere gli altri, a uno, a due, a tre, come gli riusciva» (*): amabilmente arguto paragone, che gli venne in mente di fare fin dalla minuta (^). Ma in questa egli aveva perduto di vista «Fermo >. (così l'aveva chiamato prima di dargli il nome di Renzo), «per seguire Lucia, nelle sue dubbiose vicende t> -- il tradimento di Gertrude, il ratto, la notte nel castello, la liberazione ?, e si rimetteva «sulle tracce» di lui «ora che Lucia era uscita dal pericolo e posta in sicuro» (^). Troppo forte distacco de' casi dell'uno da quelli dell'altra: non conveniva all'arte di un sagace orditore d'una così bella trama lasciare abbandonato, per così lungo tempo, uno de' fili principali, per addensarne molti in una parte: era come un lavorare a pezzi, un ammucchiar materia di qua e materia di là, con la preoccupazione di fornir l'opra da una parte, prima d'intesserne un'altra: ne risultava all'insieme un non so che dì staccato, di afiastellato, de' grossi nodi, dirò così, rilevati nella tela, piuttosto che un ben congegnato tessuto di fili, disegualmente sottili, ma acconciamente intrecciati da formare un' impressione di equilibrio, di proporzione e d' armonia nel disegno. Non era eff'etto d' arte di poco conto mischiare alla descrizione della fuga dei due sposi l'analisi dell'agitazione di don Eodrigo e de' suoi nuovi divisamenti, e codesto quadro chiuder tra il racconto del modo come Lucia e la madre s' allogano a Monza, alla sua volta interrotto per dar luogo alla storia della signora (storia necessaria a intender l'animo e la parte di quella sciagurata ne' futuri casi di Lucia), e il racconto de' casi occorsi a Renzo in Milano. Oltre il pregio di una variata narrazione interessante, oltre il vantaggio di riprodurre con la verosimiglianza dell'arte almeno una parvenza della contemporaneità e interferenza de' fatti umani, quali troviamo nella realtà della vita, il Manzoni ha bellamente riprodotto, co' rimutamenti fatti nella distribuzione di questa materia, quel ferreo ordine logico delle cose e delle azioni, quella salda concatenazione di cause e d'effetti, manifesta ed occulta, ma costantemente generatrice della realtà, che lega le passioni, gli interessi, gli atti e i casi fortuiti de' personaggi contrari d' indole e d'intenti, come sono Lucia, Renzo e il loro persecutore don Rodrigo. Concatenazione delle reali vicende umane, che riceve un (1) Prom. sp., cap. XI, pp. 172-3. (2) Sp. proni., p. 471. (3) Ivi. sapiente rilievo artistico in queir annodar che fa il Manzoni, nella nuova tessitura del romanzo, i fatti o meglio le preparazioni di don Rodrigo al secondo tentativo scellerato con la nuova situazione di Lucia fuori del suo paese e con la peripezia di Eenzo a Milano durante e dopo i tumulti pel prezzo del pane. Per ciò che riguarda Lucia, riposa l'animo del lettore e ne accresce la curiosità delle ulteriori soluzioni il lungo intervallo che corre tra il suo allogamento presso la strana monaca peccatrice e l'apparire d'Egidio in azione per aver da costei consenso e aiuto al ratto divisato: intervallo, durante il quale le agitazioni di Milano^ con Io spettacolo di folle in rivolta e de' governanti inetti o raggiratori, e le intemperanze di Renzo all'osteria della Luna piena, la sua cattura, la sua fuga, col variar di scene e di tipi umani e di commozioni molteplici nell'animo del fuggiasco, ci trasportano in un ordine di impressioni di tutt'altra natura da quelle dianzi provate. Dopo le quali è logico che il narratore ci richiami a Lucia e ad Agnese, all' angoscia delle due povere donne, per le voci corse sul conto di Renzo, al sollievo che dà loro fra Cristoforo con l'assicurarle ch'egli s'era messo in salvo nel bergamasco: e così il lungo episodio milanese, nel pigliar posto là in mezzo, non soltanto risponde all'esigenza artistica del variare il racconto e alla necessità logica d' intesservi anche i casi di Renzo, ma altresì bellamente si ricollega all'analisi del soave animo di Lucia, alla parte di benefattore che ancor può fare il buon frate, e ad altre circostanze minori: donde viene una mirabile saldezza ai nessi logici del romanzo nel trapasso da un ordine all'altro di fatti, o almeno ne resta di molto attenuato quel senso di stacco che può dare codesto procedimento della narrazione a riprese e ad intrecci. Ed un altro, anche piti considerevole, vantaggio ne consegue per la concatenazione de' fatti e lo studio delle anime; che le disgrazie di Renzo, il suo forzato e irreparabile abbandono del paese rinfocolano la caparbietà di don Rodrigo, gongolante che la sorte l'abbia sbarazzato del rivale e finalmente risoluto a sfruttare la buona occasione per ritentar la vituperevole impresa. Così la nuova azione del signorotto ha pur essa un qualche addentellato con l'episodio milanese intermesso; e lo svolgimento de' fatti, che in seguito si narrano, appare governato in modo evidente dalla ferrea logica delle cose. Di grandi rimutamenti nel seguito del racconto non sono da notare (*) e dobbiamo portarci ai fatti che conseguono alla conver (1) V. D'Ovidio, N. st. manz. cit., p. 496 e segg; passim. eione dell' Innominato per trovar qua e là diversamente disposta la materia nel romanzo in raffronto con la minuta. Così, in questa si descriveva, dopo l'arrivo a Chiuso di Lucia liberata sotto la scorta della buona donna, del conte e di don Abbondio, un semplice pranzetto del cardinale e del conte in casa del curato, ed un altro colloquio tra loro; quindi era riferito un lungo passo del Ripamonti e, fra osservazioncelle digressive, che comprovano insieme con quel richiamo alla fonte il soverchio scrupolo della storia ostentato dal Manzoni nella prima stesura, vedevamo, com' è rimasto nel romanzo, il conte tornare al castello, e, chiamati a raccolta tutti i suoi bravi, annunziar loro la sua risoluta conversione a buona vita, indurre i più di essi a mutar con lui sentimento e costumi, congedare altri pochi, incapaci di ravvedersi, dando loro il salario e una gratificazione (*). Questo episodio interrompeva la narrazione delle accoglienze che riceveva Lucia in casa del sarto, e l'analisi dei pensieri e delle affezioni di lei dopo la liberazione. Che ha fatto il Manzoni nel rivedere questa parte del romanzo? 11 contrario di quello che abbiamo riscontrato in parti precedenti: ha, cioè, fatto seguire, senza interruzioni, alla breve scena delle ospitali accoglienze l'analisi dell' animo di Lucia (*), ha soppressa la descrizione particolareggiata e prolissa del pranzo in casa del curato e i riferimenti del Ripamonti circa il secondo colloquio tenuto dal cardinale con l'Innominato; e ha colmati questi vuoti con le belle scene domestiche del ritorno del sarto e de' figliuoletti dalla Chiesa e del pranzo che fanno insieme con Lucia, parlando il padre, fra le interruzioni vivaci e saputelle de' bimbi, intorno alla mirabile predica dell'arcivescovo: tutto un pittoresco quadro di caratteri e di costumi fragranti di semplice e pia vita cristiana e di domestica intimità, condotto con viva arte spontanea. Così facendo, il Manzoni ha dato un conveniente sfondo, tutto giocondità e purezza, alla nuova situazione di Lucia, riposata finalmente dai terrori e dall' angoscia di quella notte e lieta della protezione divina: ciò che era frammentario, smilzo, incolore e tratteggiato, dirò così, a linee spezzate, ha ceduto ad una bella scena d'ambiente domestico e ad una compiuta, chiara ed efficace dipintura dell'animo di quella poveretta nella sua nuova situazione. E con questa è collegato un altro mutamento che concerne il tempo e il luogo del colloquio di lei e di Agnese col cardinale. Nella prima stesura l'incontro aveva luogo in casa del curato di Chiuso, dove (1) Sp. prom., pp. 406-15. (2) Prom. sp., cap. XXIV, p. 348-50. esse erano chiamate insieme con la moglie del sarto; nell'ultima, invece, è Federigo che si reca in persona a visitarle e a interrogarle nella casa degli ospiti: il quale cambiamento, dovuto al proposito di dare un rilievo di singolare pietà e carità alla parte del magnanimo prelato nella dolorosa storia di Lucia, giova altresì a mettere in luce il carattere del sarto e della moglie presenti al colloquio, a presentare l'azione e gli aspetti de' personaggi in forme di vita nuova, anche per effetto del dialogo sostituito alla magra narrazione del primo getto. E tanto più la scena, così rinnovata, s'intona ai caratteri de' personaggi, alle circostanze degli ultimi drammatici avvenimenti e cresce di portata e di valore nell' orditura generale dell' azione, perchè in essa la rivelazione di Agnese circa il mancato matrimonio e la colpa di don Abbondio ha un ricco svolgimento dialogico che non e' era nella minuta e vi s' intrecciano la confessione di Lucia del matrimonio per sorpresa e il discorso sulle misteriose avventure di Renzo: rivelazioni che la minuta riportava nel secondo colloquio delle donne con Federigo, quand'egli giungeva, nella sua visita pastorale, al loro paese (*). In due altri punti, attinenti ai casi di Lucia, il Manzoni ha modificato il racconto conferendo all' azione romanzesca un andamento e un tono diversi dalla prima stesura. L'uno riguarda il dono dei duecento scudi d'oro che in questa il conte in persona, recatosi nella casetta di Lucia per umiliarsi e implorare il perdono, le faceva in presenza di Agnese e di don Abbondio, dopo aver vinta la riluttanza di lei ad accettarlo; al che seguiva una breve scena, quando, rimaste sole, la vecchia svolgeva il rotolo e, commossa da tanto oro, esponeva i suoi bei progetti alla figlia. Nella nuova redazione gli scudi sono cento e viene a presentarli, per commissione dell'Innominato, il parroco di Chiuso al cardinale, che, alla sua volta, fatta chiamare Agnese, glieli consegna; dopo di che vediamo costei in uno schizzo, fragrante di tenera comicità, chiusa tutta sola nella sua camera, ammirare e contare quei ruspi e dormirci sopra e sognarli (*). L' altro punto si riferisce al modo come donna Prassede conobbe Lucia e l'accolse in casa sua. Nel primitivo disegno era detto che Federigo tra le visite che riceveva nel suo giro pastorale, ebbe quella di don Ferrante e di donna Prassede (*), accompagnati dal (1) Sp. prom., pp. 421-2, 436-9; Prom. sp., cap. XXIV pp. 356-0, cap. XXV p. 371-2. (2) Sp. prom., pp. 456-61; Prom. sp., cap. XXVI pp. 383-4. (3) Si noti che il ritratto morale di costei, finemente compiuto fin dalla prima presentazione nella definitiva forma del romanzo (Prom. sp., cap. XXV, pp. 369, 371) appariva nella minuta assai più innanzi, appena abbozzato e mischiato alla descrizion r unica loro figliola Ersilia e da donna Beatrice, sorella del capo di casa, e che questo, indovinando dalle parole del cardinale le sue intenzioni, gli offrì di prendere con sé Lucia, che sarebbe stata ai servizi della figlia; il che avveniva con piena contentezza di tutti. Nella nuova redazione donna Prassede, che villeggiava col marito poco distante da Chiuso, al sentire il gran caso di Lucia, è punta dalla «curiosità di vederla», la manda a prendere insieme con la madre, e, lieta di «secondare e di prevenire a un tratto» l'intenzione del cardinale di trovare alla giovane un ricovero, s' esibisce di prendersela in casa e, avuto il grato consenso delle due donne, per mezzo loro manda una lettera di offerta a monsignore che, sebbene non sarebbe stata «probabilmente» «quella la persona che avrebbe scelta a un tal intento», vi aderisce con cuore sicuro (^), E una differenza non trascurabile nell'ordine de' fatti è questa, che nel primo getto il collocamento di Lucia in quella «famiglia potente» a Milano seguiva al colloquio di Federigo con don Abbondio, sul punto che l'autore era per staccarsi da Lucia e dal suo magnanimo liberatore per tornare a Fermo, lasciato sulla via alla volta di Milano, mentre nell'ultimo rifacimento precede, anzi, quel colloquio e il racconto del vistoso donativo dell' Innominato, né ha luogo subito dopo le trattative e gli accordi, ma donna Prassede in persona, «la mattina seguente», viene a complimentare il cardinale e a prendere la sua protetta, che resta ancora in villa co' signori; onde è data la via a quella novissima scena di «un più doloroso addio» tra madre e figlia, descritta sulla fine del XXVI capitolo (*). Il medesimo processo di più logico ordinamento della materia avvertiamo in quel vasto quadro storico in cui sono narrati i casi, le vicende e descritte le scene cospicue della peste: ciò che il Manzoni aveva raccolto sin dalla prima stesura, ha conservato press' a poco nell'ultima, mantenendo e citando le medesime fonti: ma durante l'opera di rifacimento e di correzione ha messo tutto il suo studio della vita di Lucia in quella casa patrizia e de' mezzi a cui donna Prassede ricorreva per toglierle di mente Fermo (Sp. prom., p. 580). Di don Ferrante, de' suoi studi, gusti e costumi fa il Manzoni la nota analisi stupenda dopo aver detto di quella strana missione di donna Prassede e delle sue occupazioni (Prom. sp., cap. XXVII pp. 339-403); nella minuta, invece, il ritratto di don Ferrante precedeva il discorso sulla moglie (Sp. prom., pp. 569-74). Medesimamente della corrispondenza epistolare tra Renzo e Agnese il Manzoni discorre ampiamente prima di trattar della vita di Lucia nella casa di don Ferrante (Prom. sp., cap. XXVII, pp. 393-6); nella minuta, invece, ne toccava dopo, e succintamente, con incluso un accenno a lettere spedite da Fermo a Lucia e naturalmente cadute in mano della vigile donna Prassede. (Sp. prom,, pp. 588-90). (1) Sp. prom., pp. 462-64; Prom. sp., cap. XXV, pp. 369-72. (2) Prom. sp., cap. XXVI, pp. 383, 384-87. di narratore ordinato, chiaro ed efficace nel dare all'esposizione di sì copiosa e completa materia sempre maggior compostezza e armonia. Si tratta, per lo più, di spostamenti materiali, con tendenza a raggruppare gli aneddoti dopo i discorsi generali su quella terribile calamità. II. Abbiamo osservato fin qui il riordinamento a cui andò soggetta la materia del romanzo, e dovremmo ora vedere come e perchè taluni episodi della minuta siano andati soppressi nelle rielaborazioni successive e talune parti siano state dal Manzoni o ridotte e condensate o diversamente sceneggiate, e, in qualche luogo, nuovi elementi episodici e nuove scene abbia egli introdotto. Dovendo ritornare su buona parte di questa materia come quella che rientra necessariamente nello studio de' personaggi, delle loro situazioni psicologiche e drammatiche, qui, pertanto, mi restringerò a quelle parti episodiche che sono state eliminate o aggiunte per ragioni dipendenti dalla concezione e dal disegno generale del romanzo. La scena, in cui vediamo il povero Renzo accendersi d' odio e furore contro don Rodrigo, si svolgeva nella minuta, non in diretto contrasto con la fidanzata ed Agnese, ma con fra Cristoforo, il quale, neir uscire dalla casa di Lucia per tornare al convento, alle prime parole minacciose del giovane s'arrestava sulla soglia, l'ammoniva vivamente e riesciva finalmente a farlo giurare che non avrebbe tentato di farsi giustizia da sé: vi riesciva, dico, ma, più che per la forza de' suoi comandamenti solenni e per l'immagine di un avvenire turbato dal terrore, dall'angoscia, dal ribrezzo d'essersi reso omicida, per l'intervento di Lucia, che con parole coperte gli faceva intendere d' essere disposta a secondarlo nel disegno del matrimonio clandestino. Nell'ultima redazione il frate non appare in quel colloquio, non ha parte alcuna nel ravvedimento di Renzo, ed è Lucia che campeggia di fronte al giovine furibondo e lo placa con le lagrime, con le preghiere e massimamente col consenso al sotterfugio escogitato dalla brava Agnese per vedere sposati i due giovani. Quanto codesto episodio abbia guadagnato di verità psicologica e d' efficacia drammatica col cambiamento delle parti in azione ho dimostrato altrove (*), e gioverà riesaminarlo quando tratterò della genesi e della composizione poetica dei due protagonisti; ora basti osservare che ha contribuito al rimutamento della scena la considerazione, a (1) V. Saggi manz. cit., p. 6 e segg. cui il Fauriel richiamava il Manzoni, che Renzo aveva fatta quella promessa a fra Cristoforo in un precedente contrasto consimile, avvenuto nella stessa casa di Lucia; onde l'aver conservata quella prima scena nel!' ultima redazione con lievi differenze di tecnica formale consigliava di non ripetere una situazione che, sebbene più vivace, non poteva avere alcuna attrattiva. Ragioni, dunque, di sobrietà e d'economia nel disegno generale dell'azione hanno indotto il Manzoni a sopprimere il vivace dibattito di Renzo col frate e a svolgere in nuovo modo l'episodio delle sfuriate del giovane contro il prepotente persecutore della sua sposa. Per le medesime ragioni principalmente, un altro pittoresco episodio andò soppresso attraverso il lavoro di riduzione, di semplificazione e di chiarezza, per cui passò la trama, già nelle sue parti sostanziali varia e complessa, del romanzo. Secondo il consiglio dato dal Griso di far colpire Renzo con un'intimazione di ritorno e un ordine di cattura, quale lavoratore di seta spatriatosi in contravvenzione alle grida, il podestà nella minuta era invitato a pranzo dal signor don Rodrigo insieme col conte Attilio e il dottor Duplica (l'Azzeccagarbugli della stampa), e massime per le arti di costoro e il grazioso dono di una bella partita di vino, inviatagli a casa dal signorotto, si assumeva l'incarico di accontentare costui nell'iniqua persecuzione contro il povero fuggiasco. I loro discorsi a tavola, non meno di quelli a cui aveva dovuto assistere padre Cristoforq, ritraevano con icastica efficacia i loro caratteri, e si colorivano, per ciò che v'era di subdolo e di cerimonioso, de' costumi e del linguaggio del tempo: chi primeggiava nell'astuto conversare, ben fiancheggiato dal dottore, era il beffardo cugino del persecutore di Lucia. Considerata a sé, piace assai codesta finissima dipintura di anime abbiette (*), in cui la birboneria de' potenti e la cortigianeria de' magistrati e de' legulei s' incontrano sulla via dell' iniquità in un accordo d' ipocrita ostentata premura del pubblico bene: vigorosa scena d'ambiente e di costumi che il Manzoni concepì nella prima composizione del romanzo quando lo pungeva la sollecitudine di ritrarre lo spirito del secolo, attentamente interpretato, in quadri storici artisticamente atteggiati, e la concezione de' personaggi cattivi era improntata a un sentimento di severità cristiana, onde, come abbiamo avuto occasione d'osservare, apparivano più, ignobili e vili di quello che non siano nel romanzo trasformato. Ma sulla ragione storica e su quella morale prevalse il motivo estetico (1) Sp. prom., pp. 271-4. della misura, nemica della monotonia; e codesto secondo pranzo, che, sebbene dovesse servire, questa volta, ad un fine collegato con la trama del romanzo, pareva una reduplicazione del primo (*), in cui già lo spirito della cortigianeria parassitica aveva avuto un'espressione di grande vigore comico e satirico, fu inesorabilmente sacrificato. Era tuttavia conveniente, per l'unità e l'interezza del carattere, conservare in don Rodrigo la mala voglia di far nuovi soprusi a Renzo; e perciò nel romanzo lo vediamo rimuginare il modo d'impedire al fuggitivo il ritorno in paese, e, alla fine, risolversi d'interessare il dottore Azzeccagarbugli perchè gli sia appioppata, con qualche pretesto, una buona cattura; ma non v' è che l'accenno a questa intenzione, poiché Renzo medesimo con la sua disavventura di Milano offrirà purtroppo il destro al suo persecutore meglio che questo non possa immaginare. Non servivano parimente allo sviluppo logico dell'azione e neppure all'analisi psicologica del personaggi altri elementi o descrittivi o narrativi, che sparvero o si ridussero a un cenno nella redazione definitiva: tali il ritratto di prete Serafino Morazzone, curato di Chiuso {^), che rivelava troppo spiccatamente l'intenzione pratica di adombrarvi persona viva e moderna e cara all'autore, il pranzetto dell'Innominato (ovverosia conte del Sagrato) e del cardinale a Chiuso insieme con quel buon curato e altri preti (^) -- una scenetta sbiaditamente riuscita che appesantiva inutilmente l'ordine delle cose seguite alla conversione del potente signore, senza aggiunger qualche pennellata di vivo colore all' ambiente e ai personaggi ?, la visita che donna Prassede e suo marito, villeggianti nelle vicinanze del paese degli sposi, facevano al cardinale e l'offerta loro, accettata lietamente dal prelato, di prendersi in casa Lucia (*); il quale incontro, descritto con tono di comicità mediocre, parve, poi, al Manzoni, superfluo e ingombrante, quando nel nuovo magnifico sviluppo del carattere di donna Prassede immaginò che prima le venisse la curiosità di vedere la giovine miracolosamente salvata e poi, per la compiacenza di secondare e prevenire l'intenzione del cardinale di trovare a Lucia un ricovero, s'esibisse di prenderla in casa, dandone parte a Monsignore con quella fiorita lettera di don Ferrante, che Agnese stessa e la figlia presentano, per suo incarico, al loro alto protettore ('), (1) Prom. sp., cap. V, pp. 66-74. (2) Sp. prom., pp. 378-9. (3) JSp. prom., pp. 407-9. (4) Sp. prom., pp. 369-71. (5) Prom. sp., cap. XXV, p. 369-71. Quella visita e quella scena, invero, appesantivano anch'esse il racconto, senz'altro effetto che d'informare come il buon prelato riuscisse a mettere al sicuro Lucia, mentre la nuova narrazione del modo come Lucia finì per essere accolta nella casa della dama milanese, è di un grande valore psicologico e artistico, perchè serve alla dipintura del carattere di donna Prassede e prepara quella situazione umoristicamente contradditoria tra la giovine protetta e la sua protettrice, che il grande ironista verrà poi lumeggiando ne' loro colloqui. L' aneddoto della gran folla di gente, mista di contadini e signori, di bisognosi e di ricchi, che segue in processione, con devota pertinacia, Federigo nel suo giro pastorale per la valle di S. Martino, e l'esempio preclaro di temperanza ch'egli dà alla moltitudine meravigliata e compunta, ristorandosi con un tozzo di pane e un bicchier d'acqua, erano entrati nel primo disegno del romanzo per la ragione, espressa dall'autore stesso, che gli piaceva trattenere ancora il lettore sulla bontà e gentilezza del grand' uomo e perchè questo racconto serviva «assai a dipingere i costumi di quel tempo, tanto lontani dai nostri e osservabilissimi per una certa pienezza d'entusiasmo, per una esplosione di sentimenti, clamorosa, per un impeto veemente, come troppo spesso al male, così pure qualche volta verso ciò che era veramente stimabile» (*). Questo episodio, così nel racconto come ne' commenti che l'accompagnano, oltre il rigore ascetico e, per di più, apologetico, che vi senti, «non ha alcun legame con r ai-ione» (') principale, svolgendosi in luoghi che sono fuori del teatro, dirò così, di quell'azione e avendo sapore di un puro aneddoto biografico; e così per rispetto alla semplicità e sobrietà del disegno generale del romanzo e per quella minor soggezione dell'autore alla storia o, meglio, allo scrupolo storico, che avvertiamo nell'opera rifatta, il Manzoni lo lasciò fuori, e fece bene. E per le medesime ragioni tralasciò nel rifacimento la celebrazione religiosa del cardinale nella chiesa di Chiuso e la sua predica al popolo (3), tanto più che l'idea di quella solennità e di quel fervore di devozione balza luminosa dai discorsi del sarto e de' bimbi. Per altre parti il Manzoni non soppresse, ma -- come addietro accennavo -- ridusse e condensò la materia, rielaborandola per l'assetto definitivo. Il ritratto de' bravi, sul principio del romanzo, è (1) Sp. proni., p. 465. (2) V. F. D'Ovidio, Nuovi st. manz. cit., p. 580. (3) Sp. prora., pp. 384-6. reso più svelto e composto, senza le minuzie dell'abbozzo, senza certe comparazioni tra scherzose e umoristiche ('). Un caso d'abbreviamento, dovuto certamente al senso della misura che governò il rifacimento del romanzo, è quello della fuga di don Rodrigo e dell'agitazione del paese dopo la liberazione di Lucia. Questa fuga del signorotto dal paesello della perseguitata, le impressioni diverse e opposte di lui e de' paesani per gl'inaspettati avvenimenti, il mormorio di sdegno, la risolutezza nuova della gente e lo scoraggiamento del prepotente e de' suoi bravi, tutto ciò è descritto con tocchi sobri e concisi nel romanzo; ma non spiace la piti larga analisi che il Manzoni aveva fatto nella prima stesura; nella quale, anzi, olti'e la speditezza del fraseggio e la chiarezza e l'ordine dell'esposizione, -- troppo spesso difettosa in altri luoghi -- v'Jia un certo movimento drammatico e un attento studio delle impressioni e degli affetti, che non risaltano dal rifacimento ('). È questo uno de' tratti del romanzo -- non molti, ma neppure rarissimi -- che nel rifacimento non hanno guadagnato se non per qualche miglioramento tecnico di forma. Ili, Ma sono pur notevoli, in confronto con la minuta, i casi di maggiore di diverso sviluppo nel disegno, nell' intreccio e negli stessi episodi, le scene e gli elementi episodici aggiunti, che riscontriamo nella redazione definitiva. Si veda il subbuglio de' villani nella notte della fuga di Renzo e Lucia. Il loro destarsi e accorrere da tutte le parti, lo stupore e l'interrogarsi a vicenda, le nuove consulte dopo la notizia di quel vicino di casa delle donne e l'avviarsi, come sciame confuso, a vedere che diavolo ci fosse, lo sparpagliarsi infine e il tornar d'ognuno a casa propria, tutto ciò è in parte appena sbozzato nella minuta e in parte manca affatto (^). Opera, dunque, di svolgimento e di perfezionamento è quella pittura, così vivida, del paese messo a soqquadro, che rende più vasta la scena, più complicata e spettacolosa l'azione col mischiare all'avventura privata de' poveri fuggiaschi lo straordinario tumulto d'un villaggio alpestre nel cuor della notte, (1) «Il corno -- diceva il Manzoni -- cascava loro sul petto» «come i vezzi delle signore»; portavano «due legacce rosse al disotto del ginocchio, a un di presso come i cavalieri della giarrettiera: una specie che s'è perduta, come tante altre buone istituzioni» (Sp. prom., p, 19). (2) Sp. prom., pp. 424-8. (3) Sp. prom., pp. 137-9; Protn. sp., cap. Vili, pp. 110, 115-17. alle commozioni diverse de' singoli personaggi in contrasto la rappresentazione molteplice della folla, con sobrio e amabile spirito comico osservata e ritratta, e accresce, per tal modo^ calore e vigore al romanzesco e al drammatico degli avvenimenti, senza, tuttavia, trasmodare nel fantastico de' vecchi romanzi d' avventure. Mancava altresì nella prima stesura l'intimazione dei due bravi al console la mattina dopo la fallita spedizione: era una lacuna nel logico svolgimento de' fatti, giacché toccava al console, che appunto ci è dal Manzoni comicamente figurato in atto di deliberar sul da farsi, toccava a lui far deposizione al podestà dell' accaduto: rapida, breve, quella nuova scena che il Manzoni tratteggia con un vivo color locale e un'ineffabile potenza comica, ma necessaria all'ordito dell'azione (*). In quella parte del racconto che si svolge tra il ritorno de' bravi a mani vuote al palazzotto di don Rodrigo e la spedizione del Griso a Monza, l'azione, se attraverso i rifacimenti è stata scorciata con la soppressione della passeggiata che quel signorotto faceva col conte Attilio per studiar gli umori della gente, della consulta che egli teneva col cugino e col Griso, dell'invito a pranzo del podestà e de' conciliaboli ai danni di Renzo, s'è accresciuta de' discorsi che fanno tra loro, sulla mattina e a colezione, don Rodrigo e il conte Attilio: una scena, di cui qualche elemento era sparso in quella della confabulazione col Griso e nell' altra de' conversari a mensa col podestà e che nella nuova redazione cade in mezzo tra l'uscita in campo del Griso sul mattino e le notizie che raccoglie in paese e la prima relazione distinta a don Rodrigo (*). In questo medesimo tratto del romanzo, altre volte l'azione, se non più sciolta o abbreviata, 'è radicalmente mutata, come nel colloquio che tengono da solo il padrone e il servo e ne' comuni discorsi, nelle congetture, nelle confidenze de' paesani e di chi ne sapeva qualche cosa, che il Manzoni riporta e analizza con sì largo spirito d'osservazione, con sì bella ricchezza de' particolari, con sì acuta e bonariamente ironica interpretazione degli umori e della fantasia delle moltitudini che vediamo la squallida analisi primitiva trasformarsi in una rappresentazione del tutto nuova e, in ben diverso modo, efficace. Ma anche altre circostanze, di minor conto di quelle osservate, ma non per ciò meno legate agli avvenimenti principali di quella notte, ha il Manzoni o rimutato o sviluppato con ben diversa cura de' particolari e precisione osservativa. Menico, per esempio, nella pri (1) Proni, sp., cap. Vili, p. U7. (2) Sp. prora., pp. 254-76; Prom. sp., cap. XI, pp. 164-71. ma stesura giungeva alla casetta di Lucia, metteva piede sull'uscio e, sentendo di dentro rumor sordo e voci d'estranei, correva indietro verso la chiesa per far suonare a martello; nell' ultima -- come si sa -- è afferrato, minacciato dai due bravi di guardia; caccia un urlo, che, dopo lo «sgangherato grido» di don Abbondio, colpisce «più acuto, più istantaneo» Agnese e Perpetua; e sguscia dalle manacce di que' manigoldi alla tempesta de' rintocchi della campana. E questa disavventura di Menico è narrata prima eh' egli incontri e faccia rivoltar di galoppo Agnese e gli sposi alla volta di Pescarenico, mentre nella minuta se ne toccava dopo ('), quando l'autore, messi ormai i perseguitati sulla via dalla fuga, tornava indietro per narrare, con grossa frettolosità, dell' invasione de' bravi e della loro rapida ritirata ai rintocchi di quella campana: racconto che di poi, condotto su più ampio disegno e con altra efficacia, è stato inframmezzato abilmente tra il primo suonare a martello e la piccante scenetta de' cicalecci di Perpetua e di Agnese dietro la cantonata della casa parrocchiale. Lo stesso Menico, mentre nell' ultima stesura accarezzato, regalato, ringraziato dai fuggiaschi veniva, a mezza strada, rimandato a casa, perchè i suoi non avessero a stare più in pena per lui, nella prima andava con loro fin dentro la chiesetta di Pescarenico ('), poi era piantato in asso dall'autore, né di lui né delle promesse «parpagliole» si faceva più parola: dimenticanza curiosa, dovuta certamente alla foga della prima composizione. Ma più innanzi troviamo nell' ultima forma del romanzo aggiunte e svolgimenti anche più considerevoli. L'episodio milanese di Renzo, da quando egli va a rifocillarsi all' osteria della Luna piena alla sua fuga nel bergamasco, s' è arricchito così di narrazioni e di figure che è cresciuto di un terzo circa. Un mutamento riguarda la misteriosa guida che nella minuta si offriva ad accompagnar Renzo non già nel momento che questo, terminata la sua «predica», chiedeva ai presenti chi gli volesse insegnare un'osteria, ma dopo essergli stato accanto ad osservarlo e dopo averlo seguito nel cammino, mentre il giovine, congedatosi dalla brigata, andava innanzi lentamente, cercando «qualche insegna» {^). Dell' oste della Luna piena non una linea, nella prima stesura (*), che ne ritraesse la tipica (1) Sp. prora., p. 145, n. 7. (2) Sp. prom., pp. 145-7; Prom. sp., cap. Vili, p. 118. (3) Sp. prom., p. 532; Prom. sp., cap. XIV, p. 208. (4) Appena un vago lampeggiamento: «fissò gli occhi scrutatori in faccia del guidato» (Sp. prom., p. 533) e un generico tocco là dove si narrava di Renzo, tirato su nella stanza, che tenta invano di fare un ganascino amorevole alla «guancia liscia e rubiconda dell'oste» (Ibid., p. 539). fisonomia, così bravamente lumeggiata ne' successivi ritocchi (*); né v' era queir arguta macchietta del garzone che a Renzo, sermoneggiante sul ricolmo bicchiere lasciato dalla guida, risponde con tono asciuttamente canzonatorio: * ho inteso» (*); né quello scorcio Tivo dell' ostessa ('), su cui si riverbera, fugace, ma potente, un fascio di luce comica dal rapido discorsetto che le fa il marito prima di uscire. Renzo non dava spiegazione del come si trovasse in possesso di quel pane che ne' Promessi sposi tira fuori in sul principio della mensa (*): umoristica scenetta tra lui e la brigata de' bevitori, che non solo illumina il ritratto morale di Renzo, ma aggiunge movimento e comicità al quadro d' insieme. Quello sciorinar della grida, che l'oste fa sotto gli occhi di Renzo ricalcitrante a dire il suo nome, e il comico discorso che questo vi fa sopra sono pennellate nuove con che il Manzoni ha ravvivato la 'scena di quel dibattito, alquanto sbiadito nella prima stesura (*). E che vita, che ricchezza d' atteggiamenti, di cui non e' era nemmeno un vago sentore ne' succinti elementi, prevalentemente narrativi, del primo getto, ha la gente che gozzoviglia e gioca nell' osteria, mischiando balzani ragionari e arguzie schernitrici alle parole e agli atti, sempre più sconcertati, di Renzo (®) ! E com' è diversa la notte che questo, uscito di Gorgonzola, passa nel bosco in attesa d'attraversar l'Adda la mattina dopo, da quella eh' era descritta nella minuta ! Già vi ho accennato e vi ritornerò, quando in altro lavoro studierò il carattere e le vicende di Renzo; ma pur qui conviene notare che la trasformazione di ciò che nella minuta non era che traccia frettolosa e scialba sbozzatura in una rappresentazione vasta e profonda dell'anima di Renzo e della natura circostante, così ricca di analisi e particolari narrativi, descrittivi e afiettivi, in gran parte nuovi, ha conferito tale ampiezza al disegno dell' episodio e tale risalto al contenuto psicologico e drammatico di esso che quella peripezia del povero sposo fuggiasco acquista un posto di prim'ordine nella proporzione e armonia delle varie parti, ond'è ordita (1) Proni, sp., cap. XIV, p. 209. (2) Ibid., p. 216. (3) Non c'era che questo tratto magro e grezzo: «fece un cenno con l'occhio all'ostessa, che nella sua assenza presiedeva con la prudenza e l'imparzialità del mestiere la brigata» (Sp. prora., p. 542). (4) Proni, sp., cap. XIV, p. 210. (5) Sp. proni., p. 535-6; Proni, sp., ibid., p. 211-2. (6) Sp. prom., p. 536; Prom. sp., ibid., pp. 212, 213, 216, 217, 219. r azione generale del romanzo (*). E tutta un' altra, in confronto del primo getto, è la descrizione del viaggio di Renzo dalla riva dell'Adda a Bergamo, per copia di fatti e scene e particolari del tutto nuovi in quella appena accennati: la gioia del giovane quando tocca la terra di S. Marco, il pensiero che rivolge al ponte del suo paese, lo spettacolo della squallida indigenza che in varie forme gli si presenta allo sguardo, il tragico quadro dell' uomo ritto e smunto e delle due donne con quel bambino lattante che invano succhia alle mammelle della madre, l'elemosina che Renzo fa de' pochi soldi che gli sono rimasti, l'incontro, così avvivato di festosa accoglienza e di garruli parlari, col cugino Bortolo (^). Il vasto episodio che descrive il passaggio de' lanzichenecchi e la fuga di don Abbondio con Perpetua ed Agnese alla volta del castello dell'Innominato, s'è arricchito, nell'ultima redazione, non solo di una piti viva azione dialogica, non solo di quelle nuove pagine che ritraggono la vita e i costumi dell'Innominato, divenuto penitente e benefico, -- ampliamenti che servono, più che all'azione, allo sviluppo de' caratteri -- ma richiama sulla scena il sarto del villaggio, presso il quale i nostri tre fuggiaschi si fermano, a mezza strada, per rifocillarsi, riponendo in luce limpida e quieta l'ingenua pietà e la dolce comicità di quel brav'uomo, ma ad un tempo ritessendo di nuove file l'umoristica narrazione di quel viaggio del curato e delle due donne, che dalla complessità e varietà delle circostanze e delle impressioni, tra l'ansioso cruccio della fuga e la mite giocondezza di un'ospitalità semplice e cordiale, ritrae vita e movimento e colori nuovissimi {^). Dove non si tratti di elementi episodici o aneddotici, nuovamente introdotti nella trama dell'azione, o d'analisi, affatto nuove, volte a lumeggiare ciò che prima era oscuro e informe o addirittura inespresso, molti sono i casi, non meno rilevanti, d' integrazione psicologica e drammatica, che di riflesso influiscono sul disegno e la portata dell'azione: in generale il Manzoni nel rifare il romanzo, se ha dato d'accetta al superfluo, all'accessorio e a quello che -- come nel caso dell' episodio monzasco -- non conveniva più a' suoi più alti e sereni criteri morali e artistici, ha svolto e aggiunto dove gli è parso che la logica e l'arte richiedessero di sviluppare un carattere o di approfondire una situazione o di analizzare de' senti (1) Sp. prom., pp. 564-7; Prom. sp., cap., XVil, pp. 248-55. (2) Sp. prom., pp. 567-8; Prom. sp., ibid., pp. 256-61. (3) Negli Sp. prom., (pp. 621-2) la descrizioae del viaggio si riduceva a una decina di righe. Cfr., invece, Prom. sp., cap. XXIX, pp. 427-31, cap. XXX, p. 436-9. menti ed affetti. Il dialogo che si svolge, nella nuova forma, tra don Abbondio e i bravi (*), e quello del curato con Perpetua, dopo il malaugurato incontro ('); le consulte e i propositi del pover'uomo per tenere a bada Renzo {^), lo stato d'animo dello sposo dopo la rivelazione del nome di don Rodrigo {*): le sue sfuriate in casa di Lucia (5); il tentativo di ratto («), i discorsi di don Rodrigo e del Griso dopo la fuga degli sposi ('); la cattura di Renzo (*); il colloquio dell' Innominato con Federigo Borromeo ('); il soliloquio e gli atti di don Abbondio durante il viaggio alla volta del castello (^°); lo stato d'animo di Lucia poco prima della liberazione ("); la parte della «buona donna» nella pietosa impresa (**); il primo incontro di Agnese con la figlia dopo il ratto ("); questi tratti e altri di minor conto, che non importa notare, sia che vi si riprenda e approfondisca r analisi de' caratteri, sia che elementi descrittivi e narrativi, quasi sempre succinti e sbiaditi, si tramutino in vivo dialogo, sono stati nella trasformazione del primo getto rielaborati con tal larghezza e rilievo da contribuire pur essi alla maggiore pienezza e intensità dell'azione generale. (1) Sp. prom., pp. 20-1; Prom. sp., cap. I, pp. 12-13. (2) Sp. prom., pp. 29-31; Prom. sp., cap. I, pp, 18-21. (3) Sp. prom., pp. 33-tì; Prom. sp., cap. II, pp. 23-6. y) Sp. prom., pp. 39-42; Prom. sp., cap. II, pp. 28-31. (5) Sp. prom., p. 47, 61-2, 83-4, 118-22; Prom. sp., cap. Ili, pp. 35, 47, cap. V, pp. 63-4, cap. VII, pp. 88-91. (6) Sp. prom., pp. 143-5, n. 7; Prom. sp., cap. Vili, pp. 110-13. (7) Sp. prom., p. 263; Prom. sp., cap. XI, pp. 163-4. (8) Sp. prom., pp. 546-53; Prom. sp., cap. XV, pp. 226-33. (9) Sp. prom., pp. 373-8; Prom. sp., cap. XXIII, pp. 327-30. (10) Sp. prom., pp. 386-8, 390-5; Prom. sp., cap. XXIII, pp. 334-41. Il secondo soliloquio, durante il cammino di ritorno, mancava affatto nella minuta: c'era un'informe sbozzatura de' sentimenti di don Abbondio, che si smarriva nell'affrettata descrizione del viaggio; per contro ne' Prom. sp., questa è così viva di particolari umoristici e massimamente risalta in tal modo nello stupendo monologo del curato che quello ch'era squallida notazione nel primo testo s'è trasformato in una scena ricca d'azione muta, ma profondamente significativa. (11) Sp. prom., p. 402; Prom. sp., cap. XXIV, p. 341. C'è un mutamento notevole di situazione nella scena della liberazione, che, modifica, di conseguenza, l'andamento dell'azione. Nella prima stesura il Conte non s'avanzava nella camera, dov'era Lucia, poco dopo don Abbondio e la «buona donna», ma attendeva fuori per tutto il tempo, né si faceva vedere né parlava alla sua prigioniera. Ne' Prom. sp., invece, troviamo quell'indovinata scena, in cui Lucia non può reprimere un subitaneo ribrezzo nel rivedere il terribile uomo, ed egli s'umilia dinanzi a lei, ed ella si rincora, esprimendo con convenienti parole la riconoscenza insieme e la pietà (Sp. prom., pp. 403-4; Prom. sp., cap. XXIV, pp. 342-3). (12) Sp. prom., pp. 403-6; Prom. sp., cap. XXIV, pp. 343-5, 348. (13) Sp. prom., p. 420; Prom. sp., cap. XXIV, pp. 354-5. La genesi e la composizione poetica di Lucia I. L' ideale evangelico del Manzoni e la genesi ètico-religiosa di Lucia. -- II. La preoccupazione storica e realistica nella primitiva concezione del carattere. -- III. L'elevazione poetica del carattere in ragione diretta del progressivo chiarirsi e illuminarsi dell'idea di carità che l'informa. -- IV. Mutamenti nelle situazioni e rappresentazioni, dovuti alla legge della convenienza psicologica ed artistica de' personaggi ne' loro mutui rapporti. -- V. L'eliminazione del patetico e del pittorescamente drammatico e ancora dell'idealizzazione di Lucia nel carattere e nelle peripezie: [la separazione dalla madre; il ratto e il viaggio co' bravi; il primo incontro con l'Innominato; la notte passata al castello]. -- VI. Ancora, della profonda trasformazione poetica di Lucia nel rimaneggiamento della scena del perdono che l'Innominato ottiene da lei. -- VII. Nel rinnovamento d'analisi e di rappresentazione della vita di Lucia dopo il voto e dopo la liberazione: [ospite in casa del sarto del villaggio; la famiglia del sarto; il cuore di Lucia tra il voto e l'amore; il primo e il secondo incontro col card. Federigo; ancora del voto e de' combattimenti interni di Lucia; il ritrovamento della madre e il ritorno al paese natio]. -- VIII. Una nuova scena nell'ultima redazione del romanzo: la rivelazione del voto alla madre. Com'è stata rimaneggiata la scena del commiato. -- IX. I rimutamenti profondi dal primo getto alla forma definitiva nella scena dell'incontro di Lucia con Renzo nel lazzaretto. -- X. Il proscioglimento dal voto e le variazioni nel carattere e negli atteggiamenti di Lucia. I. Come nel capitolo precedente ho seguito, sulla scorta della prima stesura e de' successivi rifacimenti del romanzo, il processo di riordinamento e di chiarificazione del disegno generale, cosi ora mi propongo di studiare i personaggi di Lucia e di Gertrude nel loro processo formativo attraverso il lavoro intenso e paziente, che il Manzoni venne compiendo intorno all' opera sua. Vogliamo, pertanto, vedere con l'esempio delle due principali figure femminili com'egli sia pervenuto alla piena, nitida e coerente rappresentazione de' veri caratteri de' suoi personaggi, ritratti e illuminati nell'orbita dell'azione generale, che è come dire da quale disposizione del suo spirito, da quale suo stato d'animo, in cui l'idea di quello o questo personaggio, spogliatasi d'ogni elemento astratto o volgare, s' è concretata, sia venuta generandosi quella perfetta forma fantastica che è appunto il personaggio che vive nell' opera d' arte. E se è vero che anche il romanzo, come qualsiasi opera d'arte, è lirica nella sua genesi sentimentale e rappresentazione epica nella sua forma, cioè rappresentazione nitida e coerente di una commozione di sentimenti intensa e profonda, agitante la coscienza dello scrittore, la genesi del carattere di un personaggio, ovverosia delle situazioni e delle azioni in cui si svolge, non può essere cercata che nell'animo dell'artista, nelle sue predisposizioni aff'ettive, morali o intellettuali, onde vengono quei motivi sentimentali che, inalzandosi per impulso di gagliarda aspirazione, si sono trasfigurati nelle creature concrete del romanzo. Né si può considerare e valutar l'episodio, la scena, il personaggio separatamente dell'azione generale, ne questa intendere se non la si guardi come l'espressione armonica di un vasto mondo interiore già sorto nella coscienza del poeta. Perciò nello studiare i personaggi del romanzo manzoniano si determinerà implicitamente il significato e il valore dell'azione, che di essi si forma e s' illumina. Nella prima parte di questo lavoro, illustrando la dottrina eticoreligiosa, che preparò nella mente del Manzoni la concezione de' Promessi sposi, e le sue idee intorno alla poesia, la storia e particolarmente il romanzo storico, che influirono suU' origine di essi, ho accennato alla presenza ed efficacia di quei principi nella genesi de' caratteri dei personaggi e all' opportunità, che offre la prima stesura del romanzo, di cogliervi le segrete intenzioni dell'autore e le ispirazioni derivate dal suo mondo morale. Lucia è un personaggio d'ispirazione prettamente evangelica ed \ è il più puro fiore dell'idealismo etico-religioso del Manzoni. Non ' s' intende perchè egli abbia scelta come eroina del romanzo codesta povera figlia di un villaggio lombardo, se non si tenga presente la dottrina difesa e predicata nelle Osservazioni sulla morale cattolica. Non tanto per la tendenza, già manifesta ne' romanzi scottianì, a sostituire, o almeno a mischiare ai grandi della terra gli umili e gli oscuri, quanto pel bisogno di concretare nelle forme dell' arte verità caldamente sentite, ha il Manzoni narrati i casi di Lucia. Se Ermengarda è germinata dal concetto della fragilità della nostra natura, cui le passioni sono cagione di traviamento o di disinganno e di dolore, Lucia è nata dalla fervida consapevolezza di fede in quelle verità fondamentali della rivelazione che piti addietro abbiamo visto luminosamente intese e ragionate dal Manzoni: Lucia \ è r immagine dell' anima che accetta, senza transazioni e compromessi, il Vangelo nella sua interezza con umiltà di cuore; che non concepisce di poter fare bene senza la grazia divina; che opera la, propria salute con timore e tremore. Lucia accoglie in sé queste idee sublimi che Dio nasconde ai prudenti e ai sapienti, perchè, senza sforzo, sa farsi picciola per intenderle: fra la gente della sua condizione, co' nobili o grandi in cui s' imbatte, in tutte le vicende della sua storia avventurosa, rivela nella forma piìi semplice e schietta la virtù della carità; la sua anima, i suoi dolori e la sua salvezza pare facciano testimonianza alla forte convinzione del poeta che, lungi dalle presunzioni della ragione umana e della scienza, non si può piacere a Dio se non con la fede, e a quella, non meno sicura, che la vita quaggiù è travaglio, è miseria, è debolezza, onde poco o nulla possiamo aspettarci dalla giustizia degli uomini e tutto dalla giustizia divina. Così Lucia come fra Cristoforo sono personaggi ideati e atteggiati i secondo il sentimento e il concetto delle supreme virtù evangeliche, -- la carità e la giustizia; e perciò nello sviluppo psicologico de' ri1 spettivi caratteri, nello svolgimento dell'azione, l'una è inseparabile dall'altro e insieme incarnano perfettamente l'ideale evangelico del Manzoni: Lucia rafforzandosi nella carità con l'umiltà, fra Cristoforo con la devozione alla giustizia. La finissima analisi e la fervida lode della carità, che già vedemmo in alcune pagine eloquenti della Morale cattolica, tornano in mente a chi osservi il carattere e il contegno di Lucia: l'amore del prossimo non è in lei una semplice ) pietà naturale, ma è religiosa inclinazione ad * amarlo in Dio e per Dio»: ella non odia il suo persecutore, non muove lagno o rimprovero al debole curato, che doveva render santo e benedetto il suo amore, non incolpa mai delle sue sventure e de' suoi patimenti gli uomini che ne sono cagione. Nel modo di concepire e atteggiare la modesta e gentile anima di Lucia il Manzoni ha riflesso quel suo meditato concetto del vero cristiano che nel sentimento della propria miseria, della carità universale e dell' anica speranza in Gesù Cristo attinge indulgenza e compatimento «a riguardo d' ogni nostro fratello, per quanto la condotta di lui possa parere a noi ed essere abbietta e perversa». E nell' amore dovuto a tutti gli uomini riposa la ragione dell'amor di sé stessa, che, lungi dall'essere un cieco istinto, è volontà del bene sommo assoluto, a cui i beni finiti del mondo, come mezzi a quel fine, sono subordinati: codesto retto amore di sé riceve conferma nel voto risoluto ch'ella fa la notte durata con tanto dolore e terrore nel castello dell' Innominato, quando rinunzia volontariamente al giovane amato, alle gioie della novella famiglia, vagheggiata ne' soavi sogni di fanciulla, per ottenere la grazia di sottrarre all'onta scellerata la sua nativa purezza; queir offerta di ciò che ha di più caro fra i beni terreni^ ma che r iniquità non le consente di conseguire, è atto d'amore dell'anima per sé stessa al fine della sua salvazione. Nella sua religiosità ingenua, ma profonda. Lucia sente esser questo un «grand' obbligo > che le è imposto dal bisogno stesso d' ottener la grazia dalla Madonna, e con quella «signoria» di sé stessa, con quella «serenità della mente» che le dà la religione, può compiere uno di quei sacrifizi «ai quali il senso repugna >. Nell'atto di Lucia la morale religiosa, come il Manzoni l'aveva bellamente illustrata nella polemica col Sismondi^ consegue una splendida vittoria: senza la carità Lucia non potrebbe superare la crisi di quella notte, poiché, se la morale religiosa le chiede «un grand' obbligo», l'ha «messa in caso d'adempierlo». Lucia, nella sua umiltà cristiana, ha la vaga consapevolezza che il compimento della vera giustizia è quaggiù un vano sforzo, onde quel tentativo di matrimonio per sorpresa, così vivamente caldeggiato da Agnese e da Renzo, ai quali pareva legittimo mezzo di giustizia, a lei, invece, sembra un disegno ingiusto e inutile e quasi una presunzione della volontà umana, in confronto delle segrete preparazioni della Provvidenza. E di fatto quello sforzo dell' uomo di ottener giustizia co' suoi mezzi non riesce, e nell'odissea dolorosa degli sposi, separati e perseguitati dalla violenza e dalla perfidia umana, s' avvera ciò che della giustizia in questa vita diceva l'autore della Morale cattolica, essere «decreto di sapienza e di bontà che soffra per mondarsi e combatta per crescere». La concezione del carattere di Lucia e del suo dramma spirituale, quale si svolge tra gli urti delle peripezie della vita, ha notevoli rapporti con le meditazioni degli scrittori sacri francesi, sui quali il Manzoni -- come abbiamo più volte osservato -- venne formando la sua nuova cultura religiosa dopo la conversione. L'animo di Lucia che dopo il voto, dopo cioè il più grande sacrifizio che spontaneamente potesse fare, pur tra le angosce della prigionia sente entrare in sé stessa «una certa tranquillità, una più larga fiducia > (') ed è «così preparata da una vita d'innocenza, di rassegnazione e di fiducia > che resiste all' improvviso sgomento suscitatole dal pensiero del voto e s'affida alle disposizioni della Provvidenza (*), appartiene ai giusti che il Massillon celebrava per «un calme profond >, per la «sérénité de coscience >, la «simplicité de coeur», la «égalité d'esprit >, la «confiance vive», la «résignation paisible», con cui vincono i turbamenti, i disgusti, le inquietudini della vita (^). Lucia, di contro don Eodrigo e l'Innominato, non è che una «povera creatura», una «meschina», che nulla può «pretendere» (*), una «povera figlia» derelitta senza protezione -- come rifletteva fra Cristoforo negli Sposi promessi (^) ?, «una povera innocente», che la prepotenza può «tener nell' angoscia e nel terrore», ma su cui vigila lo sguardo di Dio (^), che «non turba mai la gioia de' suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande» (^); ma -- quel che più importa -- essa nella sua debolezza è -- seIcondo la concezione manzoniana -- l'eletta della Provvidenza divina, . che se ne serve pe' suoi disegni segreti. Tutte le vicende di que yì st' umile creatura convergono nel romanzo a fare splendere nella forma della poesia, idealizzatrice della realtà, la verità espressa in quelle parole di Federigo: «Dio ha permesso che foste messa a una gran prova; ma v'ha anche fatto vedere che non aveva levato l'occhio da voi, che non v'aveva dimenticata. V'ha messa in salvo; e s'è servito di voi per una grand'opera, per fare una gran misericordia a uno, e per sollevare molti nello stesso tempo» (^), Questo che è il motivo etico essenziale della Lucia manzoniana ha una viva affinità di concetto con quelle osservazioni del Massillon: C'est cette foiblesse méme qui est glorieuse à la foi et à la (1) Prom. spé, cap. XXI, p. 309. (2) Prom. sp., cap. XXIV, pp. 349-50. (3) Serm. sur le bonheur des Justes, in Oeuvres (ed. cit.) voi. I, p. 29. (4) Prom. sp., cap. XXI, pp. 304, 305. (5) Sp. prom., p. 82. (6) Prom. sp., cap. VI, pp. 77, 78. (7) Prom. sp., cap. Vili, p. 123. (8) Prom. sp., cap. XXI V, p. 357. religion de Jésns-Christ; c'est pour cela méme que le Seigneur vous a choisi pour faire connòitre en vous combien la grace est plus forte que la nature Plus étes foibles, plus devenez un istrument propre aux desseins et à la gioire du Seigneur. Il n'a jamais choisi que des personnes foibles, quand' il a voulu appesantir sa main sur elles, a fin que l'homme ne s'attribuàt rien à lui-mème Plus nos afflictions nous paroissent extraordinaires, moins nous devona croire qu' il y entre du hasard; plus nous devons découvrir les ordres secrets et impénétrables d'un Dieu singulièrement attentif sur notre destinée; plus nous devons presumer que sous des évenements si nouveaux il cache sans doute des vues nouvelles, et des desseins singuliers de miséricorde sur notre àme» (*). Nelle quali meditazioni del grande oratore francese e' è, per così dire, il sostrato etico-religioso de' casi di Lucia, ovverosia di quella che è l'azione principale e dominante del romanzo. Ma ciò che costituisce dell' immortale personaggio manzoniano il carattere costante, originale, attorno a cui il Manzoni lavorò con lena infaticata di pensatore e d' artista per renderlo sempre più coerente e più limpido, è quella forza semplice, eppur potentissima, onde Lucia trae dalle sue virtù cristiane consolazione, calma e dolcezza anche sotto il peso de' più grandi patimenti. È questo uno degli aspetti dell'anima, ardente di pietà religiosa, che il Massillon meglio illustrò nelle sue acute e calde analisi del cuore umano: «Si la vertu -- ei diceva -- ne nous garantit pas des aflQictions et des disgraces inévitables sur la terre, du moins elle les adoucit; > E poi: «qu' y-a-t-il de plus à désirer qu' une situation qui nous console dans ces évenements; qui nous soutienne dans ces orages; qui nous calme dans ces agitations; et qui, dans changements éternels qui se passent ici -- bas autour de nous, nous laisse du moins toujours les mémes» ? Lucia nell'orrenda notte passata al castello non perde la speranza, ma si ravviva nella fede e trova la calma del cuore, perchè i giusti -- osservava il Massillon -- non s'abbandonano alle dispe (1) Serm. sur les afflictions, in Oeuvres (ed. cit.), voi. I, pp. 154-5, 157. Cfr. anche pp. 161, 162. Come e perchè il Manzoni tra innumerevoli nomi di santi ha scelto quelli di Lucia, di Agnese, e pur quello di Cecilia nel noto episodio patetico della peste* Diflacile, se non impossibile, la risposta; ma è curioso che questi tre nomi si trovino riuniti in una pagina del cit. sermone del Massillon, p. (155) e a mo' d'esempio di povere umili anime illuminate dalla fede: «Les Agnès, les Luces, les Céciles rendoient gioire à Dieu dans leur foiblesse, à la force de sa grace, et à la vérité de sa doctrine. Ce sont ces de vases de terre que le Seigneur prend plaisir de briser, comma oeux de Gédéon, pour faire éclater en eux avec plus magnificence, la lumière et la puissance de la foi». razioni terribili del peccatore: «ils soufifrent, mais la mème main qui les éprouve les soutient, et ils ne sont pas tentés au-de là de leurs forces; ils sentent ce que vous appelez la pesanteur du jug" de Jésus-Christ; mais en rappelant le poids de l'iniquité sous lequel ils ont gemi si long-temps, ils trouvent leur sort heureux, et cet parallèle les calme et les console Les senses peuvent encore souflFrir des amertumes de la vertu; mais du moins le coeur est tranquille..... Les graces, dont il (Dio) accompagno nos dégoùts, qui soutiennent notre foi, en mème temps que nos violences abattent r amour-propre, fortifìent notre coeur dans la vérité, font que notre coeur est prompt et fervent, quoique la chaire soit foible et languissante; de sort qu' il rend notre vertu d'autant plus solide, qu' elle est pour nous, ce semble, plus triste et plus pénible» (^). È questa la vicenda attraverso cui eran passati Lucia e Renzo «co' travagli e tra le miserie», ma per essere disposti dal cielo «a un' allegrezza raccolta e solenne» {^), ed è nelle parole dell' autore francese, esaltanti i frutti della sventura sorretta dalla fede e dalla grazia, il «sugo di tutta la storia» che quella «povera gente» e con essa il Manzoni traggono alla fine di tante peripezie, che cioè 1 guai «quando vengono o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore» (^). II. Ora, per meglio vedere come l'ispirazione etico-religiosa del carattere di Lucia si trasfigurasse nella coscienza poetica del Manzoni in creatura viva e concreta, conviene seguirne lo sviluppo psicologico e la figurazione e rappresentazione estetica attraverso i mutamenti e perfezionamenti che lo scrittore operò nell' assiduo processo di rielaborazione di tutto il romanzo. Vero è che Lucia, come il Manzoni la concepì e la tratteggiò ne' suoi caratteri psicologici essenziali e nella sua significazione umana fin dalla prima stesura, tale rimase ne' rifacimenti e nella redazione definitiva; che, anzi, a differenza d'altri personaggi che subirono una non lieve trasformazione rispetto al carattere e alle situazioni loro, tra l'idea, che ne ebbe primamente il poeta, il motivo sentimentale, in cui il concepimento astratto si tradusse, e la fantastica forma, cioè il personaggio in azione, in cui l'ispirazione del sentimento si è trasfigurata e concretata, v' ha una sicura coe (1) Serm. sur les dégouts qui accompagnent la pieté en cette vie, in Oeuvres (ed. cit.), pp. 177, 178, 191, 195, 196. (2) Prom. sp., cap. XXXVI, p. 544. (3) Prom. sp., cap. XXXVIII, p. 574. renza che ne rende chiara e precisa l'unità estetica; ma anche attorno alla figura di Lucia il Manzoni compì un lavorio intenso di purificazione e nobilitazione poetica, che, se non modificò la tempra morale del personaggio, ne chiarì via via l'idea ispiratrice, ne arricchì r analisi psicologica, ne rese più alta e più decorosa la rappresentazione artistica. Si veda la scena nella quale ella, costretta dalle circostanze nuovo, rivela alla madre e a Renzo le insidie di don Rodrigo. Nella prima stesura raccontava in forma diretta e con ricchezza di particolari e certa crudezza realistica la persecuzione subita, ritraeva brevemente, ma con libera vivacità, il contegno del signorotto libertino, che era andato fin nella filanda a molestar lei e le compagne: mentre l'ultima ci presenta il racconto di Lucia in modo indiretto, ed ella riferisce con raccolta sobrietà sorvolando pudicamente sui particolari della persecuzione, non dice nulla di quella visita indiscreta nella filanda, ma accenna a due incontri avuti con don Rodrigo sulla via alla presenza di un altro signore, il conte Attilio, e alla scommessa corsa tra i due scapestrati; oltr'acciò, allo sfogo di Renzo: -- e questa è r ultima che fa quell'assassino > -- Lucia esce nel grido: «Ah 1 no, Renzo, per amor del cielo»! ?; né a queste parole accompagna atto alcuno, mentre nella minuta, in un impeto di dolore e terrore, gittava «quasi le braccia al collo > del giovine furibondo e diceva d'averlo pregato d'affrettar le nozze, immediatamente dopo la narrazione della licenziosa corte fattale da don Rodrigo, senza arrossire, senza abbassare gli occhi, e non si giustificava di quella sollecitazione alquanto ardita con l'attribuirla al consiglio di fra Cristoforo, al quale s' era confessata, non esprimeva timore di aver dovuto far la sfacciata (*). La medesima facondia nel descrìvere l'insolente contegno di don Rodrigo ritroviamo nel colloquio di Lucia con la signora, dopo che questa ha congedati il padre guardiano ed Agnese ('). Ciò che ne' rifacimenti successivi il Manzoni riporta in forma narrativa e in modo succinto, era disteso, nella minuta, in un dialogo ampio e vivace, nel quale Lucia, pressata dalle domande stranamente curiose di Gertrude, parlava con certa abbondanza di ricordi e di giudizi, sebbene con lo stesso ribrezzo del suo persecutore e con lo stesso stupore per le parole imprudenti e sfrenate della signora che mani (1) Sp. prom., pp. 46-7; Prom. sp., cap. Ili, pp. 34, 35. (2) Sp. prom., pp. 254-9. V. SU questo dialogo le garbate osservazioni di F. D'Ovidio, in N. st. manz. cit., pp. 450-4. festa nell'ultima redazione. Poiché è bensì vero che la nativa verecondia di Lucia non ne era intaccata e che la meraviglia sua pel contegno della monaca e l'equivoco d'attribuire, di primo acchito, all' ingenuità e all' inesperta innocenza di lei queir interrogare audace e talora sboccato, concorrevano, secondo l'intenzione dello scrittore, a mettere in luce quella riservatezza pudica, che caratterizza l'anima di Lucia, ma c'era tuttavia, nell'ampio dialogo, e massime nel racconto eh' ella faceva della sua compagna Bettina, lusingata, sedotta, e poi abbandonata da don Rodrigo e finita col dover lasciare il paese, rivoltosele contro, e col girar il mondo, c'era, dico, una nota di franchezza, anche se misurata da voluta prudenza, un non so che di poco contegnoso e di garrulo, che, per dire il vero, non conferivano a quella compostezza, fatta di timidità ombrosa e di delicato riserbo, che nell' idea dell'artista doveva essere il tratto morale caratteristico del suo personaggio . Quest' idea, dopo il tumultuoso lavoro del primo getto, si chiarisce e, secondata dalla forte tendenza, che viene prevalendo ne' rifacimenti successivi, ad elevare poeticamente tutta la materia del romanzo, opera efficacemente nella ricomposizione psicologica di Lucia; onde quegli elementi, crudemente realistici, scompaiono, il dialogo con la signora addirittura viene soppresso e la rivelazione dell' impudica persecuzione di don Eodrigo ridotta, contenuta ne' modi sobri e verecondi, quali s' addicono a < quel pudore ombroso -- dirò con le belle parole dei D'Ovidio -- fatto di scrupoli pii e di rusticana riservatezza», che è nella natura di Lucia (*). Né io saprei rimpiangere ciò che s' è perduto per la soppressione di quel dialogo -- e tanto meno per la riduzione di quella scena ?, perchè l'una e l'altra son dovute alla nuova disposizione di spirito del poeta a rivivere, a risentire il suo personaggio, con più delicata ispirazione psicologica e più efficace impulso d'elevazione poetica. E infatti, non si tratta -- a mio avviso -- di vedere se il Manzoni fece bene o male, per rispetto all'arte in generale, a tagliar via o a mutare questo o quello nel romanzo, ma di ricercare quale forma convenisse secondo la concezione del carattere, delle situazioni e via dicendo; onde, nel caso presente di Lucia, quel dialogo e quelle particolareggiate informazioni s' attagliavano, con coerenza artistica, all' immagine di una Lucia ancora un po' grezza, un po' trivialmente ingenua e un tantino anche goffamente contadinesca e, per effetto di questi caratteri, alquanto garrula né sempre contenuta: una Lucia (1) Prom. sp., cap. X, pp. 160-1. Cfr. D'Ovidio, loc. cit. di cui l'artista, nel primo concepimento, non aveva ancora intuita con piena coscienza la semplicità, cioè quell'accordo bellissimo di delicata ingenuità e di attenta saggezza; ond'egli oscillava tra analisi e scene appropriate a codesto carattere di Lucia e altre alquanto dissonanti da codesta bella intuizione, perchè nel primo getto la preoccupazione, comune a tutte le parti del romanzo, di tenersi allo spirito de' tempi, rappresentati anche pei personaggi immaginari, e di riflettervi con la massima attenzione i caratteri della realtà umana osservata, -- preoccupazione storica e realistica -- rallentava quel processo di idealizzazione da cui la materia -- sia un reale passato o presente -- è, quasi direi, investita e trasmutata per farsi grande e duratura. Lucia in quei tratti che testé abbiamo visti, e in altri che esaminerò sulla prima stesura, è una figura analizzata attraverso la visione storica della gente campagnola della Lombardia secentesca e sotto l'influsso d'un realismo artistico, alimentato piuttosto di osservazione che di meditazione fantastica. Quel tanto che della minuta ha conservato il Manzoni nel romanzo, in forma narrativa, e rinnovato con tocchi sobri delicatissimi, quei riferimenti misurati e pudichi sulla corte fattale da don Rodrigo, quei rapidi cenni ai discorsi strani, indiscreti della monaca, quegli scorci psicologici, quelle pennellate efficacissime nel ritrarre l'anima di Lucia, che sono il «gran ribrezzo» nel dover parlare di don Rodrigo, lo «stupore dispiacevole *, «il confuso spavento» nel sentire gli «svagamenti» e le «ciarle» della signora, e r ansia d' aprirsi con la madre ti ricompongono dinanzi agli occhi una Lucia decorosamente raccolta nel suo guardingo pudore, pensosamente atteggiata nella sua candida, ma non rozza semplicità: è una Lucia attinta alla realtà, ma idealizzata dall'arte. *** III. Codesta idealizzazione procede principalmente dal progressivo chiarirsi e Illuminarsi di quella idea di carità in cui -- come sopra dicevo -- è la genesi etica del personaggio. Si ripensi alla scena che si svolge in casa di Lucia, quando Renzo, dopo la vana spedizione di fra Cristoforo al palazzotto di don Rodrigo, scoppia in un nuovo furore contro quel prepotente e vuol farsi giustizia da sé (*). Già ho osservato come dalla minuta all' ultima redazione si mutino le parti e gli affetti, poiché in quella é fra Cristoforo, presente alla scena, che combatte la collera e il truce proposito del giovine, in (1) Sp. prom., pp. 118-22; Prom. sp., cap. VII, pp. 89-91. questa è Lucia che lo placa con le lagrime e la promessa d'acconsentire al matrimonio per sorpresa. «Lucia -- scrivevo altrove analizzando le differenze dì questo episodio -- (*) ha modo, nella nuova scena, di rivelare il suo carattere in quell'accorata ma non fiacca premura che mette ne' suoi discorsi e nelle sue preghiere, in quella risolutezza ispirata da una magnanima pietà religiosa con cui dichiara a Renzo che non potrebbe sentire nuli' altro che abborrimento di lui, se si fosse macchiato di un assassinio >. E, osservando che così nell'una come nell'altra scena è la risoluzione dì Lucia che cambia l'animo di Renzo, aggiungevo: «codesta parte di Lucia ha nella prima forma qualche cosa di grezzo e stentato, senza svolgimento psicologico, senza nitidezza ed efficacia dì rappresentazione; mediocre, non foss'altro, per quel modo di mettersi in mezzo al concitato colloquio con quelle parole dette meditatamente, in guisa che avessero effetto su Renzo, ma il padre non ne intendesse il senso»; mentre nella scena dell' episodio rinnovato il consenso di Lucia «è in ben altro modo concesso, e cioè in un impeto d'angoscia, dì spavento, che travolge in Lucia ogni dubbio ed ogni contrarietà al disegno del matrimonio forzato. La verosimiglianza che a questo punto gli scrupoli dì un animo pio e forte come quel dì Lucìa cadessero vinti, assume un carattere di maggiore efficacia e naturalezza, e il colorito modo di quel consenso rivela la superata battaglia dei sentimenti in più vivida luce che non sìa nella minuta, dove il travaglio interiore dì quel momento che precede e prepara la promessa, eh' ella fa a Renzo, è come avvolto neir ombra» (*). Tra le ragioni che possono aver indotto il Manzoni a mutare i personaggi e lo svolgimento di questa scena notavo l'opportuno rilievo fattogli dall'amico Fauriel, -- avere egli, cioè, rappresentato in un capìtolo precedente qualche cosa dì analogo a quel contrasto tra il padre Cristoforo e Renzo, -- e il proposito di conservare il vivace colloquio che ha luogo tra i due al lazzaretto, e in cui si riproduce una situazione consimile. Ora, oltre il fine d'evitare una ripetizione dì scena, osservo che potè non meno efficacemente l'intento di dare un maggiore sviluppo psicologico e drammatico al carattere non solo di Renzo, ma soprattutto dì Lucia. Come già il padre in quel primo scoppio di collera del giovine (scena conservata con lievi differenze nella redazione definitiva) ne aveva disarmato (1) V. Saggi manz., cit., p. 7. (2) Saggi cit., p. 9. r animo, agitato da biechi disegni di vendetta, con la parola della carità e della fede, cosi Lucia nel secondo e più veemente accesso di furore lo supplica e ammonisce pur lei in nome di quelle magnanime virtù cristiane; e la visione, che nella seconda scena della minuta fra Cristoforo gli prospetta, di una vita avvenire turbata dall'angoscia e dal ribrezzo dell'omicidio commesso, passa, con toni più teneramente commossi, ma non meno austeramente risoluti, ne' discorsi di Lucia. E mutare lo svolgimento psicologico e drammatico della scena per conferire a Lucia la parte nobilmente cristiana, sostenuta nella prima stesura da fra Cristoforo, di ridurre Renzo a più miti consigli, mi pare convenisse perfettamente alla coerenza morale ed estetica de' caratteri, purché si pensi che, nella coscienza del Manzoni, Lucia e il frate sono due personaggi idealmente congiunti nel concetto della carità e della giustizia. * * * IV. Come il Manzoni rilavorasse dalla prima all' ultima stesura attorno alla figurazione estetica di Lucia con più profonda comprensione etica e maggior vigore d'indagine psicologica e di purificazione fantastica, verrò ora dimostrando mediante l'esame d'altre situazioni ed azioni, in cui il carattere di questo personaggio ha il suo svolgimento. È bene, anzitutto, avvertire che a modificare sostanzialmente un carattere o a renderlo almen più vigorosamente poetico contribuiscono in parte i mutamenti recati nella rappresentazione dell'azione generale e degli episodi particolari, di cui -- come dicevo -- esso è un fattore necessario e un rifiesso luminoso; coi quali mutamenti ha stretto rapporto il nuovo modo di sentire e d'atteggiarsi d'altri personaggi, che con quello si trovano ad agire, in accordo o in conflitto d' istinti, d' interessi, d'affetti; onde avviene che il carattere di ciascun personaggio, oltre che derivare vita e colore dalla particolare concezione etica e interpretazione psicologica con cui il poeta lo intuisce e riflette nella sua coscienza artistica, assume questo o quell'aspetto e atteggiamento secondo la natura o il contegno d'altri caratteri, e varia col variare di questi. É, come a dire, una legge di proporzione psicologica e di mutua reazione drammatica che dalla vita reale, dove ha più libero gioco, si riflette nell'arte. Valga, per esempio, la medesima scena della collera di Renzo, testé esaminata. Lucia, spettatrice ansiosa al conflitto tra l'autorità di fra Cristoforo e la veemente passione di Renzo, nella primitiva forma della scena non agisce se non per intervenire con quella coperta promessa d'adesione al sotterfugio del matrimonio per forza; ma nella nuova dell'ultima redazione, trovandosi ella, non già il padre, in conflitto coi discorsi e gli atti del giovine, ne è, per così dire, ripercossa, e, alla sua volta, si atteggia in conformità della nuova situazione, svolgendo quella sua accorata, risoluta magnanimità per reazione immediata al furore di lui. Ma anche piìi osservabile è codesta convenienza psicologica ed artistica, che regola i mutui rapporti de' personaggi tra loro, nel modo come Lucia si lascia indurre dalla signora ad uscire dal monastero per portare un'imbasciata al padre guardiano: è osservabile, cioè, come il Manzoni abbia ritoccato il contegno dell'una, avendo modificato quello dell'altra. Si leggeva nella minuta che Gertrude, chiamata Lucia nel suo parlatorio privato, «per comunicarle cose molto importanti», «ripetendo la lezione del suo infernale maestro, cominciò ad impastocchiarla con una storia misteriosa, di pericoli e di speranze, di mezzi posti in opera da lei, di ostacoli, di aiuti: tutto per liberare Lucia dalla persecuzione di don Eodrigo, e per farla essere tranquillamente sposa di Fermo». Le parlò a mezz'aria, per motivi di prudenza, sostenendo calorosamente che occorreva «un po' di coraggio e molta precauzione», che una piccola indiscrezione poteva rovinar tutto, che, perciò, v'era bisogno d' un uomo «da cui potesse aspettarsi un consiglio fidato e un aiuto operoso > e che il solo uomo da fidarsene era il padre guardiano, dal quale Lucia era stata condotta al monastero, e che ella non aveva persona, all' infuori di lei, da mandare segretamente a quel padre, senza timore e pericolo che i suoi piani per renderla felice fossero scoperti. Lucia, come pur si legge nel testo definitivo, rimaneva sorpresa e turbata da quella proposta, e tergiversava e chiedeva schiarimenti; ma la signora si lagnava con lei che «pretendesse farle rivelare ciò eh' ella non poteva» e le rinfacciava la pietà e la disinteressata premura con cui s'adoprava pel bene di lei, accorandosi con ostentato dolore sdegnoso (*). Questa diabolica invenzione di un pietoso disegno segreto, da lei concepito per porre in istato di sicurezza e di felicità la sua cara Lucia, era la chiave di volta di tutta la scena nella forma primitiva e ne conseguivano sentimenti e atteggiamenti in Lucia, che non troviamo nel testo definitivo. Narrava infatti la minuta che «Lucia, commossa in un punto di vergogna e di timore, stava per piangere», (1) Sp. prora,, pp. 321-2. che la signora, cogliendo 11 destro, la circuì con amorevole riprensione, rassicurandola per sempre della sua protezione; dicendole «che pensasse ai rimproveri che ella farebbe un giorno a sé stessa di avere per irresolutezza, per infingardaggine rifiutato il mezzo della salute, e rovinata sé stessa, la madre e l'uomo a cui ella s'era promessa > . E proseguiva: «Lucia non seppe più resistere, si accusò di aver resistito, le parve che avrebbe rifiutato il soccorso del cielo, rifiutando quello che le era ofi'erta; piena di una novella fiducia, disse: «vado tosto >. E dopo che «Geltrude, l'accomiatò, lodandola, facendole animo, e ripetendo le più liete promesse Lucia ritenendo a forza il pianto, chiese scusa della sua ingratitudine. «Sono una poveretta senza pratica» diss'ella; «ma già ella tutte queste brighe non se le deve pigliar per me, ma per quello di lassù, che gliele rimeriterà tutte;» e abbandonandosi alla grata, colle braccia tese continuò: «se non fossero questi ferri, mi pare che le getterei le braccia al collo, ed ella non se lo avrebbe a male, poiché è tanto buona, ed io lo faccio per cuore». Le ultime parole di quella scena agitata risonavano così: «Sì, sì. Lucia, addio > disse Geltrude. < Dio la benedica» rispose Lucia. E la poveretta s' avviò per uscire (*). Codesta scena é stata dal poeta profondamente mutata nell' analisi psicologica della monaca traditrice e della sua vittima: tutto quel misterioso discorrere che fa Gertrude di un'impresa tanto difficile, da cui dipendeva la salvezza o la rovina di Lucia^ quello scellerato infingimento di carità e di zelo si riducono al semplice cenno ad «un affare di grand' importanza», pel quale doveva «parlar subito con quel padre guardiano» e in cui é dubbio se c'entrasse la sorte di Lucia; dal contegno stesso della sciagurata di fronte la ritrosia della giovine traspirano «meraviglia» e «dispiacere», stimando ella Lucia «la persona di cui credeva poter far più conto» e sembrandole impresa così facile e tranquilla 1* andar «di giorno chiaro» al vicino convento. Lucia stessa si sente «punta e commossa ad un tempo» alle prime insistenze della monaca, e, alla fine, pe' rimproveri di lei, la seconda, sì, è vero, «commossa più che mai», ma «sbalordita più che convinta» (*). Reso così più riservato e meno perfido il contegno di Gertrude, venuto meno quel motivo pateticamente suggestivo, ch'ella metteva innanzi per ingannar Lucia, anche questa non si ripresenta più, nel finale svolgimento della scena, tutta intenerita di riconoscenza e dogliosa delle prime (1) Sp. prona., pp. 322-3. (2) Prom. sp., cap. XX, pp. 293-4. ripulse e sollecita di obbedire. A queste variazioni d'affetti e d'atteggiamenti ha contribuito non solo il proposito di conseguire gli stessi effetti di verosimiglianza e la stessa efficacia di rappresentazione con modi d'arte più sobri e sereni, con un contrasto e un graduale trapasso di sentimenti più chiaro e più semplice, ma pur quello (e lo vedremo nell'analisi del carattere di Gertrude) di stingere alquanto il colorito troppo acceso, ond'era figurata la perfidia della monaca, di attenuare la ripugnante impressione ch'ella faceva aggiungendo alla complicità del tradimento, in cui la sua debole volontà era trascinata da una passione più forte di lei, la scellerata suggestione di una falsa carità. E, di conseguenza, ne veniva riformato il carattere di Lucia secondo l'intento di effigiarlo più raccolto e contenuto che non fosse nella prima concezione, delicato, ma scevro di svenevolezza, puro e forte negli affetti, ma senza appassionati abbandoni. * * * V. Quell'intenerimento lagrimoso dì Lucia, quell'impetuosa fiducia «sicura, intera, amorosa», mista di riconoscenza e d'umiltà, che la trasporterebbe, se potesse, ad abbracciarsi la perfida complice di Egidio sono tratti eccessivi, coi quali, se il Manzoni ha ottenuto di dare vivo risalto al ritratto di due anime tanto diverse e al contrasto tragicamente doloroso tra l'ingenua fiducia di Lucia e l'iniquo agguato già tesole, non ha evitato, però, quella patetica drammaticità che era così disforme dalla sua estetica e così aliena dalle alte e serene prove della sua arte meditata e matura. E che il Manzoni mirasse nella rielaborazione del carattere di Lucia a spogliarlo d'ogni elemento patetico o troppo pittorescamente drammatico, ne fan testimonianza il rapido racconto della separazione di lei dalla madre a Monza, la descrizione del viaggio che le fanno fare i suoi rapitori sino al castello dell' Innominato, quella dell' angosciosa notte ch'ella passa chiusa lassù e altri episodi che più innanzi esamineremo. La scena di quella separazione è un piccolo episodio così nella minuta come nell'ultima redazione; ma in questa ha il poeta efficacemente condensato ciò che in quella aveva analiticamente diffuso: al dolore di Lucia ha dato un più composto atteggiamento che non avesse fatto prima dipingendolo come inquietudine accorata, tenerezza dogliosa e convulsa (*). (1) Prima leggevasi: «Lucia, alla quale i pericoli passati, la fuga, il trovarsi come smarrita lungi dalla sua casa fra gente nuova, il timore continuo di peggio Il lungo episodio del ratto non presenta dì gran differenze tra l'una e l'altra redazione nella dipintura dell'animo di Lucia avviata al convento, nel racconto de' terribili patimenti di lei durante il viaggio fra i bravi dell' Innominato, ne' dialoghi della poveretta con quei tristi guardiani. Nella minuta, con quell'arte esuberante e diffusa per soverchio di particolari analitici e vivacità di colori che la caratterizza, il Manzoni ci dipingeva Lucia incamminata verso la porta del borgo «con grande attenzione, con gran riserbo, con gran battito al cuore, tutta raccolta in sé» e poi, nel percorrer la strada maestra, pentita «quasi di essersi tanto rischiata >. Quando vide in mezzo la strada solitaria una carrozza da viaggio ferma e accanto ad essa, davanti lo sportello aperto, due «uomini che guardavano su e giù per la via incerti del cammino», Lucia -- narrava il Manzoni -- «per quella presunzione comune che coloro i quali vanno in carrozza sieno galantuomini, si sentì tutta rincorata, e le parve d'aver trovata una salvaguardia, alla metà appunto del cammino, nel luogo più lontano dall'abitato, e dove il bisogno era più grande. Continuò adunque più animosamente a camminare» (*). Nel testo definitivo la figurazione di Lucia in quella contingenza procede con tocchi più sobri e con più ordinata analisi delle affezioni dell' animo suo: eccola uscita dal chiostro «con gli occhi bassi, rasente il muro >; eccola fuori del borgo per la strada solitaria: e allora va «tutta raccolta e un po' tremante» e la paura le cresce per via; vede quella carrozza e «sì rincora alquanto» (*). Il quadro è isveltito, proporzionato nel disegno, armonico e misurato ne' rilievi: la figura di Lucia in naturale atteggiamento di trepidazione crescente, ma senza eccesso, riconfortata alquanto alla vista della carrozza, senza sentirsi rincorata del tutto, come portava la minuta, nella quale quello spiegare il coraggio, che le torna al cuore, col volgare pregiudìzio sulla gente che va in carrozza, se vuol servire, nell'intenzione dell'autore, a motteggiar ironicamente avevan restituita quasi tutta la timidezza della infanzia, aveva più volte afferrata la gonna della madre per non lasciarla partire, aveva pianto, pregato, ma finalmente stanca essa pure dell'incertezza, e più ansiosa di saper qualche cosa di quello [chel non ne confessasse, rassicurata dal trovarsi in un asilo così guardato e santo s'acquetò» (Sp. prom., p. 298). E ora si legge: «Per Lucia era una faccenda seria il rimanere distaccata dalla gonnella della madre; ma la smania di saper qualche cosa, e la sicurezza che trovava in quell'asilo cosi guardato e sacro, vinsero le sue ripugnanze» (Prom. sp., cap. XVIII, p. 268). (1) Sp. prom., pp. 327-8. (2) Prom. sp., cap. XX, p. 295. sui signori e sull'ossequio delle folle, conferisce a Lucia una nota d'ingenuità contadinesca, che non è nella natura candida si, ma non infantilmente rozza della vera Lucia, che sempre meglio si venne chiarendo nella coscienza poetica del Manzoni. L'incontro con quei misteriosi viaggiatori, il ratto, il terrore, l'angoscia di Lucia, cacciata nella carrozza, i suoi primi sforzi disperati per uscirne, la perdita de' sensi, tutto ciò è sceneggiato con egual gagliardia nell'una e nell'altra stesura, ma con più rapida speditezza ed efficace nitidezza di stile nell'ultima (^). Il risveglio, le affannate interrogazioni e preghiere rivolte a' suoi rapitori, le risposte loro hanno avuto tocchi d'arte più delicata, senza perdere d'efficacia drammatica. Eravi nella minuta qualche colorita pennellata alle parole e agli atti di Lucia e de' bravi, che non ritroviamo più nell'ultima redazione: tocchi rapidi, ma vivi, donde risaltava in più lugubri riflessi il dolore della vittima e lampeggiavano strani bagliori sull'anima di quei malandrini. Lucia, infatti, dopo il ritorno de' sensi implorava «con voce soffocata dallo sdegno e dallo spavento», e usciva contro i suoi oppressori in questi forti accenti: «ricordatevi dell' inferno, ricordatevi della morte >; poi ritentava gli animi degli sgherri in tono supplichevole; da ultimo, «perduta ogni speranza di soccorso umano >, si rivolgeva a Dio (*). Nella definitiva redazione dell'episodio il Manzoni ha abbreviato il dialogo, senza togliergli vigorìa ed efficacia; ha soppresso quella fugace nota psicologica alla voce di Lucia e quel triplice «ricordatevi», facendo balzare dalla stessa vigoria drammatica del dialogo l'anima di Lucia, atteggiata di un dolore fiero senza risonar di quel minaccioso memento, non meno terribile del «verrà un giorno» di fra Cristoforo. C'è più dignità e forza in Lucia nell' ultima sceneggiatura, e per tutto lo svolgimento della scena è conservata l'austerità tragica della situazione, che nella prima stesura era turbata da qualche nota scurrilmente comica. Lucia diceva, dopo queir interrogare affannoso: «voglio andare al convento dei cappuccini»; e il capo de' ribaldi rispondeva sogghignando: «Ohibò ohibò, che le ragazze non istanno bene coi cappuccini». A quell'impetuoso memento di Lucia, quello stesso motteggiava con schernitrice ironia: «Pensieri tristi, voi ci volete far malinconia, e noi vi conduciamo a stare allegra». C'era qualcosa dello spirito pittorescamente beffardo de' volgari delinquenti sha (1) Sp. prom., p. 329; Prora, sp., cap. XX, pp. 295, 296. (2) Sp. prom., p. 337-9. kespeariani in quelle mosse e parole dell'iniqua masnada. Poi la compassione pigliava anche le loro animacce alle supplicazioni della poveretta; ripetevano: «? non possiamo ?, commossi alquanto da quel lamento»; il capo «si stringeva contro la carrozza, lasciando più spazio a Lucia, perchè stesse meno disagiata, perchè non fosse oppressa da una vicinanza ch'egli stesso sentiva in quel momento quanto dovesse essere incomoda e ributtante. Gli altri due, si andavano pure restringendo dal loro lato, facendo luogo a Lucia, e tenendosi come in distanza stornando gli occhi da quel volto accorato», per quanto fossero «fermi nel loro atroce proposito di eseguire la commissione; come il villanello -- soggiunge con bella similitudine il Manzoni -- che a fatica si è arrampicato suU' albero per togliere un uccelletto dal nido e lo tiene nelle mani, e lo sente dibattersi e tremare, e sente il cuore della povera bestiola battere affannosamente contro la palma che lo stringe, prova pure qualche pietà: allenta le dita alquanto, per non affogare la povera bestiola, per non farle male; ma aprire il pugno, lasciarla tornare al suo nido: oh no ! Il figlio del padrone gli ha chiesto l'uccelletto, gli ha promesso una bella moneta, s' egli sapeva snidarlo e portarglielo vivo (*)». E, mentre Lucia recitava sommessamente il rosario^ e i bravi tacevano, guardando di tratto in tratto quello ch'ella faceva, e sospirando tutti il fine di quella spedizione» ('). Nel rilavorare codesta scena il Manzoni ha avuto, soprattutto, la mira di raggiunger maggiore efficacia col rendere più sobrio e rapido il dialogo, più stringata l'analisi psicologica de' personaggi in azione. Ha, poi, purgato di quelle triviali facezie e di altre consimili (^) i discorsi de' bravi, perchè -- dice un maestro di studi manzoniani -- «turbavano il color patetico della scena» e ne veniva intrecciato «troppo crudamente al tragico il comico» {*). Io osservo, però, che quella scurrilità loquace era temperata dall' insolita compassione e dall'impazienza, non ignobile, di veder finita la pena e lo strazio di quel lungo viaggio e che tale contrasto dell' abitudinario cinismo d'anime rotte ai delitti e alle soperchierie con quegli insoliti atteggiamenti di riguardosa pietà non solo rispondeva ad (1) Sp. prora., pp. 338-9. Il D'Ovidio (N. st. manz. cit., p. 520) osserva che quel «paragone è largamente e delicatamente svolto, e ci si sente il poeta». Giusto, ma la dizione pecca di sovrabbondanza e di prolissità. (2) Ivi. (3) Alludo al futile scherzeggiare, che fanno i bravi, sull'aceto che ci vorrebbe, per far rinvenire Lucia, sul bel fiasco di vino che hanno seco e sulle mariuolerie degli osti che danno aceto per vino (Sp. proni-, pp. 329-30). (4) V. F. D'Ovidio, N. st. manz. cit., p. 517. una felice intuizione di quel guazzabuglio interessante che è il cuore del delinquente, ma ingrandiva la figura di Lucia, se il suo aspetto ineffabilmente doloroso smorzava la befiFa sacrilega sulle labbra de' suoi carcerieri per ridurli taciturni e pensosi. Perchè dunque il Manzoni ha modificato il contegno di quella gente, sopprimendo ogni nota o particolare, che ne ritraesse qualche aspetto o momentaneo sentimento dell'anima? Ai sogghigni e ai motti triviali die' un frego per la tendenza -- da me altrove già notata a proposito della figura dell' Innominato, e pur testé da altri rilevata e illustrata acutamente -- a rendere nella nuova forma del romanzo anche «la rappresentazione dei malvagi più composta e più grave, per quella più seria» e quindi «più artistica considerazione del male», per quella «più elevata concezione del biasimo morale» onde il Manzoni ha nuovamente meditato e riplasmato il suo mondo, come gli si presentava uscito dal primo getto ('). Codesto mutamento psicologico nel ritratto de' bravi portava seco l'eliminazione d'ogni nota di pietà analizzata e descritta, che, se fosse rimasta così sola, senza il contrasto de' cinici motteggi, avrebbe riflessa in quelle contingenze una luce troppo bella sui rapitori di Lucia, superando le intenzioni stesse -- serenamente severe -- del poeta. Ma vi contribuì -- io penso -- anche un' altra ragione psicologica ed artistica, quella di riserbare alla scena, in cui il Nibbio rende conto del ratto e del viaggio all' Innominato, la vivacità e freschezza di un inatteso sfogo sentimentale del malandrino, quand' egli confessa al suo signore d' aver provata «compassione»: la quale scena avrebbe perduto d' interesse se il Manzoni -- come aveva fatto nella prima stesura -- avesse anticipata l'analisi della pietà sentita dai bravi. La descrizione di quel viaggio volge rapida alla fine nel testo definitivo, quando, dopo più di quattr'ore di trotto serrato, sul tramonto la carrozza spunta nella valle ed è scorta dall' Innominato, che attende irrequieto da un'alta finestra del suo castellacelo (*). Ma, nel primitivo disegno, era diversamente condotta: dopo due ore di viaggio, quando il sole declinava verso l'orizzonte, la carrozza giungeva alla riva dell'Adda; tre bravi insieme con una vecchia uscivano da un battello fermo presso la sponda; la vecchia s'avvicinava a Lucia e con l'aiuto de' bravi la faceva entrar nella barca, che, dopo due ore di remeggio, sul precipitar della notte, approdava (1) Cfr. i miei Saggi cit., p. 26 e segg. e A. Momigliano, op. cit., pp. 68, 73. (2) Prom. sp., cap. XX, p. 298. all'altra riva, e Lucia «sbigottita tremante», non sapendo «più in che mondo si fosse», era messa in una lettiga e portata in castello (*). Questa seconda e diversa parte del viaggio non fa l'impressione di superfluità o di lungaggine, che il freno dell' arte consigliasse a sopprimere, perchè variava bellamente il racconto, rilevava la nuova commozione ond'era scossa la povera Lucia ai segni scambiati tra loro dai bravi della barca e della carrozza e al loro affaccendarsi per tirarla fuori; analizzava con felice intuito quella nuova impressione d'orrore della poveretta al pensiero d'esser trascinata, chi sa dove, nell' uscire dalla carrozza, che «per quanto orrenda le fosse, le pareva un asilo poiché vi aveva passate due ore», e accresceva il patetico della scena con quel tocco d'arte efficace all' «accoramento» che «le tolse anco la forza di gridare» quando, all'entrar nel battello, alzati gli occhi, «vide al disopra della cima dei monti la cima tagliata a sega del Resegone, alle falde del quale era la sua casa, dov'era sua madre, dove aveva passati i primi suoi anni nella pace». E perchè dunque il Manzoni ha mutato nel noto modo le line di quel viaggio? Per un complesso di motivi e di circostanze generali connesse col rinnovamento del carattere de' personaggi e coi procedimenti narrativi e descrittivi dell' arte sua. Nel rifare il carattere dell' Innominato, piacque al Manzoni presentarcelo nella scena ritto là, alla finestra del suo castello, in aspettazione inquieta e ansiosa, turbato in modo insolito all'avvicinarsi della carrozza, già quasi disposto a dar l'ordine di voltare e condurre, senz'altro, la rapita al palazzo di don Rodrigo, ma trattenuto da quel primo «no imperioso» che gli risuona nella mente (*); gli premeva di tratteggiare, in quel rapido scultorio colloquio del signore con la vecchia, l'agitazione acre, come di un monito oscuro, che gli dava l'arrivo di quella povera vittima (^); doveva, per conseguenza, conferire alla vecchia un contegno delicato e benigno (*), più che non era nella minuta, conforme l'ordine di farle coraggio, datole dal padrone. Essendo, dunque, l'episodio dell'incontro delia vecchia con Lucia, subordinato alla situazione psicologica e drammatica che il Manzoni creò come preludio alla grande scena dell'incontro dell'oppressore con l'oppressa e all'epica descrizione della notte tormentosa, queir incontro e le parole della vecchia e le nuove affezioni dell'oppressa e le sue reiterate preghiere non po (1) Sp. prom., pp. 339-42. (2j Prom. sp., cap. XX, pp. 298-9. (3) IMd., pp. 299-300. (4) Prom. sp., XXI, pp. 301-2. tevano aver luogo che nelle circostanze e ne' modi che osserviamo neir ultimo definitivo disegno del racconto. Conseguentemente non poteva più reggersi la narrazione, com'era prima, del lungo tragitto di Lucia in barca con la vecchia, mandata a riceverla, unitamente ai bravi, e l'aspro, duro discorrerle di quella megera, e tutto il resto che ne seguiva. C'era, poi, in quell'episodio del lungo, penoso viaggio, oltre il senso tragico della scena, qualche cosa di romanzesco e di pittoresco: «quel rumore crescente» come «d' acqua rapidamente corrente», quel battello alla riva, l'apparir di altri ceffi in mezzo alla deserta campagna boschiva, l'inflessibilità rude della vecchia, la vista de' nativi monti lontani, l'approdo al calar delle ombre notturne, tutti elementi d'arte descrittivi e rappresentativi che per quel più sereno e più. profondo sentimento poetico con cui rivide e riatteggiò ne' posteriori rifacimenti le anime e le cose del suo romanzo, il Manzoni non esitò di cancellare, e solo in piccola parte ha conservato, come il trasporto di Lucia accompagnata dalla vecchia sino al castello e i loro discorsi, ma con più nobile concezione e più limpida e pacata rappresentazione e de' caratteri e de' fatti. Neil' incontro di Lucia con l'Innominato e nel contegno e nelle parole di lei di fronte al suo tiranno (*) il carattere -- a guardar certe sfumature del dialogo, che s' anima vivace tra i due, e alcuni tocchi che ne scolpiscono i moti dell' animo -- ha subito una lieve modificazione ne' rifacimenti ulteriori, conforme la concezione dello spirito di carità e di candore di questo personaggio, -- via via più chiara e più alta^ -- che, come abbiam visto, s'era venuta formando nella coscienza poetica del Manzoni. Al comando, detto «con tuono minaccioso» dal tiranno, di lasciarsi vedere nel viso che l'infelice teneva nascosto tra le mani, ella aveva un immediato scatto d' «indignazione disperata», mista a paura; la prima forte battuta della scena suonava in quelle parole: -- «Che male gli ho fatto io» -- ? Quel viso, al primo incontrarsi e osservarsi tra l'oppressa e l'oppressore, ci ritorna dinanzi, nell' ultima forma dell' episodio, ma «turbato dall'accoramento e dal terrore», e le prime parole di Lucia, dette con lo sguardo atterrato, suonano diversamente: * Son qui: m'ammazzi». Dirà, sì, anche le altre: «perchè mi fa patire le pene dell'inferno? Cosa le ho fatto io»? con quel medesimo misto di paura e di «sicurezza dell'indignazione disperata»; ma dopo che lo sconosciuto signore le avrà ripetuto «con voce militi) Sp. proni., pp. 344-5; Prom. sii., cap. XXI, 304-5. r^' gata»: «non voglio farvi del male >, È una sfumatura: ma non isfugga, nel mutato atteggiamento di Lucia al vedersi dinanzi il suo tiranno, quel colorito di una più accorata umiltà, quel più forte abbandono al destino che viene dalla rassegnazione cristiana; e, considerando come quell'apostrofe franca, che ha il suono d'un' accusa perturbatrice, succede alle rassicuranti parole dell'oppressore, non isfugga neppure la gradazione de' sentimenti e delle emozioni, osservata con fino occhio di psicologo. Ma che nella Lucia del primo getto ci fosse qualche nota aspra, qualche lieve tinta torbida, qualche fuggevole tono d'austerità minacciosa che soffogava alquanto quella vivida, candida luce di carità, cosciente e operosa anche negl'ingiusti patimenti, che emana dalla rinnovellata Lucia del capolavoro, è provato da un altro, non meno drammatico, dibattito del dialogo. «Oh non mi faccia più patire così >, riprendeva Lucia: «Dio glielo potrebbe rendere un giorno». L'Innominato se ne risentiva, intendendo bene in quelle parole un rinfaccio, una minaccia; e Lucia non ne distruggeva l'impressione, poiché alla rude domanda di lui: «Dov'è questo vostro Dio?» rispondeva, più tenue sì, ma non meno severamente solenne: «E da per tutto, è qui: è qui a vedere s' ella si muove a pietà di me^ per usarle pietà in ricambio^ un giorno». La Lucia de' Promessi sposi, più moderata e, quasi direi, più raccolta nel suo dolore, dice: «Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In nome di Dio....»; r Innominato interrompe con parole quasi simili a quelle della prima stesura, turbato solo dal sospetto d'essere minacciato in nome di Dio: «Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi»?. Al che la poveretta in un impeto d' umile carità per sé e pel suo oppressore esce in quelle sublimi parole: «oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia?» «Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia» ! Quell'ombra di profezia ammonitrice, quel richiamo aperto a Dio e aspettante la pietà ripatrice dell'uomo, si sono dileguati: c'è sì l'aspettazione ansiosa di Lucia, ma quello che primo suonava ammonimento, sia pur benigno, nelle sue parole, si è sublimato in promessa ed augurio della misericordia divina pel suo persecutore. La figura, dunque, di Lucia^ anche in questa nuova e più dolorosa vicenda della sua storia, s' è venuta ingrandendo e purificando attraverso l'elaborazione poetica che vi esercitò l'autore. Ma l'esempio più osservabile di ricostruzione psicologica e di rifusione e purificazione fantastica è la descrizione della notte di Lucia passata nel castello dell'Innominato, Su questo proposito scrivevo altrove: «Il Manzoni rilavorò attorno alla prima figurazione dell' angoscia e della pia offerta di Lucia con rinnovato spirito d'indagine psicologica e con più profonda comprensione etica di ciò che rappresentava....: non ha fatto soltanto un lavoro di rifacimento formale, di chiarimento della materia, di parziali sviluppi o di parziali abbreviazioni; ma, rivedendo in un momento di più serena e profonda meditazione r intimo dramma di Lucia, lo ha risentito e fantasticamente riflesso in un'armonia nuova di sentimenti e d'atteggiamenti (*). Si veda la prima parte della descrizione, dove la poveretta era assalita dalle memorie de' patimenti dell' «orrenda giornata» trascorsa e alternatamente sperando, disperando, pregando, era presa da «una febbre violenta > che le suscitava un rimescolio, una confusione d' idee, ond' era temperata, per l'oscurarsi della coscienza, queir angoscia mortale; e si confronti con la nuova e definitiva forma, che ricevette nel romanzo (*). Il poeta -- notavo -- «ha ricomposta e rifusa, rimartellata e rifoggìata la materia del primo getto, così da raggiungere un armonico svolgimento ed equilibrio d'impressioni, d'immaginij di linee, di luci. Nella prima foga la fantasia, più agitata dalla materia che capace di dominarla, ha visto come in confuso e come per momenti discontinui e aspetti frammentari la realtà afiettiva, presa a rappresentare, cioè il terrore e il dolore di Lucia; ha intravisto, sì, il ritmo lirico di quell'angoscia^ ma non ne ha colta la vera nota dominante, che è un tragico crescendo dalle «memorie dell'orribile giornata trascorsa > ai «terrori dell' avvenire»; ed ecco prevalere nel primo disegno del quadro i particolari realistici, l'enumerazione analitica, quell'ansito lirico vivace, sì, ma rotto, frammentario e alquanto melodrammatico de* primi periodi e quella finale rappresentazione calda, vorticosa, condensata, in cui s'accendono, anzi si urtano insieme, lo spavento, la speranza, la disperazione, la preghiera in una confusione, quasi, de' sensi, agitati da febbre violenta (')». E soggiungevo: «Ha qualche cosa di veemente, di violento, nel giro chiuso di un affannoso lirismo, questa pagina del primo getto, che descrive l'animo di Lucia poco prima del voto. Al contrario di moltissimi luoghi degli Sposi promessi, non ci sono stenti, né deficienze di lingua, non fiacchezze corrive di linguaggio, nulla di qu«l non so che d' informe, di grossolano e appczzato che comunemente (1) V. Saggi cit., p. 36. (2) Sp. prom., pp. 346-7; Prom. sp., cap. XXI, pp. 308-9. (3) Saggi cit., pp. 37-8. presentano gli abbozzi de' capolavori e anche questo del romanzo manzoniano nella sua forma generale; eppure è profonda, più che non appaia, la differenza tra la prima dipintura e quella rinnovata dall'ultima fatica dell'artista: è differenza che tocca l'intima spiritualità della scena, la figurazione estetica di Lucia >. In quello stato di febbre violenta e di parziale smarrimento della coscienza Lucia ci pare «ideata al soffio di un romanticismo lugubre e acceso, di cui non v' ha quasi traccia nella classicità serena, riflettentesi dalla compiuta e definitiva forma» de' Promessi sposi. E veramente in raffronto con la prima maniera la descrizione di quell'angoscia notturna ha nel romanzo ordine, spirito e splendore nuovi. La dirittura logica inflessibile, propria dell'arte grande del Manzoni, ordina e conduce i trapassi dall' uno all' altro stato d'animo, dall'uno all'altro sentimento, improntandone l'analisi di splendida naturalezza. In quell'abbandono de' sensi, che quasi sembra l'ultimo guizzo d'una vita mortale, noi sentiamo, per contro, una preparazione ai solenni richiami dello spirito profondo: da prima una voce indefinita come «una chiamata interna» riscuote Lucia, le fa sentire il bisogno di ripigliare la sua coscienza; ma che ne può seguire se non una più lucida visione dell'orribile suo stato e del suo forse più orribile avvenire? Ed ecco che come nel primo momento s'applicava spontaneamente ai dolorosi pensieri, via via con distinta vicenda rampollanti dall' orrore della scorsa giornata, dallo spavento di quell'abbandono, dal terrore dell'imminente avvenire, e si dibatteva contro di essi, ora è assalita da tutti «in una volta, > simultaneamente, per cresciuto vigore di percezione e di immaginazione. E' una gradazione crescente di sentimenti e di commozioni che la fantasia meditativa del poeta ha intuita approfondendo l'intimo dramma affannoso di Lucia. Questo è giunto al supremo momento di una risoluzione necessaria: ne seguirà che o quel cuore, preso da nessun altro desiderio che di morire, si spezzi, o, risentendo la «misteriosa chiamata interna» onde prima s'era scosso alla coscienza della realtà, si sollevi ad e un' improvvisa speranza» neir atto di raccogliersi nella preghiera. E Lucia prega, e pregando sente crescere in sé la fiducia, finché «tutt'a un tratto" > le sorge in mente l'idea del sacrifizio: fatto il voto con la nota invocazione alla Madonna, si rimette a sedere a terra, più fiduciosa, e verso l'alba s'addormenta tranquilla. La prima stesura procedeva nella descrizione con fare più asciutto -- frettoloso. Il raffronto delle due redazioni anche per questa parte comprova -- dicevo altrove -- quale «opera dì ricostruzione, di svolgimento psicologico e di rinnovamento fantastico esercitasse il vigile e paziente poeta attorno a queste sue pagine migliori. Ecco: la preghiera, che è come l'alba spirituale, annunziatrice della speranza, si mescola, nella prima stesura, al tremito della persona, ai tentativi, che fa Lucia, di ripigliare animo, agli abbandoni della disperazione; è come lo sfogo di un abitudinario bisogno dello spirito, che partecipa dello stato generale di turbamento e d'affanno, né per esso cessa il combattimento dell' animo, che anzi sopraffa le forze del corpo, e la coscienza ne resta mezzo oscurata. Nell'ultima stesura del romanzo quella preghiera di Lucia ha una contenenza e una portata diversa: non accompagnata da altre affezioni, interviene per prima a risolvere la crisi tragica di quell'affanno che non lascia nell' animo atterrito altro sentimento che il desiderio di morire: è veramente una luce nuova che la povera oppressa accoglie in sé con piena coscienza risentendone un immediato ristoro neir «improvvisa speranza >. Qui la preghiera ha la forza di un motivo psicologico svolto in tutta la sua pienezza, come non è certamente nella minuta; ha, poi, nell'ordine armonico de' sentimenti e delle commozioni che Lucia prova in quella notte, una significazione morale che, se pur c'era nella mente del Manzoni, quando immaginò nel primo disegno la prigioniera in atto di pregare, vi si riflettette in modo troppo vago ed adombrato. Il significato morale, a cui converge questo primo momento di preparazione allo scioglimento del dramma mortalmente affannoso, è in quella nuova forza che cresce in cuore della pregante, in quella «fiducia indedeterminata > che è già uno stato così profondamente diverso dal desiderio, poc' anzi sentito, di morire. E -- notiamo -- ancora non è sorto il pensiero del voto. Nella prima redazione nemmeno questo momento psicologico, della fiducia, è a posto, essendo determinato semplicemente dal proposito di fare il sacrifizio dell' amore: è un' impressione riflessa da un pio pensiero, logica sì, ma senza la freschezza sentimentale che le sarebbe venuta dall' atto compiuto, e cioè dalla preghiera e dal voto proferito. Dovette il Manzoni meditare o almeno, nella ricreazione fantastica, intuire questa verità psicologica, poiché nel rifacimento, soppressa quella relazione della fiduciosa speranza con la pura idea dell'offerta, fé' procedre per gradazioni il mutamento dell' animo di Lucia in accordo con gli atti ch'ella compie: così dapprima la preghiera genera una fiducia ancora «indeterminata», ma il voto adempiuto fa nascere poi una fiducia «più larga», riposando l'anima in «tranquillità» e quiete. Medesimamente quelle parole di speranza, dettele dal signore del castello che nella prima redazione s'intromettevano «di quando in quando» fra i dolorosi pensieri per svanire davanti alla più forte immaginazione di un avvenire orrendo, ora più acconciamente le tornano alla memoria e con ben altro effetto. Anche questa variazione ha un valore psicologico che non poteva sfuggire all' acuto Manzoni: non che sconvenisse quel ricordo dov'era nella prima stesura, perchè fra le confuse memorie di quella giornata e come per un bisogno di refrigerio in quella grande angoscia potevano ben risorgere in mente a Lucia le parole buone dell'Innominato, ma l'averne collocato il ricordo, nell'ultima redazione, dopo la dichiarazione del voto, come quello che con più viva fiducia poteva rifiorire dall' anima tranquillata, è in perfetta coerenza col modo nuovo con cui il Manzoni ha descritto il precedente stato di Lucia» tutta dominata dagli «orrori veduti e sofferti» e dai «terrori dell' avvenire >, e conferisce a quella pur vaga, ma non vana promessa» pel modo e il momento in cui è rievocata, un significato profondo, come se un misterioso vincolo, preparato dalla Provvidenza, legasse quel «domattina > con la solennità del voto e con la nuova fiducia eh' è entrata nell'animo di Lucia. E che a questo mirasse il grande poeta cristiano s'intende da ciò ch'egli ha aggiunto: «le parve di sentire in quella parola una promessa di salvazione». Il finale della descrizione è anche più sostanzialmente diverso nelle due redazioni. Lucia, nella prima, dopo il voto si sentiva, sì, «come racconsolata», ma passava * il resto della notte in un letargo febbrile, interrotto da sussulti e da vaneggiamenti». E questo un tratto d' impeccabile coerenza artistica col resto della rappresentazione, poiché la «febbre violenta», ond'eran prese le forze del corpo, e la sovraeccitazione della mente non potevano che spossarsi in un letargo febbrile. Ma nell' ultima redazione, modificato lo stato psicologico, così che l'angoscia di quella poveretta non si acuisca nello spasimo della febbre e delle forti immaginazioni, ma quasi s'acquieti in un accorato desiderio di morte, il Manzoni sapientemente mutò gli effetti della preghiera e del voto, sostituendo ai vaneggiamenti e ai sussulti un'improvvisa e quasi sacra pace dello spirito, un lene riposo de' sensi in «un sonno perfetto e continuo»: pace e riposo che riempiono di pia solennità quel luogo e quelr anima nel declinar della notte e fanno presentire la maestà divina di un grande evento al levarsi del nuovo sole». Il risveglio di Lucia è descritto nell'una e nell'altra redazione in modo conforme alla rappresentazione di quell'orribile notte: nella prima ella non ci appariva desta perfettamente da quel e letargo agitato da sogni tormentosi e da risvegliamenti più tormentosi ancora >; nella seconda si risente a poco a poco, ma infine si desta tutta dal «sonno» e, se «torbide visioni» aveva avuto dormendo, tuttavia ritorna faticosamente sì, ma con chiara e viva coscienza, alle memorie e alle immagini della trista realtà, mentre nella prima perdurava la sovraeccitazione febbrile anche dopo il risveglio -- «le memorie, i timori, le speranze si agitavano e si succedevano nella sua mente con quell'impeto volubile, con quel vigore incerto dei sogni > ?, e lo stato d'abbattimento e d'estenuazione pei «travagli», il «digiuno > e la «febbre» «non concedevano allo spirito il pieno esercizio della coscienza, È codesta una Lucia, ideata, direi quasi, al soffio di un romanticismo lugubre e acceso, figurata con l'arte piuttosto ansiosa di gettar nel quadro colori forti e di scolpire in risentiti rilievi che non intesa a spargervi fasci di luce e a suscitarne luminosi riverberi. A questo intese il Manzoni nel riatteggiare con classica arte serena Lucia destatasi dal sonno «continuo e perfetto», in cui dopo il voto s'erano acquietati i sensi «afiaticati da tanta guerra». È un soffio nuovo di spiritualità che, involgendo la figura dell'oppressa, la rende nella sua calma dolorosa più alta e solenne. A fermare in pieno e perfetto rilievo questa più pura e più sacra tragicità di Lucia il Manzoni non riprodusse più nel rifacimento dell' episodio le sguaiataggini triviali con cui la vecchia nella prima stesura la tentava e istigava a prendere un po' di cibo e la scurrile scena dell'allegro banchettare eh' ella faceva al sorger del giorno, mentre Lucia se ne stava smarrita e rannicchiata nel suo cantuccio (*). Oltre che nuocere, con l'effetto di un troppo stridente e volgare contrasto, al carattere della scena profondamente dolorosa, erano inutili particolarità di un grossolano e crudo realismo che, a prima giunta, il Manzoni aveva immaginato per fare ostentazione di scrupolosa osservanza della storia e di fedeltà al finto manoscritto dell'Anonimo, che diceva appunto, quasi a discolpa di quelle lungaggini, di voler seguire «in tutto ciò che può essere una rappresentazione del costume» ('). E medesimamente quella digressione sui casi passati e sull'animo della vecchia -- acuta e robusta analisi psicologica, per alcune parti, ma in altre troppo carica di dettagli biografici e folta d'elementi secondari ?, la quale cadeva dopo la (1) Sp. ptom., pp. 396-8, 402. (2) Sp. prom., p. 397. descrizione del risveglio di Lucia, non riappare più in quel luogo, ma, ridotta in forma più succinta e più limpida, è collocata in luogo più opportuno, alquante pagine addietro, al principio del cap. XX, quando l'Innominato dà alla vecchia serva l'incarico di andare incontro alla carrozza e di accogliere con sé nella lettiga e confortare la giovane rapita. Così che il cominciamento della scena della liberazione, sfrondato di quel materiale impacciante e faor di luogo, procede breve e rapido nel testo rinnovato, portandoci innanzi netta e dominante la figura di Lucia, più animata di speranza e di fede nella sua salvezza che non apparisse nella minata, in un atteggiamento vivamente risoluto («io voglio andar via da mia madre, subito, subito» dice Lucia con gran forza), che le conviene perfettamente, ora che nel chiaro risveglio de' sensi e della coscienza si ricorda di quel «domattina», dettole dal signore la sera innanzi^ e ode le nuove parole della vecchia che non leggiamo nella prima redazione: «È uscito; m'ha detto che tornerà presto, e che farà tutto quel che volete» (*). * * * VL La scena successiva della liberazione, che nel testo definitivo, spogliata d'inutili e inopportuni particolari dialogici, procede rapida e lucida nella figurazione dello stupore e dell' ansia di Lucia, della dolce pietà della «buona donna», della discreta premura di don Abbondio, ci presenta, sulla fine -- com'è noto ?, l'uno di fronte all'altra, l'Innominato e Lucia: delicato, profondo nella sua sobrietà d'atti e di parole, codesto episodio del perdono, nel quale il signore convertito grandeggia nella purificatrice luce d' una contrizione latta d'angoscia e d'umiltà né Lucia é meno sapientemente ritratta nell' ingenua vicenda di opposti sentimenti e commozioni che la conturbano e l'esaltano: onde ora che ha «veduti visi e sentite voci amiche», prova un «subitaneo ribrezzo» nel ritrovarsi dinanzi queir uomo, mentre «poco prima lo desiderava, anzi, non avendo speranza in altra cosa del mondo, non desiderava che lui», e si stringe alla donna e le nasconde il viso in seno. Ma, poi, sollecitata, incorata dai presenti, alza la testa e guarda il grande pentito; e, «vedendo bassa quella fronte, atterrato e confuso quello sguardo», udendo l'invocazione accorata di lui: «perdonatemi»!, tutta «presa da un misto sentimento di conforto, di riconoscenza e di pietà», (1) Prom. sp., cap. XXIV, p. 341. esclama: «oh, il mio signore! Dio le renda merito della sua misericordia» (*) ! A questo punto tornano in mente la implorazioni di Lucia rivolte al suo tiranno la sera innanzi, e quelle sue soavi parole: «Dio perdona tante cose per un' opera di misericordia» !, dette con accento di speranza per sé e di carità pel suo oppressore; e s'intende che nella mente del Manzoni il secondo incontro si colléga idealmente al primo, e ne è, ad un tempo, integrazione ed effetto nel progressivo svolgimento psicologico del dramma che involge, indissolubilmente connesse, la sorte di Lucia e quella dell'Innominato e che culmina nella liberazione dell' oppressa e nella conversione dell'oppressore. L'invocata liberazione é conseguita: ma, se è riparazione a un grave torto nel concetto morale della giustizia umana e divina, è opera di misericordia secondo il sentimento di carità che irraggia -- come vedemmo -- dall'anima di Lucia, quale ci appare nell'ultima forma del romanzo. Per dare compiutezza estetica a codesto fondamentale carattere psicologico del suo personaggio, non meno che per la ragione accennata di stretta colleganza ideale tra la scena delle implorazioni e quella del perdono, il Manzoni ha immaginato che sulla soglia stessa della prigione, nell'atto stesso della liberazione, nel punto solenne che il voto viene esaudito e la giustizia trionfa^ Lucia si trovi dinanzi il suo oppressore confuso e invocante perdono e che noo solo apra il cuore al consenso del perdono, in quelle umili e significative parole: «oh, il mio signore» !, ma circonfonda della sua carità il pentito esaltando l'opera riparatrice come adempimento della misericordia implorata. L'anima bella di Lucia, che, vinto l'umano istinto del «subitaneo ribrezzo», si china, ardente di «riconoscenza» e di < pietà», su quella dell'Innominato, travagliata dall'orrore del peccato, dall'ansia dell'espiazione, è la sublime immagine della carità, che non s'inorgoglisce sul potente umiliato, ma la circonda di letizia e di gratitudine fraterna. Se il Manzoni rimeditando l'opera sua ha avvertito -- com' io penso -- tra i due momenti, della liberazione di Lucia e del richiesto e dato perdono, un intimo legame di dipendenza immediata e consecutiva e una ragione comune di opportuno sviluppo de' caratteri e dell'azione, avrà rilevato che l'avere posta, come aveva fatto nella prima stesura, la scena del perdono alquanti giorni dopo, quando Lucia era ormai tornfita al suo paese, ed erano intercorsi vari avvenimenti, spezzava quell'unità psicologica e drammatica delle (1) IMd., pp. 342-3. due scene che, per contro, nel nuovo testo spicca luminosamente. Quanta spontaneità e semplicità nel contegno di ambedue i personaggi in azione presenta la scena nuova! nell'Innominato che, fermo dietro l'uscio, segue col cuore ansioso, quasi direi, intravede le nuove commozioni di Lucia, colpita dall'improvvisa apparizione di una donna dal volto pietoso e di don Abbondio, «anche lui tutto compassionevole >, poi riconfortata dall'annunzio della liberazione, e che, non sapendo contener l'impeto del rimorso, l'impulso della compunzione, s'avanza anche lui, come sospinto da una divina forza irresistibile, e scoppia nell' invocazione accorata del perdono; in Lucia, che, conturbata da opposte affezioni, guarda l'Innominato, ne intende l'angoscia profonda e, in un impeto non meno irresistibile di tenerezza cristiana, gli ristora l'anima con gli accenti della pììi pura carità. Nulla di studiato né di preconcetto in codesta scena fragrante d' umanità: non vi senti alcuna intenzione manifesta di edificazione religiosa, non volute tendenze moraleggianti: è lo svolgimento conseguente di una situazione naturale, nella forma estetica consentanea a sentimenti messi in moto vivo e rapido dallo stesso rapido corso delle cose. Quanto diversamente concepita era nella prima redazione! Il conte, (ovverosia l'Innominato) si presentava a dire a Federigo che in quel «giorno di festa singolare» pel paese di Lucia, a lui neir «allegrezza comune» conveniva fare una «parte ben diversa da tutti gli altri», quella di andare ad umiliarsi dinanzi alla giovane, a ricevere dalla «bocca innocente» di lei de' rimproveri che gli servirebbero «in parte ad espiare» la sua iniquità. E nella casetta di Lucia aveva luogo la scena della riparazione e del perdono. Quale ne è il significato? Quale l'intenzione dell'autore nel farla avvenir© in quel luogo e in quel giorno? Ce lo fa sapere per bocca del cardinal Federigo, che, nell' accogliere con gioia la proposta del convertito, rifletteva che conveniva una «riparazione pubblica e clamorosa», come quella che avrebbe rassicurata e quasi resa sacra, dinanzi al mondo, la persona di Lucia, se mai don Rodrigo fosse tornato a' suoi scellerati disegni; sarebbe stata «un progresso nel bene e una consolazione nello stesso tempo», per l'Innominato, un «conforto», un «rincoramento» per Lucia allo «spettacolo della forza umiliata volontariamente», un segno «del trionfo della pietà» a «edificazione dei buoni» (*). Troppo influiva in codesta primitiva concezione dell'episodio il moralismo religioso dell'autore più che (1) Sp. prom., pp. 457-8. ragioni d' analisi e di rappresentazione drammatica: troppo manifesto era lo scopo d'offrire uno spettacolo solenne della superbia prostrata dinanzi all'innocenza; troppo insistente la cura, quale appare anche da altri episodi e particolari, di ritrarre in ogni sua contingenza la nuova vita di espiazione e di pietà del potente bandito. La tesi morale preoccupava lo scrittore cristiano più che lo studio sereno delle anime; anzi dalla soave fragranza del breve colloquio del conte col cardinale, dal presentarci il conte che «camminava», avviato alla casa di Lucia, «tra una folla di spettatori» «ad occhi bassi, e col vólto infiammato, tutto compunto e tutto esaltato» (*), dalle riflessioni pie, onde l'autore commentava quelr avvenimento (*), da una nota giudiziosa del Visconti (') risulta abbastanza chiara l'intenzione ascetica della primitiva redazione dell'episodio. E conforme codesto spirito ascetico era svolta la scena del perdono, che terminava con la donazione di dugento doppie d'oro (il prezzo della complicità, pattuito con don Rodrigo!), fatta dal conte in persona a Lucia. Che era mai quel dialogo a quattro nel quale Lucia e il conte avevano le prime parti e don Abbondio e Agnese le secondarie -- Una scenetta che non mancava di qualche dolcezza e di un po' di garbo, metteva discretamente in azione i vari caratteri de' personaggi, e dava massimamente un colore spiccato all' umiltà e alla riguardosa verecondia di Lucia; ma -- a parte quel non so che di fanciullesco, di peritoso, di languido che era nel contegno del conte -- Lucia stessa non vi faceva che la figura di una buona figliuola^ anche troppo loquace nel concedere il per (1) Sp. prora., pp. 456, 457. (2) «La forza che, spontanea non vinta, non trascinata, non minacciata, si abbassa dinanzi alla giustizia, che riconosce nella innocenza debole un potere, e domanda grazia da essa, è un fenomeno tanto bello e tanto raro che beato chi può ammirarlo una volta in sua vita. Quei buoni terrieri (in quel momento erano tutti buoni) non si saziavano di guardare il Conte, lo seguivano, lo circondavano in tumulto, lo colmavano di benedizioni. Tanta è la bellezza della giustizia! per tarda ch'ella sia, innamora sempre quando è volontaria: quelli, che dopo aver fatti patire gli uomini si vendicano dell'odio loro che gli tormenta col fargli patire ancor più, non pensano che quell'odio è pronto a cangiarsi in favore [in una variante leggesi amore], in riconoscenza, al momento che una risoluzione pietosa, un ravvedimento anche senza confessione faccia cessare i patimenti» (ivi). In queste ultime riflessioni c'è il germe de' sentimenti e delle sublimi parole con cui Lucia accoglie il pentimento dell'Innominato nel rinnovato episodio dell'ultima redazione. (3) A proposito del colloquio del conte con Federigo osservava: «Lascerei questi due punti: non bisogna poi esser prodigo di riflessioni ascetiche in un Romanzo. Anche per l'edificazione de' Lettori, (non ridere tu, sebbene io rida di me stesso) è meglio presentare più che si può con disinvoltura le idee cristiane * (Sp. prom., p. 456, n. 6). dono (^), e gran parte dell'effetto di quella gara di umiltà tra lei e il signore del castello andava perduta pel prolungarsi di quell'ameno contrasto tra il conte che voleva compensare la giovane con un benefizio, questa che se ne schermiva, Agnese che, al contrario, faceva buon viso alla fortuna e don Abbondio che se ne rallegrava, augurandosi qualcosa di simile da parte del suo persecutore ('). Una lieve venatura d'umorismo s'infiltrava nella voluta gravità della scena, ma era un umorismo alquanto grossolano, anche se serviva a dipingere il carattere di Agnese, più positiva della figlia, e di don Abbondio sempre piagnucoloso per le sue disavventure. Ma non era questo che avrebbe tolto splendore e grandezza alla scena della riparazione e del perdono, se veramente ne avesse avuto; gli è che in quel novello colloquio di Lucia e del signore non risaltava in potente rilievo né la forte pietà religiosa dell'oppressa, né l'ansiosa passione espiatrice dell'oppressore. Altro sviluppo de' caratteri, altro svolgimento d'azione drammatica si richiedevano a rappresentar l'epica grandezza di un così bel dramma cristiano: questo il Manzoni raggiunse col rimutar radicalmente l'episodio nel modo che abbiamo testé esaminato. * * * VII, La figura morale di Lucia nel racconto degli avvenimenti che seguirono alla sua liberazione, é atteggiata nel romanzo con poco divario dalla primitiva dipintura dell' abbozzo; ma variano alcune circostanze e ha nuovo e maggiore sviluppo l'analisi de' suoi sentimenti ed affetti; ond'ella ne esce -- come ora vedremo -- con qualche nota in piìi di gentile nobiltà, di spontanea delicatezza (1) Rispondeva al conte: «S'io le perdono! Dio s'è servito di lei per salvarmi. Io ero nelle unghie di chi mi voleva perdere, e me ne sono uscita col suo aiuto. Dal momento ch'ella m'è parsa innanzi, sentiva in cuore qualche cosa che mi diceva ch'ella mi avrebbe fatto del bene. Cosi Dio mi perdoni, come io le perdono» (Sp. prom., p. 458). (2) Agnese consentiva col vólto alle insistenze del conte; avuto il rotolo, a lui diceva: «Grazie» e alla figlia: «e tu ora non parli bene. Questo signore lo fa pel bene dell'anima sua; e noi poveri non dobbiamo essere superbi». Svolto il rotolo, esclamava: «Oro»!. Don Abbondio soggiungeva: «Vostra madre ha ragione: accettate quello che Dio vi manda, e se vorrete farne del bene, non mancheranno occasioni. Così facessero tutti! Così Iddio toccasse il cuore a qualchedun altro, e gli ispirasse di compensare anche me povero prete, delle spese che ho dovuto fare in medicine per quella maledetta» Voleva dire -- paura -- ma ebbe paura di parlare imprudentemente e si fermò». (Sp. prom., p. 459). Cotale uscita del curato era una goffaggine insipida: si spiega con la primitiva concezione eccessivamente comica di questo personaggio. e di austera pietà. Già vi era un difetto capitale nel primo disegno: mancava quel piccolo ambiente vivo e vario di minori figure, quello sfondo animato di colori e di luci, quel tenue affollarsi di cose e d'anime domesticamente simpatiche che s'addiceva alla nuova condizione di Lucia, passata dall'angoscia e dalla gioia della liberazione, dalle immagini del terrore alle sensazioni del riposo e della tenerezza cordiale. Il pathos tragico delle scene precedenti s'era dileguato per dar luogo a più riposate e dolci visioni e il giubilo universale in quel giorno festivo, accresciuto dalla gran conversione di un temuto oppressore e dalla salvezza di un'oppressa, doveva fervere intorno alla liberata in voci e atti giocondi e gentili: alla crudele tragedia spiccante nelle tre figure, di Lucia «squallida, sbattuta, affannata», dell'Innominato, truce e inquieto, della vecchia carceriera, brutta e ringhiosa, era logico succedesse la commedia gioiosa e soave, in cui è legge dell' arte suscitar movimento d'azione e sceneggiare la vita nella sua bella varietà di temperamenti e di caratteri e a tutto dare anima e luce nell'abbondanza vivace del dialogo. Nella prima stesura codesto ambiente non e' era, e la «buona donna» e il marito di lei, un Tommaso Dalceppo che si trasformerà poi nella immortale macchietta del sarto del villaggio, non avevano anima e vita. Succintamente descritte le accoglienze e la modesta refezione che Lucia riceveva da quei due buoni coniugi, detto in breve come il Dalceppo, tornato tutto entusiasta della predica del cardinale, godesse dell'essere stata prescelta sua moglie a quel pietoso ufficio, commovendosi ai casi di Lucia, e corresse, dopo aver ingollato «un boccone in piedi», al paesello di Agnese, per condurla dalla figlia, il Manzoni faceva che Lucia, per offerta dell'ospite, si ritirasse in un'altra stanza, rimanendo «soletta» co' suoi pensieri, fino all' arrivo della madre (*). Poi con quasi eguale frettolosità descriveva il sospirato incontro con Agnese e il loro colloquio, interrotto dall'avviso che il cardinale voleva vedere la buona donna e Lucia; proseguiva col riferire le inchieste discrete, fatte alla giovine da Federigo in casa del curato di Chiuso intorno alle sue vicende, i ringraziamenti largiti, insieme col dono di uh ornato libretto d'orazioni e di un rosario prezioso alla buona donna, e i conforti dati ad Agnese (*). Se si tolga un buon pezzo di dialogo, in cui Agnese usciva a dire: «Già la colpa in gran parte è del (1) Sp. prom., pp. 41G-9. (2) Sp. proni., pp. 420-22. signor Curato» e il Cardinale domandava: «Come -- di che Curato -- > e quella rispondeva senz'altro: «Oh bella! del nostro >, tutto il resto era narrato, non presentato ne' discorsi e ne' dialoghi de' personaggi come nell'ultima redazione; il che toglieva ogni valore drammatico alle tre scene delle accoglienze di Lucia in casa del sarto, dell' incontro di Lucia con la madre, dell' interrogatorio del cardinale. Queir affaccendarsi premuroso della buona donna, per preparar qualche cosa da ristorar Lucia, quella «certa rustichezza cordiale» con cui questa risponde, il cappone al fuoco, la scodella di brodo, il riaversi della poveretta a ogni cucchiaiata, i confidenti discorsi della padrona di casa sulla discreta agiatezza della famiglia e sui poveri, che per loro in quel giorno speravano di buscar qualcosa dalla carità di Federigo (*); tutto ciò -- altri ha detto egregiamente -- fa «un po' d'idillio che riposa e rallegra il lettore» (^). V'è poi il ritorno della famigliola dalla chiesa, il modesto pranzetto che si godono insieme con l'ospite cara, l'atto caritatevole del sarto di mandare un po' di cibo caldo e di vino alla povera vedova Maria, il pio entusiasmo di lui nel descriver la festa di quel giorno e massimamente la predica del cardinale fra le interruzioni vivaci e saputelle de' bambini: è codesto un pittoresco quadro di caratteri e di costumi condotto con viva arte spontanea, nel quale -- secondo l'arguto giudizio del medesimo critico -- «l'umor gaio del Manzoni, il suo talento d'osservatore, la sua pittorica fantasia, il suo buon cuore, fanno veramente baldoria insieme» (^). E come la stessa intima doglia di Lucia dalla felice elaborazione di queste scene, fragranti di domestica intimità, ha guadagnato di perspicuità e d'efficacia! Nella prima stesura, all' infuori degli aridi accenni alle cure prodigatele dalla buona donna e alle «nuove parole di riconoscenza» con cui accetta l'invito di ritirarsi a riposare, Lucia appare quasi quasi solitaria in quella casa ospitale, tanto è smorto e vacuo l'ambiente che la circonda, sola con la sua gioia «alterata continuamente dalle rimembranza recenti e dai pensieri dell' avvenire» (^). Si vede che il Manzoni nella primitiva concezione dell' episodio non era preso che dalla cura di analizzare lo stato d' animo di Lucia, di studiarne le commozioni nuove in confronto coi mali passati, il trepido pensiero che don Rodrigo tornerebbe forse alle persecuzioni, (1) Prom. sp., cap. XXIV, pp. 348-9. (2) F. D'Ovidio, N. st. manz. cit., p. 552. (3) Ivi. (4) Sp. prom., p. 418. il ricordo, non meno penoso, del voto, misto ad un senso di pentimento^ che non voleva confessare, che anzi combatteva come «orribile sconoscenza», il pensiero di Renzo, che la tentava come un rimedio a tutte le difficoltà e le amarezze del passato, ma che doveva sempre respingere, come «quasi un delitto > ('). Ma anche codesta analisi procedeva alquanto affastellata, e a tinte torbide e gravi: il rammarico pel voto e il rimorso immediato del rammaricarsene dopo la grazia ottenuta erano si rappresentati con vivo rilievo, ma non approfonditi con la finezza consueta all' arte matura del Manzoni, né erano quelle, come, invece, dovevano essere, le affezioni più vive di quel momento, poiché con pari attenzione il Manzoni analizzava la parca gioia di Lucia per l'«inaspettata salute di quel giorno», ma turbata dal risorgere di amari e trepidi pensieri rimasti «sepolti e come soffocati» quando l'animo era occupato da una più «grande sciagura». Belle riflessioni, certamente, sul variar delle nostre gioie a seconda de' mali e de' pericoli, che attestavano le pronte attitudini del Manzoni all'osservazione psicologica e la sua sicura conoscenza del cuore umano; ma ne derivava che in minor luce risaltasse quello che, per riflesso della gioia stessa della liberazione e delle nuove sensazioni, offerte da quell'idillica giocondità d'ambiente, doveva essere lo stato d'animo^ non diremo unico, ma certamente dominante in Lucia, lo sgomento del voto. S' accorse il Manzoni di tale sproporzione psicologica ed estetica nel rielaborare questa pagina del romanzo -- Pare di sì, poiché in quella profondamente rinnovata analisi dell'inquietudine di Lucia non campeggia altro sentimento, altro ricordo che quello del voto, non r amareggia altra commozione che il combattuto sentimento dell' irreparabile offerta. Dove nella prima redazione con certa incresciosa succession cronologica il poeta esaminava da prima quel vago stato di lei tra lieto e tristo pei dolori sofferti, poi quell'apprensione, acuita da sinistre immaginazioni, per la sicurezza avvenire, quindi il rammarichio del voto e infine la rimembranza di Renzo, ond'ella si ritraeva sgomenta come da un malefizio, e ce la presentava in questa vicenda di ricordi e di affetti tutta sola -- come dicevamo -- e chiusa nella stanza offertale dalla buona donna, nel nuovo testo, per contro, la troviamo in mezzo ai famigliari del sarto, commoversi ai discorsi e agli atti loro, ricevere dalle circostanze esteriori, che vivamente r imprcHsionano, eccitamenti a risentire in guise diverse la memoria del voto e le molteplici affezioni che vi si accompagnano. Nel (1) Sp. prom., pp. 418-9. rassettarsi le trecce e il fazzoletto sul seno e intorno al collo, le dita s'intralciano nella corona messaci la notte avanti, lo sguardo vi corre, ed ecco si fa «nella mente un tumulto istantaneo». «La memoria del voto, oppressa fino allora e soffogata da tante sensazioni presenti, vi si suscitò d'improvviso, e vi comparve chiara e distinta» (*). A quella memoria la corona era associata indissolubilmente, poiché Lucia se n'era cinto il collo, dopo il voto in quella notte terribile, «quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un'armatura della nuova milizia a cui s' era ascritta» ("^). E attorno a quel pio simbolo della fede e del sacrifizio di lei fa il Manzoni che le risorga nella memoria, dopo il ricordo del voto, tutta la passione di quella notte. Non subito però; ma dopo che quel ricordo le ha fatto provare tale costernazione da esclamar tra sé: «oh povera me, cos' ho fatto» ! Mirabile svolgimento ed intreccio di motivi, di commozioni, di rappresentazioni, in cui si rinnova il dramma intimo di Lucia, di tragico fatto elegiaco, meno grandiosamente epico che nella notte del terrore, ma più profondamente delicato e irrimediabilmente tormentoso. E che lo stesso Manzoni, rimeditando con nuovo vigore fantastico il tumulto d'affetti che assale Lucia al ridestarsi del pensiero del voto in quella dolce casa ospitale, v'intuisse la forza di un travaglio d'alto rilievo drammatico, lo fa intendere da quelle parole: «se queir animo non fosse stato così preparato da una vita d'innocenza, di fiducia, la costernazione che provò in quel momento, sarebbe stata disperazione» (^). Alla Lucia manzoniana, massime nella forma piti nobilmente elevata, a cui r inalzò il poeta nella rielaborazione successiva alla prima prova, non conviene il volto tragico delle passioni violente, qualunque ne sia il turbamento dell'animo, di terrore mortale, come quand' era in balìa de' perversi, o di rimpianto penoso, cóme è ora che non la tormenta che il pentimento del voto. l'arte grande del Manzoni rifugge dai modi patetici e fragorosi e, se pur anima di .spirito tragico le rappresentazioni della realtà idealizzata, ne esprime i fecondi motivi con quella temperata e composta energia che suole esser più efficace che appariscente. Ecco perchè la costernazione di Lucia in quel momento non ha la veemenza de' dolori disperati. Osserviamo le gradazioni e le vicende dell' intima lotta ch'ella com (1) Prom. sp., cap. XXIV, p. 349. (2) Prom. sp., XXI, p. 309. (3) Prom. sp., cap. XXIV, p. 349. batte. Alla vista della corona, conservatrice della pia offerta fatta alla Madonna, non le si suscita in mente che la memoria dell'atto eh' ella aveva compiuto: è una prima e immediata rappresentazione del fatto; nulla più: è naturale, quindi, che le ravvivate potenze della sua giovane vita, il raccolto godimento della libertà riacquistata, le grate e tenere impressioni della pietà ond'è circondata reagiscano a quel ricordo doloroso, poiché nel rifiorir della vita ci repugna l'idea di dover perdere ciò che si ha di più caro al mondo. Ma poi a quella rappresentazione nel pensiero s'associano le concomitanti condizioni del solenne sacrifizio: «l'angoscia intollerabile, il non avere una speranza di soccorso, il fervore della preghiera, la pienezza del sentimento con cui la promessa era stata fatta >; e allora, pel concorso di nuovi motivi psicologici, quel voto è da lei risentito anche nel valore morale che vi aveva aggiunto nel farlo. Il primitivo moto tumultuoso del cuore si placa in una profonda e calda meditazione: la coscienza morale s'aderge sull'onda de' sentimenti e perciò il pentirsi del voto le pare ingratitudine sacrilega, e motivo «di nuove e più terribili sventure», e la volontà, deliberata a vincere gì' impulsi del cuore, devotamente conferma, rinnova il voto. Ma se la volontà, così nuovamente agguerrita, tiene il campo, non è vinto ancora il sentimento doloroso del grande sacrifizio, onde la poveretta fa quella supplicazione accorata che le sia concessa «la forza d'adempierlo», che le siano «risparmiati i pensieri e r occasioni», le quali potrebbero, «se non ismovere il suo animo, agitarlo troppo» (*). Come si vede, il Manzoni ha intuito con sguardo profondo e rappresentato con sapiente varietà d'ombre e di luci il graduale trapasso dell'animo di Lucia dalla subitanea e sgomentatrice memoria del voto alla riconferma piamente risoluta di esso; ma in quell'accoramento della preghiera ha nel tempo stesso lasciato intravedere che il cuore non concederà lunga tregua alla coscienza fortificata. Divinazione stupenda, che l'anima, la quale, per quanto presidiata di cristiana virtù, non ha potuto, al ricordo di un obbligo, tenuto per sacro, trattenere la voce del rammarico, invano s'illude d'essere uscita dal combattimento. È un moto dell'animo, che, mentre ella trova buon motivo di fiducia e rassegnazione nel considerare che la lontananza di Renzo, senza probabilità di ritorno, fosse una disposizione della Provvidenza coordinata al fine del mantenimento del voto, erompe e ripiglia il vigore del primo sgomento, appena che ella vorrebbe confidare che Renzo non. (1) Ivi. pensasse più a lei. L'immagine del fidanzato, i ricordi di un fido amore, lo strazio di quel poveretto rifluiscono dal cuore e urtano contro la volontà, raflFermatrice del voto: non la sopraffanno, ma la lotta -- noi ben l'avvertiamo -- non è finita. Questo stato di sospensione e di contenuta amarezza che vedremo perpetuarsi come uno stato cronico in Lucia, è tutto in quella finale pennellata gagliarda e armoniosa: «la povera Lucia, sentendo che il cuore era lì lì per pentirsi, ritornò alla preghiera, alla conferma, al combattimento, dal quale s'alzò, se ci si passa quest'espressione, come il vincitore stanco e ferito, di sopra il nemico abbattuto: non dico ucciso > (*). Né il Manzoni cessa, a questo punto, dalla mirabile analisi. Egli, come dicevo, atteggia l'animo combattuto di Lucia in relazione con le impressioni d' ambiente: il piccolo, ma intenso dramma di quell' anima si svolge entro la sfera di cose così belle e varie e commoventi, che ne viene esso Stesso penetrato e colorito: è, così per r indole del personaggio come per la natura della sua intima lotta, una di quelle situazioni psicologiche in cui la vicenda di una nostra passione seconda, per così dire, i movimenti del mondo esterno, anche se questi non siano diretti consapevolmente a modificarla: entra in gioco il potere suggestivo del male o del bene, quello sulle anime fiacche e grette, questo sulle anime forti e pure. Ecco Lucia: i discorsi piamente entusiastici del buon sarto le danno un grande «sollievo», l'atto caritatevole di lui le inonda il cuore di «tenerezza ricreatrice», ond'ella, tornando sopra i «pensieri dolorosi di se», si trova * piti forte contro di essi»; anzi, presa «dall'entusiasmo medesimo del narratore», risente nel «pensiero stesso del gran sacrifizio», insieme con l'amaro, «un non so che d'una gioia austera e solenne». L'annunzio, poi, del prossimo arrivo della madre opera con pari potenza suggestiva di tenerezza e di calma sul suo travaglio segreto. Si ricorda «che quella consolazione allora così vicina, di riveder la madre, una consolazione così inaspettata poche ore prima, era stata da lei espressamente implorata in quell'ore terribili, e messa quasi come una condizione al voto» (*): dal che riceve impulso e conforto a confermare un'altra volta la promessa e a rinnegare un'altra volta il momentaneo pentimento. Se ora poniamo a faccia a faccia la Lucia della prima redazione dell'episodio fin qui esaminato e la Lucia dell'ultima definitiva, e ne riassumiamo mentalmente le differenze, risultanti dalla duplice (1) Ibid., p. 350. (2) Ibid., pp. 352-3. analisi fatta, potremo concludere, come già ho rilevato esaminando l'angoscia di Lucia prigioniera nel castello dell'Innominato, che il Manzoni è pervenuto alla forma piena, nitida e coerente dell'ultima rappresentazione, approfondendo nella sua coscienza di osservatore e di poeta il motivo etico-religioso, ond'egli ha tratto la concezione e la figurazione del carattere del suo personaggio, intendo la carità e la fede, che ne sono gli elementi costitutivi essenziali. Via via illuminandosi, per vigore di meditazione, codesto motivo, vi si è appassionato il sentimento, nel quale è la genesi primordiale d'ogni creazione artistica; e così, per quel misterioso processo onde l'idea si trasforma in uno stato sentimentale, il Manzoni rivide Lucia, chiusa nel suo trepido ricordo del voto, con più pura ed austera ispirazione nella rinnovata analisi psicologica e, seguendone il gagliardo impulso, diede alla dolente figura un atteggiamento di piìi solenne pietà religiosa. Questo ripensamento del motivo etico-religioso del suo personaggio portava, per conseguenza, un maggiore sviluppo psicologico e drammatico del carattere; il che dà ragione della piti profonda e sottile analisi a cui il Manzoni ha sottoposto nel rifacimento dell'episodio l'interno combattimento di Lucia, e, d'altra parte, spiega perchè ne abbia eliminati certi elementi secondari ed eterogenei (*), che distraevano dalla contemplazione di quello che era il punto centrale del piccolo dramma: lo sgomento del voto. Non voglio negare che la situazione, nella prima stesura, era stata tracciata e scolpita con acume e vigore; ma aveva ancora qualche cosa di appena sbozzato, senza quel gioco di luci e di ombre che formano la vita perfetta del fantasma poetico. Il pensiero doloroso del voto non assaliva d'improvviso Lucia, ma di continuo «si mesceva a tutti gli altri» ed era «invano respinto»: era come una preoccupazione stabile, immobile, inflessibile: il penoso rammarico di essersi obbligata con quella promessa non era da lei confessato, ma durava insistente: ella lo «riprovava, ma non poteva farlo scomparire» (*). Lucia appariva piuttosto vinta che vincitrice nel combattimento; così che la bella e nuova immagine, con cui il Manzoni (1) Alludo all'amarezza di Lucia nel riflettere sui mezzi infami adoperati da don Rodrigo, a' suoi timori e alle sue angustie nel pensare come ripararsi da nuove persecuzioni e vivere fuor del paese, alle considerazioni del Manzoni sulla nullità di «quella promessa, fatta in un'agitazione febbrile, senza meditazione» e sull'indissolubilità della precedente «promessa solenne», con cui Lucia era legata a Renzo: considerazioni che snervavano il carattere di-ammatico dell'inquieto stato di Lucia e, preparandoci in certo modo alla scena dello scioglimento dal voto, ne indebolivano l'effetto. (2) Sp. prom., p. 419. chiude, nell'ultima stesura, la descrizione dell'intimo travaglio di lei, si sarebbe applicata con le parti invertite, soprastando il pentimento del voto, vincitore, anche se «stanco e ferito», sul sentimento religioso, che ne restava, se non del tutto sopraffatto, «abbattuto». Perchè il Manzoni ha rimutata in senso opposto la situazione psicologica? Perchè ha immaginato, in nuovo modo, che l'idea del voto insorga con la subitaneità di una ricordanza eccitata da un motivo esterno, onde l'anima, colpita all'improvviso, fosse tratta ineluttabilmente a pentirsi della promessa fatta? Perchè Lucia quasi -immediatamente risente «come uno spavento» di quel rammarico e s'affretta a rinnegare la sua debolezza con un solenne rinnovamento del voto, e, al sentirsi poi nuovamente vacillare il cuore, torna «alla preghiera, alle conferme, al combattimento» contro il nemico, e se ne rileva, ferita, ma vittoriosa? Questa più alta e austera rappresentazione di Lucia nasce dall'averla il Manzoni ripensata con più profonda coscienza etica e religiosa, dall'avere voluto dare -- non meno che in altre situazioni già rilevate -- maggiore sviluppo e più elevata significazione alle virtù della carità e della fede, ond' è fatta la tempra di Lucia. C'era nella Lucia della primitiva concezione un non so che d'inquieto, di appassionato, di fragile, che, senza oscurarne la bella luce morale e religiosa, raggiante dalla sua figura, vi diffondeva sopra un lievissimo velo, che ne attenuava alquanto il fulgore: c'era come un vago moto di sensibilità e di sentimentalità che scuoteva il suo essere e vi suscitava qualche vibrazione romantica o qualche crudo risalto realistico. Il Manzoni ne purificò e rattemprò la religiosità e ne rese di conseguenza più composto, delicato, soave e forte il carattere e più altamente poetica la figura. Anche su questo, come su altri personaggi a cui rivolgeremo la nostra attenzione a suo tempo, operò quel processo d' idealizzazione attraverso il quale il Manzoni ha rilavorata tutta la materia del romanzo. Si veda anche il diverso contegno di Lucia nell' incontro con sua madre dall'una all'altra redazione. Lo scarno, frettoloso, sbiadito racconto della prima stesura ha ricevuto ampiezza, vivacità e squisitezza nuove nell' ultima. Nella quale vediamo radicalmente mutata la circostanza concernente la fuga di Renzo; il che ha giovato al Manzoni per dare uno sviluppo nuovo ai sentimenti e al carattere di Lucia, fin da quando questa ripensa a lui nel confermare il voto. «Lucia non sapeva nulla -- sì legge nella prima redazione -- della fuga di Fermo e questa notizia che la madre le diede, le cagionò le più varie e opposte commozioni. L'assenza di Fermo era certo dolorosa per lei; ma quando seppe ch'egli era in sicuro, provò quasi una torbida consolazione al pensiero che la tentazione era lontana, che l'esecuzione del suo voto diveniva più facile, che se non altro non avrebbe cosi presto la necessità di parlarne > (^). Nell'ultima redazione Lucia sa^ quanto la madre, del tristo caso di Renzo e della fuga del giovane nel bergamasco fin da quando, a Monza, ne avevan potuto trarre qualche cosa dai discorsi della fattoressa e dalle notizie, mandate loro da fra Cristoforo per mezzo del pesciaiolo di Pescarenico. Giova esaminare con un po' d'attenzione questo piccolo episodio aggiunto nella rielaborazione del romanzo. È una di quelle rarissime pagine in cui il Manzoni con la pudica sobrietà che è una sua caratteristica nella rappresentazione dell' amore, fa sentire con maggior vivezza di tocchi quanto forte e profondo fosse quello di Lucia per Renzo. Quando le due donne sentono dire dalla fattoressa che dei facinorosi catturati dopo la sommossa di Milano, uno, che se l'era battuta per non essere impiccato, era un filatore di seta proprio del loro paese e si chiamava Tramaglino, a Lucia cade il lavoro di mano, impallidisce, si cambia tutta; poi la «desolata fanciulla» vive più d' un giorno in affannosa incertezza sulla sorte di Renzo, finché viene la buona notizia di fra Cristoforo che «si sapeva di certo che s'era messo in salvo sul bergamasco >. «Una tale certezza -- soggiunge il Manzoni -- fu un gran balsamo per Lucia: d' allora in poi le sue lagrime scorsero più facili e più dolci; provò maggior conforto negli sfoghi segreti con la madre; e in tutte le sue preghiere, c'era mescolato un ringraziamento» ('). Ecco in pochi tratti tutto l'amore di Lucia, riflesso «nell' inquietudine > alle prime vaghe notizie, in quel subitaneo pallore e rimescolamento, al nome di Tramaglino pronunziato dalla fattoressa, ne' commenti tra sé, o sottovoce con Agnese, sulle «terribili parole > udite, nel grande sollievo, che le dà la certezza dell'essersi Renzo messo in salvo, in quelle lagrime più facili e più dolci, ne' segreti sfoghi con la madre, nel render grazie, pregando, a Dio. Chi trova troppo tiepida sbiadita la maniera come il Manzoni rappresenta l'amore di Lucia veda se egli, fermo nel proposito (piuttosto morale che este (1) Sp. proni., p. 420. È certo che a questo punto il Manzoni aveva in mente d'introdurre nel precedente racconto de' fatti qualche cenno sulle notizie che Agnese aveva avute circa i casi e la fuga di Renzo, poiché, mentre qui leggiamo ch'ella ne era informata, non troviamo nulla, nelle pagine precedenti, che ci dica il modo com'era riuscita a saperne qualche cosa. (2) Prom. sp., cap. XVIII, pp. 266, 267. tico) di evitare i quadri troppo vivi e suggestivi, non abbia voluto sostituire alle analisi e alle scene dirette dell' amore la rappresentazione indiretta di esso, rivelando nelle circostanze più dolorose e più decisive quanto profondo e saldo fosse nel cuore di Lucia. Poiché c'è un modo intimo delicato per significare l'ardore di una nobile passione, ed è quello di scrutare qual forza di dolore o di gioia, d' apprensione angosciosa o di soave conforto suscitino le vicende e le sorti della persona amata; di raffigurare quel dolore e quella gioia con l'arte sapiente che invita il lettore e lo spettatore a indurre dagli effetti efficacemente espressi T intensità vi* gorosa de' motivi. Osserviamo questo stato d'animo di Lucia, su cui s'abbatte il fiero annunzio de' pericoli di Renzo; consideriamo, insieme, il tormento del suo povero cuore, dopo la liberazione nel sentirsi vincolata dal voto, i teneri ricordi che la commovono nel doloroso addio a' suoi monti, quel sentimento misto d'angoscia e d'orrore che l'agita nel vedere il suo Renzo in pericolo di macchiarsi del sangue dell'offensore; ne vedremo il dolore che le fanno le prediche di donna Prassede e il dibattito penoso con Renzo, quand' ei la trova al lazzaretto: sono queste tutte manifestazioni indirette di quell'amore, del quale il Manzoni non descrisse di proposito «i principi, gli aumenti, le comunicazioni > ('); che è quanto dire, non volle dare un' artistica rappresentazione diretta. Alle apprensioni di Lucia per la vita di Renzo non aveva pensato il Manzoni nella prima stesura; l'avervi fatta parte nel rifacimento dell' opera non solo è servito a collegare i fatti tra loro con maggior chiarezza, a svilupparne i racconti, ad offrire un bell'intreccio d'impressioni e di sentimenti, ma è giovato massimamente ad ingentilire l'affetto di Lucia di tenerezza soave, ad illuminarne la tempra nelle vicende dell' ambascia e del giubilo; il che nella prima prova non aveva ricevuto piena e chiara espressione. Per contro, il Manzoni s' era abbandonato negli Sposi promessi a qualche pennellata colorita, che rivelava in modo più appariscente che nel testo definitivo l'anima innamorata di Lucia. Chi raffronti i due rifacimenti AelVAddio^ monti, che precedettero r ultima e definitiva redazione ('), osserverà con qual cura il Manzoni è venuto via via eliminando da quella pagina altamente lirica ogni elemento erotico, che turbasse anche menomamente l'immagine di (1) Sp. prom., p. 156. (2) Sp. prom., App. F^ F^, pp. 806, 807, 808; Prom. sp., cap. Vili, p. 123. candore e di compostezza pudica ch'ei vagheggiava rimeditando il suo noto principio dell'amore nell'arte. «Chi aveva composti in essi tutti i disegni dell' avvenire» -- commenta il poeta nel figurare il dolore del distacco di Lucia da' suoi monti; ma con più caldezza d'espressione e più ardita intimità di sentimento dapprima aveva scritto: «chi aveva composti e intrecciati con l'immagine di quelli tutti i desideri dell'avvenire, d'un avvenire sospirato segretamente >. Il passo di Renzo è il «passo aspettato», ed è frase temperata che dice la fede del cuore, la sicurezza della dolce attesa; ma nelle precedenti redazioni era «l'orma desiderata» ch'esprimeva, piuttosto, il palpito ansioso dell'anima innamorata. Sulla «casa ancora straniera, -- diceva un rifacimento più antico -- la fantasia si soffermava «commossa», «intenta» e si figurava «sicura» un soggiorno di sposa; ma poi il colorito di questa frase, in cui era dipinto il caldo sogno dell'avvenire, fu via via stinto e finalmente scomparve per dar luogo a quel tocco nuovo dell'ultima redazione: «casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore»; nel quale non senti che il pudore delicato dell' anima amante. Né senza qualche arditezza suonava queir ultimo commento al devoto addio rivolto alla chiesa, «dove l'approvazione e la benedizione di Dio doveva aggiungere all'ebbrezza della gioia il gaudio tranquillo e solenne della santità». Vedi con qual leggerezza di tocco, con che pudor guardingo di sentimento e di stile il poeta ha rimutato «l'ebbrezza della gioia» nel «sospiro segreto del cuore» ! Ma più rilevante, forse, è il modo come Lucia, legata dal voto, risente in cuor suo la lontananza di Renzo. Già le circostanze concomitanti e la stessa disposizione di spirito di Lucia -- come abbiam visto -- non erano le stesse: dapprima le riflessioni sul fidanzato lontano venivano dopo la notizia inaspettata della fuga di lui (^); nel romanzo rifatto le vediamo, invece, intrecciarsi al pensiero e alla rinnovazione del voto. Mutate così le condizioni psicologiche, ne risultava modificato anche l'atteggiamento di Lucia. Ma e' e qualcosa di più: la devota rassegnazione, r umile accettazione della sapiente opera della Provvidenza, l'austero acquietarsi dell'anima nelle ragioni imperscrutabili di essa, la fiducia ne' compimenti di Dio, conferiscono a Lucia un carattere di forte e gentile religiosità, di pensoso raccoglimento, di pia magnanimità, che mancava affatto nella prima stesura. V'era, al contrario, in questa, quel non so che d' inquieto, di torbido, d' appassionato che (1) Sp. prom., p. 420; Prom. sp., cap. XXIV, pp. 349-50. già abbiamo avuto occasione di rilevare in altri punti del romanzo. Perchè l'assenza di Renzo doveva esserle «certo dolorosa? >. Ci stupisce questa troppo viva commozione in Lucia, che ormai si sentiva cosi indissolubilmente stretta al voto e deliberata alla rinunzia del suo amore: mentre è logico che le fosse «così amara», come si legge ne' Promessi sposi, prima di aver rinunziato a «quel suo poveretto» con la promessa alla Madonna. È una nota fuggevole quest'empito di dolore pel giovine assente, ma, messa insieme con altri tocchi particolari dianzi osservati, comprova che il Manzoni non aveva ancora scorto nel carattere di Lucia, agitata tra l'amore e l'obbligo religioso, quel motivo etico di profonda ed umile religiosità, pel quale l'amore di Renzo, senz'essere punto spento dalla nuova promessa, veniva, dirò così, umiliato nella compunzione sublime dell'anima, che aveva ricevuta una nuova tempra dalla consacrazione di quella terribile notte. Era una banale stonatura quella così chiaramente espressa sofferenza di Lucia -- effetto della prevalente passione d'amore -- anche rispetto all'analisi precedente della stessa minuta, dove «il pensiero di Fermo -- diceva il Manzoni -- era per lei una tentazione, quasi un delitto». Gli è che il fantasma poetico di questo personaggio (per dire 11 vero, il più difficile a fissarsi, a illuminarsi fra quanti balzarono dalla sua serena e meditativa fantasia) nella prima concezione e anche attraverso le prove successive balenò alla mente del Manzoni alquanto indefinito e incoerente, in una tal forma ansiosa, sì, di armonizzare coi motivi etici e sentimentali che l'avevano ispirata, ma non ancora liricamente fusa con essi. La determinatezza, la compattezza e la lucidità che venne acquistando nello sforzo artistico ulteriore sono, in gran parte, l'effetto di una più pura idealizzazione poetica di quei medesimi motivi, onde primamente l'aveva attinto la coscienza cristiana del Manzoni. Vedete come si trasfigura Lucia attraverso questo lavorio dell'artista inteso ad approfondirne i motivi interiori del carattere. La «torbida consolazione» che le dava il sapere lontano e al sicuro Renzo, si trasforma nel devoto assenso al volere sapiente di Dio. La mente, a cui quella lontananza non suggeriva che la considerazione di poter con questo mezzo vincer la tentazione di rinnegare il voto, si eleva, in un ineffabile impeto di pietà religiosa, a riconoscervi, piuttosto, un motivo di persuasione, offertole dalla Provvidenza, circa la necessità e la santità del voto. È vero che ne traeva argomento a sperare più facile l'esecuzione del pio sacrifizio, ma anche in questa speranza trepidava il vago sgomento della tentazione che avesse a sorgere e a prevalere. E finiva col raagro conforto che per allora non la stringeva la necessità di rivelare il suo segreto, com'è di chi -- temendo la battaglia -- si consola, intanto, che sia differita. La minuta ci presentava Lucia in un aspetto certamente consentaneo alla natura di morigerata e pia fanciulla, com' ella era e come molte possono essere nella realtà della vita; ma dalla successiva trasformazione di quelle pagine è uscita un'alta figura poeticamente idealizzata, in cui con la candida luce di carità e di umiltà si confondono le fiamme purissime d'-un amore profondo, calmo, tenace. Il dramma religioso, che si desta nel cuore di Lucia tornata alla libertà, ma legata dal voto, non aveva quella solenne grandezza a cui lo portò il Manzoni spiritualizzando con un nuovo soffio di poesia le creature e gli avvenimenti del suo mondo storico - romanzesco; quel segreto travaglio d'un amore, troppo profondo per darsi vinto del tutto nel conflitto col dovere religioso, ma fiorito in una coscienza cristiana, che non vive che nella legge di Dio ed è pronta a tutte le abnegazioni, a tutti i sacrifizi per rimanervi costante, non aveva quel vigore di raccoglimento, quella pensosa intimità di passione, guardinga di sé stessa, quella schietta sobrietà, attinta dalla religione sentita candidamente, quel diffuso senso elegiaco che danno alla nuova Lucia manzoniana una singoiar tempra di accorata soavità e di semplicità delicata e gentile. Questa profonda idealizzazione poetica -- come più addietro osservavo -- comincia dalla descrizione della notte dei terrori e del gran sacrifizio. Nelle peripezie e nelle situazioni psicologiche precedenti -- salvo alcuni ritocchi d' intonazione più decorosa e più franca -- non vi ha gran divario nella pittura morale di Lucia tra l'una e l'altra redazione; ma dove il Manzoni si die' a rilavorarla con nuovo vigore d'arte, con più alto e largo spirito di meditazione, è nel punto in cui s' inizia il vero dramma della protagonista. L'impedimento delle nozze, il fallito tentativo di fra Cristoforo, la fuga dal paesello natio, la separazione da Renzo erano stati casi dolorosi, che avevano perturbata la sua tranquilla letizia, contristati i suoi santi affetti; ma ella confidava in Dio; avea anzi motivo di ringraziarlo per essere sfuggita agli sgherri di don Rodrigo, e, pur guardando con tristezza all'avvenire incerto, sentiva nella fermezza e sicurezza del suo amore e nella speranza de' rimedi che «uole offrire il corso del tempo, un conforto bastevole a sopportare le sue disavventure. Ma dopo il ratto, dopo la desolazione di quella notte, dopo il voto e il sacrifizio supremo del suo nobile amore, l'anima di Lucia reca il solco di una profonda sventura: è cessata, forse, la minaccia de' nemici esterni, dell'iniquità prepotente, ma ora la lotta più penosa e più terribile si concentra nell'ambito della coscienza: quell'amore che doveva venir benedetto e «comandato e chiamarsi santo», ora è un pensiero che spaventa, è un sentimento che strazia senza rimedio, è, anzi, «un' ingratitudine sacrilega, una perfidia verso Dio e la Madonna»; la coscienza del dovere religioso s'accampa imperiosa; ma questo potrà soggiogarlo, non sradicarlo; l'anima assume l'aspetto d'una rassegnazione mesta e tranquilla; ma l'armarsi di pia fortezza non le restituirà più la pace piena e lieta; e non le saranno risparmiati ricordi, pensieri, occasioni formidabili di conturbamento e di strazio, fino all' ultimo, fino a quando interverrà la parola liberatrice di fra Cristoforo. Il Manzoni capì che aveva posto con l'episodio del voto il germe di un intimo dramma di coscienza; che d'ora innanzi doveva tener fisso lo sguardo sul segreto tumulto de' sentimenti e degli affetti, dominato dalla disciplina della sacra promessa, seguire le vicende di quel dolore raccolto, ritrarre con arte misurata e armoniosa, tutta concretezza e immediatezza^ -- guardandosi come dalle esagerazioni della tendenza etico -religiosa così dalle seduzioni del patetico romantico -- gli abiti e gli aspetti semplici e forti d'un' ingenua coscienza religiosa, lottante contro i rinascenti impulsi del cuore. È stata là gravità stessa della nuova situazione psicologica e drammatica, in cui doveva spiccare nella sua individualità singolare il carattere di Lucia, che indusse il Manzoni ad una nuova e più pura elaborazione del personaggio, come gli avvenne di fare del carattere e della storia di Gertrude e dell' Innominato. Nella prima stesura quel conflitto non era fatto sentire con larghezza e precisione; la elevazione religiosa (che è, ad un tempo, elevazione poetica) di Lucia, dopo la preghiera, dopo la promessa e la grazia ricevuta, non appariva nella sua mesta grandezza; quelle sue virtù di fede, di carità, d' umiltà, onde trae la fortezza e la rassegnazione a tenersi ferma nel volo tra gli urti della vita e degli affetti ancor vivi, non si rivelavano attraverso il dramma della sua coscienza con la splendida coerenza e naturalezza confacenti al carattere di lei. Questa più alta e più pura vita psicologica e morale a cui assurge la figura di Lucia nell' ultima redazione del romanzo, è dovuta ad una più attenta e profonda meditazione del delicato problema dello spirito, che la nuova situazione implicava; medesimamente il Manzoni inalzò ad una possente rappresentazione epica la figura dell' Innominato, approfondendo il gran problema spirituale della conversione, e del pari circonfuse di maggior decoro morale l'infelice storia di Gertrude e le diede artisticamente un più raccolto e pensoso atteggiamento, rivivendo con più serena e benigna coscienza il dramma della debolezza e della colpa di quella «sventurata». Sappiamo bene che queste tre grandi creature del mondo manzoniano hanno- un sostrato etico e speculativo profondamente diverso; ma non è meno vero che alla meditazione e all' arte del Manzoni s' affacciavano sotto la luce del medesimo problema umano e religioso ad un tempo; il quale non fu senza efficacia nella loro composizione psicologica e artistica. Non ci sfuggano le riflessioni del poeta sulle consolazioni della religione cristiana a proposito della monacazione forzata di Gertrude (^). Perchè Gertrude si travaglia di continuo «sotto il giogo» nel rancore contro i suoi tiranni, nel cupo «rammarico della libertà perduta», nell'inquieto «abborrimento dello stato presente > e, alla fatale occasione, precipita nella colpa? Perchè non aveva l'indole e la forza di santificare il suo martirio con la fede e la speranza in Dio. Perchè, l'Innominato si riscatta dal peso mortale di tante scelleraggini e iniquità? Perchè, pur attraverso una formidabile tempesta di coscienza, ha la forza di risalire dall' abiezione alla speranza del perdono divino, di volgersi «con un lieto abbandono» alle consolazioni della religione. Perchè Lucia, dopo il voto, si riconferma nel proposito del sacrifizio, conseguendo una cotal calma dello spirito, che, se pur vi trepida un segreto dolore, ha la solennità di una rassegnazione tenace né di altro pensosa che di aderire con sicurezza e letizia alla nuova vita «che si è scelta nella tragica congiuntura» di quella notte -- Appunto perchè sa trarre dalla religione il vigore e la consolazione che le abbisognano a vincere tutte le inquietudini, a fare «di necessità virtù», a santificare l'irrevocabile col balsamo della costante pietà religiosa. Così è: abbandonarsi a Dio; tornare a Dio; confidare in Dio: ecco i tre aspetti del medesimo problema, umano e religioso, che s'agita in fondo alla genesi morale e poetica di Gertrude, dell'Innominato, di Lucia, e di contro il quale stanno l'iniquità e le passioni: dal contrasto di questi termini nasce il dramma, cosi diverso, di quelle tre anime. Via via che il Manzoni viene meditando e penetrando i motivi e le forme di questo grande dramma cristiano, variamente riflesso neir indole e nelle vicende di quei tre personaggi, le figure loro, (1) Prom. sp., cap. X, p. 156. nella sua fantasia, s'accrescono d'una spiritualità più intensa, si illuminano di una luce più chiara e più raccolta, si concretano con più sicuri rilievi, balzano, finalmente, dalle pagine dell' ultima rielaborazione artistica nell' armonia nuova de' loro lineamenti coi caratteri di creature universali ed eterne. Ma torniamo a Lucia. Vi sono due episodi abbastanza ragguardevoli nel seguito del romanzo, e cioè i due incontri e i colloqui della giovane liberata col cardinale. Nella prima stesura il primo incontro aveva luogo in casa del curato di Chiuso, dove Lucia andava con la madre e con la moglie del sarto, chiamata dal prelato; nel romanzo a stampa, invece, è Federigo che si reca in persona a visitarla nella casa degli ospiti (*); il qual mutamento è dovuto certamente al proposito di porre sotto più viva luce la singolare pietà e carità del magnanimo prelato. Oltr' acciò il Manzoni aveva dapprima succintamente descritto quell'incontro e narrate le cose che vi furon dette; fra le quali era curiosa l'inchiesta, eliminata nell'ultima redazione, che il cardinale faceva sulla condotta della signora in relazione coi casi di Lucia; nell'ultimo testo, invece, alla forma narrativa è sostituita la dialogica e accresciuti e ravvivati di colori e di movimento i particolari della scena e le parti de' personaggi presenti. Ciò che interessa, intanto, rilevare è che in quel primo colloquio Agnese accusava don Abbondio del mancato matrimonio, e Lucia taceva; e che questa confessava, a sua volta, il tentativo del matrimonio clandestino nel secondo colloquio, più a lungo e più vivo, ch'ella e la madre ebbero, di poi, col cardinale nel loro paesello, in casa di don Abbondio, dove monsignore s'era recato nel suo giro pastorale per le parrocchie del territorio di Lecco (*). È noto, invece, che neir ultima redazione l'accusa di Agnese e la rivelazione della figlia hanno luogo, ad un tempo, la prima volta che le due donne si trovano a parlare con Federigo in casa del sarto; onde il secondo incontro che hanno con lui, appena arrivate al paese, si riduce a poca cosa e, nell'ordine de' fatti, serve, più che altro, a far che Agnese gli consegni la lettera con la quale donna Prassede si offriva di ricevere e custodire Lucia in casa sua a Milano (^). È chiaro che il Manzoni nella rielaborazione di questi episodi ha voluto trasferire nel primo incontro la massima parte de' discorsi avvenuti nel secondo, parendogli che, se per un verso poteva con ili Sp. prom., pp. 421-2; Prom. sp., cap. XXIV, pp. 356-9, (2) Sp. prora., pp. 437-9. (3) Prom. sp., cap. XXV, p. 372. venire, come aveva immaginato nella minuta, che il cardinale disegnasse «di parlare altra volta con Lucia» e non volesse «in quel giorno così burrascoso per lei tenerla più a lungo», per l'altro verso, poteva anche figurar troppo asciutta quella scena del primo incontro e più verosimile che Federigo in esso fosse trasportato dai lieti avvenimenti di quella giornata, dal paterno affetto per la poveretta miracolosamente salvata, dalla nobile curiosità di conoscerla e di sentirla parlare, a trattenersi con lei in più lungo discorso sui dolorosi casi passati e sulle circostanze avvenire della sua vita. Ecco perchè in quel colloquio egli assume notizie anche di Eenzo, e promette di indagare la verità sul suo conto. Ma per lo studio del carattere di Lucia è osservabile il modo, alquanto differente, come ella s'induce a confessare alla presenza del cardinale la storia del matrimonio di sorpresa. Nella minuta egli, memore degli accenni, fatti da Agnese nel primo incontro, alla colpa di don Abbondio, interrogava minutamente Lucia «sull'affare del matrimonio >; e Lucia raccontava, ma, giunta al punto del tentativo fatto in casa del curato, si fermava, < come un cavallo che ha veduto un'ombra, e rista con una sosta improvvisa e singolare, che none quella solita d'allora che è giunto al termine del suo viaggio». Il cardinale, sorpreso di quella titubanza, voleva sapere il resto; Agnese faceva visacci così manifesti da costringerlo a redarguirla, tranquillamente, ma seriamente, e Lucia stava interdetta», ma, alle parole del cardinale: -- Dio vi assista: dategli gloria col dire la verità», spiattellava «la storia del clandestino». Era, poi, il cardinale stesso che compiacevasi dell'aver ella confessata una colpa, e ammoniva paternamente che non si dovrebbero fare di quelle cose che spiacesse poi raccontare. Era una scena disegnata e colorita con vivo spirito di osservazione e con una lieve nota di piacevole umorismo; ma, come la trasformò e rabbellì di poi il Manzoni, presenta in, nuovo rilievo la delicatezza e l'ingenua bontà di Lucia e la indulgente magnanimità del prelato. Agnese -- come dicevo -- denunzia don Abbondio. Ma Lucia, «non contenta di quella maniera di raccontar la storia», soggiunge: «anche noi abbiamo fatto del male: si vede che non era nella volontà del Signore che la cosa dovesse riuscire». E Federigo: «Che male avete potuto far voi, povera giovine»? E allora Lucia -- dice il Manzoni ?, «malgrado gli occhiacci che la madre cercava di farle alla sfuggita, raccontò la storia del tentativo fatto in casa di don Abbondio; e concluse dicendo: «abbiam fatto male: e Dio ci ha castigati». E Federigo con paterna soavità: '«Prendete dalla sua mano i patimenti che avete sofferti, e state di buon animo: perchè, chi avrà ragione di rallegrarsi e di sperare, se non chi ha patito, e pensa ad accusar se medesimo»? (*). Tutti e tre i nostri personaggi esprimono in questa conversazione i loro sentimenti con più gentile compunzione: anche Agnese, che non vorrebbe che il cardinale facesse l'intemerata al curato e, nel tentar di trattenere Lucia dal rilevare la loro marachella, è più misurata e più rispettosa verso l'insigne visitatore. Ma di nuova luce s'avviva la figura di Lucia, che non ha i tentennamenti della minuta, né fa la rivelazione per incitamento, direi quasi, per comando dell' autorevole interlocutore e commenta il picciol fallo con un'umiltà, un candore, una nobile [compunzione quali può sentire una coscienza -- diremo con Dante -- «dignitosa e netta». Anche questo luogo, che presenta di tanto più elevato il carattere di Lucia, conferma come il Manzoni ne venisse rimeditando i motivi etici con più fine e pensosa attitudine nella ricomposizione psicologica ed artistica. E c'è, altresì, nel contegno di lei, una nota quasi nuova, certo più evidente che non fosse nella prima redazione. Qui ella a quei «visacci» della madre titubava, ricalcitrava: era una debolezza d' animo mediocre, che offuscava il nativo candore di Lucia: era, specialmente, un' irragionevole soggezione alla madre, dalla quale aveva pur l'animo di dissentire ne' casi di coscienza e nelle deliberazioni pensate a fin di bene, come quando fece di sua testa l'abbondante elemosina delle noci a fra Galdino e resistette con tanta tenacia alla proposta del matrimonio di sorpresa. Questo spirito di onesta fierezza e indipendenza, quest' avversione ai sotterfugi e alle dissimulazioni sono lumeggiati così nell' una come nell'altra redazione del romanzo; onde quel ricalcitrar di Lucia nell' interrogatorio, che il cardinale le fa, sul matrimonio, era una manifestazione d'incoerenza psicologica e morale del carattere: il Manzoni, ripensandoci, rimutò la situazione in modo che Lucia figura non solo indipendente dalla volontà della madre, ma rammaricata del parziale racconto di lei e franca nel secondare gì' impulsi della sua ingenua coscienza. Questa è la vera anima di Lucia, semplice, pura e fiera, che il Manzoni veniva effigiando secondo quell' austera ispirazione cristiana, sempre più operosa e più chiara, in cui abbiam visto consistere la genesi sentimentale del carattere di questo personaggio. C'era nel colloquio nella casa del curato qualcosa altro, che ci richiama ad osservare l'anima di Lucia rispetto al voto. Ella manifestava il proposito di rinunciare al matrimonio ed esprimeva il de (1) Prom. sp., cap. XXIV, pp. 357-8. siderio di farsi conversa in un monastero: precipitosa risoluzione, da cui lo stesso Federigo la sconsigliava facendole osservare che, se la sua promessa a Eenzo era stata meditata seriamente, non poteva ritrarsene. Era la seconda volta che il Manzoni faceva intervenire l'autorità della chiesa nel giudizio suU' indissolubilità' di quella promessa (*); il che dovette, poi, essersi accorto essere non solo superfluo,,ma nocivo all'interesse del racconto generale de' fatti, che consigliava di tener sospeso l'animo de' lettori fino all'atto solenne di fra Cristoforo nel lazzaretto. E «Lucia -- proseguiva il Manzoni -- fu tentata più d'una volta di rivelare il voto, ma una vergogna insuperabile la ritenne» (*). Era un'altra stonatura psicologica e una sconvenienza nello sviluppo drammatico della scena. Immaginare che Lucia, quale ci era rappresentata nella prima redazione, piuttosto dominata dal pentimento del voto che non rassegnata all' imperscrutabile volere della Provvidenza, fosse presa, d'un subito, dal mistico desiderio d'abbandonare il mondo e sollecitasse quasi il cardinale ad aiutarla in questo adempimento; Lucia, che ne' colloqui con la madre non aveva avuto la forza d'aprire il cuore al suo gran segreto, immaginare ciò non si confaceva né al suo stato d'animo né. al suo carattere ritroso. La tristezza amara, che occupava l'animo suo, non giustificava un atteggiamento così risoluto. Per dare un diverso tono al colloquio e per dipingere in altro modo il contegno di Lucia il Manzoni, nel porre quel dialogo come avvenuto nel primo incontro del cardinale con le donne in casa del sarto, fa raccontare ad Agnese quel poco che sapevano sul conto di Renzo, immaginando «zitta, con la testa e gli occhi bassi» Lucia, che, invece, nella prima relazione, doveva sostenere un interrogatorio diretto su questo per lei scabroso e doloroso argomento; cosicché ella, standosene raccolta e pensosa, mentre la madre parla, non ha occasione di rivelare troppo il suo intimo affanno. È assai probabile che il Manzoni nella redazione primitiva rappresentasse a quel modo Lucia quando il cardinale fa cadere il discorso su Renzo e sul loro avvenire, per colorire l'animo della poveretta, ^combattuta dalla memoria del voto, per dare, insomma, uno sviluppo psicologico e drammatico -- che doveva essere uno de' punti principali uel piano generale del suo romanzo -- ai nuovi sentimenti ed affetti, e al loro contrasto co' vecchi. E che il Man li) Sp. prom., p. 419. (2) Sp. proni., p. 439. ROMANZO IN FORMAZIONE 241 zoni sentisse la convenienza d'approfondire l'analisi variandola di vive scene drammatiche, appare evidente dal lavorio con che venne, attraverso i rifacimenti dell'opera, innovando e ampliando codesta parte che si riferisce al suo personaggio. Non ha espulso, dunque, senz'altro, come superfluo, quel tratto psicologico del dialogo e quell'accenno al titubar di Lucia sul punto di rivelare il voto, ma li ha trasferiti ne' colloqui che Lucia ha con la madre, svolgendone, con più chiaro intento, i motivi e gli atteggiamenti della segreta ambascia. La minuta era smilza e sbiadita in questa parte. Vedemmo già che descriveva alla lesta il primo incontro con Agnese: nel romanzo, invece, i caratteri delle due donne sono sviluppati con larghezza e finezza nuove. Lucia interrompe le maledizioni della madre contro don Rodrigo, anzi supplica di pregar per lui, che Iddio gli tocchi il cuore; è una pennellata delicata, onde si riverbera una soave luce di carità sulla figura dell'innocente oppressa. Quando nel racconto affannoso che fa della sua storia, è al punto del voto, resta sospesa, pel timore che la madre le dia della precipitosa, che le voglia contraddire, o se ne confidi con altri, e anche per «una ripugnanza inesplicabile a entrare in quella materia». Quest'analisi del povero cuore di Lucia è ripresa piti innanzi, in quella svelta e colorita dipintura de' discorsi, tristi e affettuosi insieme, che le due donne fanno di frequente tra loro ne' pochi giorni che passano nella casuccia ospitale del sarto: alle allegre congetture, alle belle speranze di Agnese sul conto di Renzo e sull' avvenire de' due promessi. Lucia; o che ascolti o che risponda, ha l'anima in pena; ma tiene ancora in sé il «suo gran segreto», cercando prudentemente di mutar discorso. «I suoi disegni -- dice il Manzoni -- eran ben diversi da quelli della madre, o, per dir meglio, non n'aveva; s' era abbandonata alla Provvidenza» (*). È questo il costante motivo psicologico e religioso dal quale il poeta, nel nobilitar la figura morale di Lucia, ne ha svolto tutto l'intimo dramma. Tenerezza, accortezza e dolore fanno una bell'armonia in quel dire vago e accorato ch'ella non aveva «più speranza, né desiderio di cosa di questo mondo, tuorchè di poter presto riunirsi con sua madre». Agnese non si persuade che la figlia non pensi più nulla, attribuisce quello stato d'animo sfiduciato all'amarezza de' patimenti sofferti e la incora a confidare nella rinascita delle belle speranze. Lucia non risponde che coi baci e col pianto. (1) Prom. sp., cap. XXV, p. 368. Questa efficace dipintura dell'umor speranzoso di Agnese, della raccolta tristezza di Lucia, che è uno de' piti bei saggi dello stile lucido, pacato e armonioso del Manzoni, si ricompone, rinnovellata nello spirito e nella forma, di su pochi tratti della minuta, che erano le meste parole dette da Lucia al cardinale, quando questo la interrogò circa i suoi propositi per l'avvenire, i brevi cenni alla gaiezza di Agnese nel tornare al suo paese insieme con la' figlia e lo stupore sospetto e curioso ond' ella era colpita per «la nuova rassegnazione di Lucia all' assenza del suo promesso sposo» nel trattar con la figlia del modo di disporre de' dugento scudi donati dall'Innominato alla giovane, che proponeva d'inviarne una metà a Renzo. Ma questi non erano che tentativi d'arte rudimentale, abbozzaticci grezzi: il Manzoni non solo ha svolto, ma ha addirittura con nuovo vigore d' osservazione rifatto lo studio e il ritratto de' sentimenti e degli affetti. È questo uno de' casi più notevoli che sieno nel romanzo, di ricostruzione psicologica e di rifusione fantastica; e mette conto esaminarlo attentamente quale documento cospicuo del modo come venne compiendosi la formazione artistica de' Promessi sposi. Il Manzoni nella prima redazione non aveva concepito in tutta la sua estensione e profondità l'intimo conflitto di Lucia: ne aveva fatto una descrizione, alquanto diffusa e turbata da elementi superflui o, come vedemmo inopportuni, ritraendo Lucia raccolta a pensare a' casi suoi in una stanza appartata nella casuccia del sarto; poi, di tanto in tanto, l'autore ce lo rappresentava di scorcio alla brava, secondo le circostanze del racconto, ma in modo frammentario, discontinuo, occasionale, senza nuovi sviluppi, ricorrendo di rado al sapiente uso de' dialoghi, che rivelano i sentimenti e le loro sfumature in azione. De' colloqui con la madre non ne tratteggiava che uno, ove i contrari affetti venissero messi alla prova e apparisse lumeggiato con qualche vivezza il penoso stato di Lucia: ed era quello, già rammentato, che s'accendeva tra loro a proposito degli scudi d'oro da dividere con Renzo. Dopo, non c'era più nulla nella minuta, nemmeno qualche tratto patetico, che non sarebbe stato male appropriato per descriver la separazione di Lucia dalla madre, quand'ella era C9nsegnata in custodia a donna Prassede. Più addietro il primo incontro con la madre non era figurato in dialogo vivo, ma affrettatamente descritto: poi seguiva un' altra descrizioncella del loro viaggio da Chiuso al paese, nella quale era figurata Agnese più loquace del solito, e «la sua gioia pel ritorno trionfale, la gioia di ricondurre salva a casa la figlia da tanti pe ricoli, quella d'esser divenuta conoscenza di Monsignore illustrissimo, l'aspettazione dell'accoglimento che le farebbero i parenti, i conoscenti, tutti i paesani»; e in contrapposizione a questi «sentimenti espansivi e distinti» della madre, s'accennava ai «sentimenti di Lucia misti, intralciati, ripugnanti;.... di quelli, sui quali la mente s' appoggia con una insistenza dolorosa, per distinguerli e dominarli, di quei sentimenti che non cercano di essere comunicati, né trovano ancora la parola, che li rappresenti» (^). Quest'ultimo scorcio d'analisi non è senza valore per l'acume con cui è colto nel vivo quel particolare rammarichio, quella confusa oppressione morale di Lucia, ma non è piti che una sbozzatura di primo getto, che pare aspetti dalla mano esperta dell'artefice precisione e sicurezza di linee e di rilievi, armonia di luci e colori. Il tornar tumultuoso delle memorie e delle commozioni contrastanti tra loro s' intrecciava alle impressioni di Lucia nel riveder la sua casa e le care cose domestiche. Era una situazione bene indovinata e ritratta con discreta evidenza fantastica. «Rivedeva ella la sua casa, quella dove aveva passati tanti anni tranquilli, clie aveva tanto desiderato e sì poco sperato di rivedere; ma quella casa, che non era stata per lei un asilo, quella casa dove aveva data una promessa, che non credeva di poter piìi attenere, dove aveva tante volte fantasticato un avvenire, divenuto ora impossibile». Ritiratasi nella sua stanza, «dopo aver ringraziato Dio dell'averla ricondotta quivi oltre e contra la speranza, si mise a rivisitare tutte le sue masserizie, come per provare se potesse ricominciare la sua vita passata; ma non v'era oggetto nella casa, non v'era angolo, al quale non fossero associate idee divenute dolorose e ripugnanti. Lucia prese come macchinalmente il suo arcolaio, e sedette a dipanare la matassa di seta, che aveva lasciata a mezzo, quando Fermo venne a pigliarla per la spedizione del matrimonio clandestino», È codesta una pittura viva e chiara, a cui qualche pili gagliardo rilievo, qualche nuovo lineamento piìi agile e un po' di colore avi-ebbero data l'immediatezza e r efficacia d'un piccolo capolavoro: eppure il Manzoni le die' risolutamente un frego, riducendola a un cenno lì dove dice che le festose e premurose accoglienze de' compaesani la distraevano «alquanto da' pensieri e dalle rimembranze, che, purtroppo, anche in mezzo al frastono, le si risvegliarono, su queir uscio, in quelle stanzucce, alla vista d'ogni oggetto» (^). (1) Sp. protri., pp. 434-5. (2) Sp. prom., pp. 435, 436; Pì'om. sp., cap. XXV, p. 373. Il motivo di questa soppressione quasi totale di un patetico episodio, che serviva a illuminare la interna lotta di Lucia, risulta dallo stesso principio di radicale trasformazione, a cui andò soggetta tutta la parte del romanzo che comprende la vita e i casi di Lucia dopo la liberazione fino a quando ritorna in iscena nell' inaspettato incontro con Renzo nel lazzaretto. Il Manzoni nelle pagine precedenti -- come già ho fatto vedere -- aveva tratteggiato con ricchezza d'osservazioni e di mezzi artistici lo stato morale di Lucia; e a questo riservava nuove analisi acute nel seguito del racconto, nella scena, cioè, della rivelazione del voto, fatta alla madre, e ne' frequenti dibattiti penosi che la poveretta avrebbe avuto con donna Prassede. Materiale, dunque, già artisticamente evolto o pronto ad essere svolto, ce n'era, al fine di dare una compiuta rappresentazione di quel grande affanno morale conforme la concezione sempre più chiara e profonda che se ne veniva formando nella coscienza del poeta cristiano durante il processo di elaborazione della sostanza etico-religiosa e delle forme artistiche del romanzo. E poi, se quella breve descrizione del ritorno nella casetta paterna con le rimembranze domestiche e i tristi pensieri, nati dallo stato presente, era d' ispirazione gentile, e di non volgare efficacia rappresentativa, entrava -- a vero dire -- nel repertorio usuale delle rappresentazioni romantiche, pallidamente fiorite dal sentimentalismo di moda; aveva anzi, nella forma ancora alquanto grezza del primo getto, un non so che di patetico, di mollemente melanconico, che forse non piacque più al Manzoni nel tornare sull' opera sua con più sicuri intenti e con rinvigorite attitudini a sostituire al pittoresco appariscente la naturalezza che rende con più chiara luce il reale, a foggiare le immagini della fantasia in forme d'arte temperate, composte, classicamente armoniose. Il Manzoni ha rielaborato, dicevo, profondamente codesta parte che illustra l'animo di Lucia. Ecco, infatti, fin dal primo trovarsi con la madre, la caritatevole sollecitudine dell' altrui bene, che è la forma sostanziale del suo carattere, espandersi nell'ansia per la sorte di Renzo e nel giubilo per la salvezza di lui. E cerca di cambiar discorso. Ferma nel recente proponimento di tenersi austeramente al voto, assume un atteggiamento congruo all'animo sollevatosi dalla lotta interna: non la preoccupa che la salvezza dello sposo, da lei sicuramente tenuto per innocente, non la lontananza. In quei «loro discorsi tanto più tristi, quanto più affettuosi» che fanno in casa del sarto, vedemmo già com' ella «disegni suoi propri» non ne avesse, e vivesse abbandonata alla Provvidenza, in quello stato d' animo, più piamente rac colto, che è subentrato in lei allo sgomento del voto. È quel fecondo motivo religioso, posto dal Manzoni con affatto nuova evidenza ad operare fra i sentimenti di Lucia, che si svolge e influisce e di sé colorisce tutte le scene, in cui il poeta viene sviluppando il forte dramma di quell'anima combattuta tra l'amore e il dovere. Vili. Veniamo alla grande scena della rivelazione del voto. Agnese, tutta giuliva ed espansiva pei cento scudi d'oro dell'Innominato, s' abbandona a quella mirabile parlata che esamineremo a suo luogo, facendo i più bei progetti per l'avvenire: di discorso in discorso viene a dire che il matrimonio si sarebbe potuto fare anche in altro luogo fuori del loro paese, ch'ella sarebbe andata a Milano a rilevar la figlia. Lucia non s'anima a que' bei disegni, anzi, vieppiù s'accora, non dimostrando «che una tenerezza senza allegria»; allo stupor di Agnese che lascia a mezzo il discorso, non fa che esclamare: «Povera mamma» ! e gettarle un braccio al collo, «nascondendo il viso nel seno di lei»; alle sollecitazioni della madre ansiosa di sapere la verità, chiestole di compatirla, per non averle confidato il suo doloroso segreto, «col capo basso, col petto ansante, lacrimando senza piangere, come chi racconta una cosa che, quand'anche dispiacesse, non si può cambiare, rivela il voto; e insieme giungendo le mani, chiede di nuovo perdono alla madre, di non aver parlato fin allora; la prega di non ridir la cosa ad anima vivente, e d' aiutarla ad adempire» la solenne promessa. Al dialogo, che è un capolavoro di pittura psicologica e di rappresentazione drammatica, s'alternano, rilevate in isvelti lucidi scorci, le commozioni varie di Agnese e di Lucia che torna a dipinger, «co' più vivi colori quella notte, la desolazione così nera, e la liberazione così impreveduta, tra le quali la promessa era stata fatta, così espressa, così solenne». Poi l'accorato colloquio si ravviva con le sublimi parole di Lucia, piene della speranza nell'aiuto divino e del desiderio di tornar con sua madre, rievocanti in confuso le memorie dell'orribile giornata del ratto, tenere di devota meraviglia d' aver avuta la salvezza e la libertà proprio da colui che l'aveva comandato; si acuisce in accenti di rassegnazione, di fede, di carità, quando, alla domanda di Agnese: «E Renzo»? Lucia «riscotendosi» esclama di non doverci pensare più «a quel poverino», di aver accettato come un provvedimento sapiente di Dio la loro separazione, e s'augura che Iddio stesso l'abbia preservato «da pericoli», e che «lo farà esser fortunato anche di più, senza di lei». Lucia domina il commovente colloquio: lei incora la madre ad ac cogliere «di buon animo» la «volontà» del Signore, raccomandandosi alle sue preghiere; lei le suggerisce di far sapere, in qualche modo, a Renzo il voto, persuadendolo a mettere «il cuore in pace»; lei, con mal frenata angoscia, la prega che, quando avesse nuove di lui, le facesse sapere che è sano, e poi non le facesse piti saper nulla. Ancora un ultimo tocco di tenera carità, in cui trepidano i fuggitivi ricordi di un soave passato e la segreta voce dell'amore abbattuto, ma non estinto; ed è quei pregare vivace e insistente che dei cento scudi Agnese facesse mezzo per uno con Renzo, per risarcirlo de' patimenti e de' danni, che non gli sarebbero accaduti, se -- dice Lucia con abnegazione infinita -- «non avesse avuto la disgrazia di pensare a me». Agnese accondiscende, e Lucia la ringrazia -- osserva in tono tra il serio e l'arguto il Manzoni -- «con una gratitudine, con un affetto, da far capire a chi l'avesse osservata, che il suo cuore faceva ancora a mezzo con Renzo, forse più che lei medesima non lo credesse» (*). Questo dialogo è ricco di bellezze, talune delle quali non sono sfuggite all'attenzione de' commentatori ('). Che cosa c'era nella prima stesura -- Mancava, intanto, la rivelazione del voto, che ha una parte essenziale nella nuova scena; del colloquio eravi riportata in forma diretta soltanto ciò che le donne si dicono. Lucia per persuader la madre a dividere il dono degli scudi d'oro, (eran dugento nel primo testo) con Renzo, che, secondo lei, ne doveva aver bisogno, Agnese per osservarle che glieli avrebbe portati in dote qu indo fosse tornato, meravigliandosi che Lucia paresse rassegnata alla lontananza dello sposo. In forma narrativa, poi, s'accennava all' acconseiitimento di Agnese e a' suoi tentativi per veder chiaro in quel contegno rassegnato della figlia. «Agnese era rimasta colpita -- scriveva il Manzoni -- di quella nuova rassegnazione di Lucia all'assenza del suo promesso sposo, e non lasciò di tentarla con interrogazioni, dirette, tortuose, incalzanti, subdole per venirne all'acqua chiara. Lucia però seppe per allora e per qualche tempo schermirsi dal soddisfare alla curiosità materna, allegando sempre che era inutile il pensare a cose, che le circostanze rendevano impossibili» (^). Con la rivelazione del voto, che, come vedremo fra poco, il Manzoni ha pensato di togliere dal colloquio di Lucia con Renzo nel (1) Prom. sp., cap. XX vi, pp. 384-7. (2) V., fra altri, G. Negri, Commenti cit., pp. 190-203. (3) Sp. prom,., pp. 460-1. lazzaretto per farla avvenire ora nella scena della separazione dalla madre, questa è venuta a tramutarsi profondamente: lo spirito de' motivi, onde si svolge, è diverso; sono approfonditi con nuovo vigore psicologico ed efiicacia drammatica i caratteri, compenetrati essi e i loro discorsi d'una spiritualità nuova, di un nuovo senso di carità e di rassegnato dolore. Lucia nel primitivo colloquio, a sentir la madre accennare alle nozze, aveva un sospiro e le diceva: «Non parliamo di queste cose, mamma, non ne parliamo. Se Dio avesse voluto ah! le cose non sarebbero accadute a quel modo. Non era destinato che fossimo non ci pensiamo per carità». La madre incalzava: «Ma s'egli torna»; e Lucia, che già l'aveva pregata di cercar di fare avere una metà degli scudi a Renzo, soggiungeva: «lontano, è profugo, ramingo ah! c'è altro da pensare: forse egli stenta, forse non ha pane da mangiare. Forse con questo aiuto, egli potrà collocarsi ben alti-ove, farsi un avviamento, uno stato». E Agnese: «Ohe! tu non pensi più a lui?»; al che Lucia rispondeva < in fretta»: «Penso a toglierlo d' angustia, e di bisogno. Questo lo possiamo fare, al resto provvederà Iddio». Questo breve dialogo, se si tolga qualche sciatteria e ingenuità di stile, non difettava di vigore poetico, che prenunziava il grande colloquio dell' ultima redazione: del quale, se non aveva il drammatico senso religioso, svolgeva tuttavia uno degli elementi essenziali della situazione, questa mal dissimulata lotta di Lucia tra l'amore e il proposito di tener fermo al voto fatto. Ma certamente lo spirito era un altro: la lontananza, senza evidente probabilità di ritorno, del fidanzato fuggiasco, era il lecito motivo della scena primitiva: da esso traeva argomento Lucia a convincersi e a convincere Agnese che era destino non si maritassero; ora si faceva forte per immaginarlo in «.bisogno», in «angustia» e per rivolgere alle strettezze di lui il pensiero suo e quel della madre, e la loro apprensione; era una mirabile movenza dello spirito affannato di Lucia: -- che s'aveva a pensare pel momento? a toglierlo dalla miseria, a ridargli, col proprio aiuto, il modo di rifare il suo stato. -- V'era nelle parole di Lucia della premura, della carità, forse dell'amore; ma questo atteggiamento a lei giovava per salvaguardarsi dalla rivelazione del voto, per evitare d'impegnarsi a fondo nel parlare de' suoi turbati sentimenti. La lontananza di Renzo era lo schermo, dietro cui Lucia nascondeva il segreto del voto affannandosi a persuadere sé stessa e la madre che era vano pensare al matrimonio: il motivo, dunque, generatore del breve dialogo tra le due donne era essenzialmente psicologico. Nel colloquio, invece, dell' ultima redazione il motivo è essenzialmente morale, come quello che scaturisce dalla coscienza dell'inviolabilità del voto rivelato. Ne è compresa Agnese stessa, che non trova più argomenti da ribattere alla figlia. Che cosa ha fatto il Manzoni nel rielaborare codesta scena? Ha rifusa e ampliata la parte dialogica del primo testo e ne ha rimutata radicalmente la situazione drammatica, col sostituire al contrasto tra Agnese, che spende tutto il suo ingegno per far parlare chiaro la figlia, e questa che se ne schermisce, una scena di dolore, di rassegnazione religiosa, di carità cristiana, nella quale la tempra morale di Lucia splende in tutta la sua bellezza dolce e austera. E noto che nella primitiva concezione Lucia, la quale era riuscita a tener celato il voto alla madre, non poteva fare a meno d'aprire il suo segreto a Renzo, quand'ei la ritrovava nel lazzaretto. Su questa scena dovremo tra poco fermare la nostra attenzione; pertanto giova osservare che l'avere il Manzoni trasformato così profondamente il racconto nel punto che veniamo ora esaminando, non è stato senza forti ragioni. Noto, anzitutto, che il colloquio descritto nella minuta non era un colloquio d'addio, qual è al contrario quello dell'ultima redazione, nella quale vediamo Agnese che va alla villa di donna Prassede per abbracciare la sua Lucia, prossima a partire per Milano con la nobile signora, e leggiamo, prima dell'incontro delle due donne, che in quanto al voto la giovane «era risoluta di farsi forza, e d' aprirsene con la madre in quell'abboccamento, che per lungo tempo doveva chiamarsi l'ultimo», Non ci sfuggano e codesto nuovo rilievo dato dal Manzoni alla deliberazione di Lucia e le circostanze diverse in cui egli immagina avvenuto il colloquio nella prima e neir ultima stesura. l'«inaspettata fortuna» di que' begli scudi d' oro è in ambedue i testi argomento de' loro discorsi e la preghiera che Lucia rivolge alla madre di mandarne una metà a Renzo ha parimente luogo nell'uno e nell'altro. La differenza grande è nel resto, e nel modo stesso come il motivo del dono è svolto e s' intreccia alle altre parti del colloquio. Questo nella forma primitiva fa l'impressione d'essere una ripresa e uno svolgimento de' discorsi fatti tra le due donne al primo rivedersi in casa del sarto e che l'autore aveva indirettamente e succintamente riferito; anzi ne' sentimenti e nelle parole di Lucia s'intravede quell'aria di titubanza e di circospezione che il Manzoni con aperta e chiara analisi descriverà nella scena del primo incontro delle due donne, quale usci rinnovellata dalla matura elaborazione dell'episodio. Cosicché, riflettendo sull'intenso lavoro esercitato dal l'autore attorno a questa parte del suo romanzo, io scorgo -- se non m' inganno -- un processo iniziale di scomposizione, quindi una ripresa di svolgimento psicologico e drammatico e di ricomposizione artistica nuova. Di ciò che costituiva la materia del secondo colloquio, la parte in cui era rappresentata l'apprensione di Lucia di tener segreto il voto si separa dai tratti in cui erano descritte l'angustia per la sorte di Renzo, la premura di dividere con lui il dono dell' Innominato e l'ansiosa curiosità della madre; questi tratti ricompaiono alcuni sobriamente scorciati, altri svolti e lumeggiati di più delicata poesia nell'ultimo colloquio della separazione; mentre quella parte è stata rifusa nella descrizione del primo colloquio, donde è venuta fuori una pittura tutta nuova di Lucia, così guardinga nel nascondere alla madre la circostanza del voto. A questo punto la questione, già da altri trattata, sulla diversità che offrono la prima e l'ultima stesura del romanzo circa la rivelazione del voto mi suggerisce alcune considerazioni, con le quali mi aprirò la via a rivedere l'episodio dell'incontro con Renzo nel lazzaretto. A. Momigliano, più di dieci anni or sono, in un suo studio condotto con l'usato acume e buon gusto intorno la scena della rivelazione del voto, si faceva a dimostrare che nel ritardare questa rivelazione sino all'incontro con Renzo non ci sarebbe stata inverosimiglianza, dopo che il Manzoni aveva nel testo definitivo fatto interrompere il primo colloquio di Lucia con la madre dalla venuta del cardinale, aveva soppresso un brano inedito, poi cancellato, in cui Renzo (ovverosia Fermo) si domandava perchè Lucia non venisse a lui per sposarlo e gli mandasse invece la metà degli scudi dell' Innominato, e aveva evitato il colloquio tra Fermo e Agnese durante la peste. «Le tre modificazioni -- osservava -- furono fatte, ma non ritardarono la rivelazione»; così eliminata la questione principale, quella dell'inverosimiglianza, vedeva la vera ragione del rimutamento in un canone estetico-morale che avrebbe consigliato il Manzoni ad evitare il «colpo di scena», il contrasto d'amore» la scena, insomma, troppo pittorescamente drammatica, qual'è quella che offriva la prima stesura nel descrivere la rivelazione del voto fatta da Lucia direttamente a Renzo (^). Il ragionamento e gli argomenti del Momigliano sono sagaci e nel motivo eh' egli addita, chi veramente abbia un concetto esatto dell' arte manzoniana, può convenire. (1) A Momigliano, La rivelazione del voto di Lucia, in Giorn. stor. d. leti, ital., L, pp.l21 e 123. Nel riprendere in esame codesta questione, credo opportuno di ricercare, sulla scorta della minuta, se l'anticipata rivelazione alla madre, oltre che dalla rag-ione sostenuta dal Momigliano, non fosse suggerita da altri motivi e se veramente dovesse parere allo stesso Manzoni non essere punto inverosimile che «la madre ignorasse le ragioni della condotta d'una figliuola che non le nascondeva mai niente» (*). A proposito de' sentimenti di Lucia nel raccontare alla madre la sua terribile peripezia, non è senza importanza un particolare, affatto nuovo nell'ampio svolgimento dell'ultima redazione, che, cioè, ella nel nasconderle la circostanza del voto, si proponeva «di farne prima la confidenza al padre Cristoforo». Ma il buon frate «non c'era piii»: «era stato mandato in un paese lontano lontano». La prima stesura, che in questa parte relativa ai sentimenti e alla vita di Lucia dopo la liberazione, è veramente un racconto frettolosamente abbozzato e lacunoso, non aveva alcun cenno a fra Cristoforo; ma era strano, anzi inverosimile, che Agnese e Lucia nel discorrer di tante cose tristi non capitassero a parlare del loro protettore. Pare che il Manzoni, dopo aver raccontate le brutte nuove che Agnese aveva ricevuto al convento di Pescarenico, si dimenticasse affatto del povero frate fino all'incontro di lui con Renzo nel lazzaretto. Era dunque ovvio che nel rivedere e correggere l'opera sua, il Manzoni sentisse la convenienza di far che Lucia chiedesse notizie del padre; onde viene ampiezza, varietà e gentilezza nuova al colloquio e risalta la devota premura di Lucia. Ma non è meno importante dell'aggiunto proposito, ch'ella fa tra sé stessa, di confidare, prima che ad altri, il suo segreto a fra Cristoforo, la dolorosa disillusione di non poterlo piti fare; poiché, venuta a mancare codesta buona ragione per nascondere alla madre il voto. Lucia troverà meno forza per resistervi, e, necessitata dalle circostanze, in un momento di accorata tenerezza, riverserà nel cuore di lei il delicato segreto. Tutto ciò è affatto coerente; risponde, anzi, alla logica de' sentimenti; mentre era, nella minuta, illogico il contegno di Lucia verso la madre, dalla quale si separava una seconda volta senza confidarle nulla, senza avere nemmeno la giustificazione del confermato proponimento di aprirsene col frate. Di conseguenza io propendo a credere che al Manzoni non paresse più verosimile la riservatezza di Lucia rispetto alla madre al momento di lasciarsi chissà per quanto tempo, massime dopo ch'ella aveva perduta la speranza di confidarsi prima col buon frate; gli paresse, (1) Op. cu., p. 121. per contro, derivar necessariamente dalle circostanze stesse e dallo stato d'animo di Lucia nel doloroso momento della separazione ch'ella, «quantunque non le fosse diminuita quella gran ripugnanza a parlar del voto», risolvesse d'aprirsene con la madre. La successione de' casi, il sopravvento de' nuovi sentimenti e delle nuove apprensioni portavano inesorabilmente alla rivelazione nella scena del commiato; il Manzoni nel circostanziarla con quel sapiente cenno a fra Cristoforo, che già indebolisce le opposte ragioni del riserbo, col vivo e quasi nuovo svolgimento dell' ultimo colloquio, in cui è la foga stessa d'Agnese, nel far tanti bei progetti per l'avvenire, che trascina Lucia, in un abbandono di dogliosa tenerezza, a svelare il segreto, lascia intendere com'egli sentisse l'opjioi'tunità, -per non dire la convenienza psicologica, di quella rivelazione. In ciò -- a mio avviso -- consiste la ragione principale del mutamento operato dalla prima all'ultima stesura. Ma e' è qualche altra considerazione da fare. Il Manzoni nel lavorare al riordinamento generale del racconto dovette avvertire che troppo gramo e lacunosa era quanto aveva scritto nella prima stesura circa il collocamento di Lucia presso donna Prassede. circa il nuovo distacco dal suo paese e la separazione dalla madre. A che servivano quelle povere e aride pagine, se non per informare frettolosamente che Lucia aveva "trovato «una destinazione, che la toglieva da quel contrasto doloroso tra il voto e il cuore?» (*). Erano pagine di cronistoria, non di psicologia e d'arte: i caratteiù non ricevevano sviluppo alcuno, la delicata sentimentalità di Lucia, la materna bontà d'Agnese eran lasciate nell'ombra, la nuova angoscia di dover lasciare una seconda volta il paese e la madre nemmeno avvertita. È possibile che il Manzoni non s'accorgesse che bisognavano analisi e scene nuove, in cui le sopraggiunte circostanze avessero il debito rilievo e gli animi fossero messi in luce piena e viva? Ed eccolo a ritoccare, ad ampliare, ad aggiungere secondo una piìi robusta e più pensosa meditazione della materia rappresentata. Il primo congedo, quando «venne donna Prassede, secondo il fissato, a prender Lucia ?», affidatale con lodi e calde raccomandazioni dal cardinale, è descritto con tocchi sobri sì, ma intonati al carattere di Lucia e alle affezioni di quel momento. «Lucia si staccò dalla madre, potete pensare con che pianti, e uscì dalla sua casetta; disse per la seconda volta addio al paese, con quel senso di doppia ama ti) Sp. prora., p. 464. rezza, che si prova lasciando un luogo che fu unicamente caro, e -- che non può esserlo più». Lucia andava a passare alcuni giorni in una villa poco lontana dal suo paesello; colà sarebbe andata Agnese «a dare e a ricevere un più doloroso addio > (*). Quella dipintura de'* primi congedi, che, pur nella sua luce modesta, è sofiTasa di tenerezza e dolore, prenunzia la scena, più ricca di motivi sentimentali e di movimento drammatico, dell' ultimo congedo; la quale, nel grande quadro del racconto, s'arricchisce di tanto più ampio svolgimento artistico di quanto è venuta via via crescendo l'amarezza del distacco e più intenerisce il cuore l'ora suprema in cui è forza dire «a' dolci amici, addio». Mirabile scena, in cui vediamo la rappresentazione poetica attinger vigore e luce dal medesimo motivo psicologico sentito e svolto in modo più intenso e profondo e, seguendo le vicende dell' interior meditazione della realtà intuita o osservata, trasmutarsi, dilatarsi di breve narrazione lucida, serrata, densa in un dialogo grandioso, che, movendo da stati d'animo già accennati, ne effonde tutta l'inespressa sostanza affettiva nell' onda delle parole dolci e tristi, ora rapide e pronte, ora lente e reticenti, secondo il fluttuar degli animi tra il «lamento», «il conforto», «il rammarico» e < la rassegnazione» nelle due poverette. Tra la triste necessità di lasciare il paese, la casa e la dolorosa certezza di non poter vedere per lungo tempo la madre s' aggrava l'angoscia, si fa sentire più tormentoso il nostalgico desiderio de' begli anni placidi e tranquilli, vissuti con la madre prima che la violenta iniquità degli uomini s'abbattesse sulla loro umile casa. E codesto il dramma della tenerezza filiale che si desta al primo distacco, quando Agnese lascia la figliuola a Monza per tornare al paese, e s'acuisce penoso, straziante attraverso l'orribile peripezia del ratto, della prigionia nel castello dell'Innominato; si mitiga con mesto abbandono nella consacrazione di tutta se stessa alla Madonna, s'acquieta nella gioia della ricuperata salvezza, nella consolazione di riabbracciarsi alla madre, si ridesta nell'ora di un'altra separazione egualmente amareggiata dalla trepida visione dell' increscioso incerto avvenire. Il Manzoni ha sentito che tutta l'anima di Lucia gravitava attorno a questo nostalgico desiderio di riunirsi alla madre; e ne ha fatto il motivo sentimentale dell' ultimo dialogo. Ma attorno a questo motivo fondamentale del dialogo, l'addio doloroso, di fronte (1) Prom. sp., cap. XXVI, p. 383. il sempre oscuro avvenire, ha fatto germogliare, dirò così, altri due forti motivi, la rivelazione del voto e la premura di soccorrere Renzo esule e ramingo; onde alle patetiche note di quel più doloroso addio s'intrecciano i pensosi ricordi d'una sacra promessa, i trepidi accenti d' una carità umana, in cui tremola la fiamma del non spento amore. Quest'armonia di motivi interiori, così feconda di poesia, poteva non essere avvertita dal Manzoni? Poteva sfuggirgli il significato di quella separazione che non era la prima per le due donne nella fortunosa successione de' loro casi, e alla quale sarebbe seguito il flagello della peste e l'angoscia d'ignorare l'una la sorte dell'altra? E poteva il Manzoni immaginare che la nativa ritrosia della figlia, e que' motivi che le avevan fatto tacere la storia del voto nel primo ritrovarsi con la madre, fossero egualmente forti e resistenti nel suo cuore ora che doveva separarsene per lunga tempo? Io penso, dunque, che quell'ampia scena della separazione e della rivelazione del voto non solo convenga all'ordine logico degli avvenimenti, ma sia stata ispirata da una più lucida e vasta intuizione, ch'ebbe il Manzoni, rilavorando l'episodio, di quello che era il tenero dramma filiale di Lucia. IX. Con questa scena -- come dicevo -- ha stretta relazione quella dell'incontro di Lucia con Renzo nel lazzaretto, che nella minuta contiene la rivelazione del voto (*). Il poeta, nel rielaborare la materia del romanzo, le ha certamente meditate e raffrontate, riguardandole come due aspetti o momenti successivi nello sviluppo del dramma intimo di Lucia, cioè dell'interno combattimento tra il dovere religioso e l'indomito amore, che -- per quanto ho dimostrato -- si riveste di una pensosa serenità e pacata fiducia ne*^ voleri della Provvidenza soltanto nell'ultima forma, a cui l'ha inalzato il Manzoni in virtù di quel più puro e profondo spirito religioso, ond' è pervaso e rinnovato tutto il capolavoro. Dell'episodio del lazzaretto, quale si legge negli Sposi promessi, ha fatto una finissima analisi il Momigliano (*), rivelandone le innegabili bellezze, che rifulgono nel modo come il Manzoni tratteggiava con vigore e delicatezza i caratteri de' due giovini. Lo stupore di Lucia all' improvvisa apparizione di Renzo, «la piena coscienza», che poco dopo ella acquista, «della penosità della sua situazione»,. (1) Sp. prom., pp. 756, 759-63; Prom. Sp, cap. XXXVI, 535-40. (2) A Momigliano, op. cit., pp. 126-34. Cfr. Anche F. D'Ovidio, op. cit., pp. 608-11. "254 PARTE TERZA il ricordo del voto, che torna a signoregg-iarla, le memorie di tacite sofferenze che, ridestandosi in doloroso tumulto, le rinnovano l'angoscia, le ridipingono sul volto «una terribile, misteriosa incertezza», il lento trapasso dai tumultuosi ricordi alla comprensione del momento presente, agli sforzi, eh' ella fa, a grado a grado, per vincere il dubitoso pudore, più forte anche dell'amore, per tenersi ferma sotto la tempesta delle appassionate domande di Renzo, per raccoglier tutte le forze, tutta la rassegnazione, di contro l'amore che risorge più- straziante, per trovare finalmente nella serenità gagliarda del sentimento religioso l'aiuto necessario a far la rivelazione del voto; la meraviglia^ la trepidazione, lo spasimo mal contenuto di Eenzo, fluttuante tra il timore d' aver perduta la buona fiducia di Lucia pe' brutti casi occorsigli e «l'angoscioso dubbio che ella, fra tante sciagure, abbia dimenticato tutto il sue passato d'amore*, lo strazia di così vive commozioni contrastanti nell'animo dell'innamorato, quella sua ansia violenta di sapere tutto, con un abbandono d'nmore e d' ira insieme, il rimprovero crucciosamente appassionato pel voto, «la gioia amara» che egli vuol procurarsi coll'accertarsi che Lucia,, se non fosse il voto, sarebbe stata per lui; tutto questo conflitto di sentimenti e d'affezioni, acutamente rilevato nell'analisi del Momigliano, conferisce un carattere appassionato e pittorescamente drammatico all'episodio come il Manzoni l'aveva concepito nella prima stesura. Confrontata con esso, la scena dell' ultima redazione presenta -- oltre alcune modificazioni d'elementi^ sostanzialmente conservati, -- un tono lirico intimamente diverso, mancandovi la rivelazione del voto, che da prima colpiva inattesa l'animo di Renzo. Il Momigliano giudica che quel colloquio il Manzoni lo abbia nell'ultima redazione «per più rispetti guastato,» e afferma che r «avrebbe dovuto mantenere con poche mutazioni (*)» quale era nella forma primitiva. Mi consenta il nostro critico valoroso di dissentire alquanto dal suo reciso giudizio. La valutazione comparativa delle due forme dell'episodio è strettameute connessa con le ragioni del profondo mutamento operato. Che il motivo, non solo morale, ma, ad un tempo, artistico d'evitare il troppo forte contrasto, nascente dalla diretta rivelazione del voto di Lucia a Renzo in quel luogo di dolore e di morte, d'evitare -- cioè, l'inatteso, il romanzesco, l'esprit romanesque, teoricamente ripudiato -- come sappiamo -- dal Manzoni stesso, abbia influito nel rimaneggiamento della scena è lecito convenire; ma che (1) Op. cu., p. 118. nel medesimo tempo vi contribuisse una più profonda concezione etica e poetica di Lucia, e l'intento di armonizzare anche quell'appassionato colloquio col carattere di lei più raccolto, più pensoso, più delicato, quale ormai il Manzoni era venuto sviluppando nel grande lavorìo di meditazione e di ricostruzione psicologica e artistica dalle pagine primitive della minuta, credo risulti non meno evidente, dopo quanto abbiamo osservato intorno alla genesi di questo personaggio. Ciò non toglie che il colloquio dell'ultima redazione abbia parimente una sua vivezza drammatica; diversa da quella del primitivo, in solo quanto sono diversi i motivi immediati della contesa. E su questi motivi dobbiamo insistere con particolare attenzione. Nel primo il conflitto de' sentimenti e de' caratteri era determinato dalla rivelazione per sé stessa, dal doloroso sforzo che durava Lucia nel farla, dall'angoscia fremente di Renzo che doveva sostenere l'urto di un ostacolo impreveduto e lo strazio di combattere, ora, quando gli pareva d'aver ritrovata la sua felicità, un così grave impedimento; al quale, per contro, nell' ultima redazione, ha l'animo preparato e può opporre premeditati argomenti. E in questo, dacché al Manzoni era parso più conforme alla logica de' sentimenti e alla situazione psicologica della lunga, dolorosa separazione dalla madre, far che Lucia s' aprisse con lei su quel grave segreto che le tormentava il cuore, riceve piuttosto un nuovo sviluppo psicologico il contrasto de' due giovani nel modo di sentire e di valutare il voto fatto in quella terribile notte, spiccando in Lucia il sentimento religioso, che è più forte dell'amore, e in Renzo l'amore, che è più forte del rispetto all'obbligazione religiosa. Così -- secondo l'intenzione dell'autore -- il nuovo dialogo, diverso, ma non meno vario e animato del primitivo, s'inalza a grado a grado ad un significato morale, che in quello non aveva che scarso rilievo. Nella prima concezione il poeta aveva impresso alla scena un carattere squisitamente umano, risultante dall' affanno di Lucia, che, conturbata all' apparire di Renzo, è costretta a confessargli la crudele verità, e dal dolore atroce del giovane: dramma d' anime gagliardo sì, e bello nella sua gentile umanità, ma non così profondamente morale, come in un progressivo momento di più intensa religiosità piacque al Manzoni di trasformarlo. Vi conservo il carattere essenzialmente umano originario, ma lo rese, ad un tempo, più grave e grandioso, lumeggiandovi con nuova efflcacia l'intima lotta di Lucia tra la devozione religiosa e l'amore e quella, più aperta, di Renzo tra i diritti del suo amore e la validità del voto. Per ciò che riguarda Lucia quel colloquio, nella sua forma nuova, rappre senta, nell' ordine psicologico e drammatico degli avvenimenti ond' è ordita la fortunosa vicenda dei due sposi, il momento supremo di un diuturno contrasto tra lo scrupolo della coscienza e il sentimento: avvia dinamicamente alla risoluzione necessaria la situazione penosa in cui s' agitava Lucia sin dal giorno della libertà ricuperata, portando il combattimento del suo animo religioso con l'amore vinto, ma non domo, dal chiuso della coscienza in un campo più aperto e piìi pericoloso, di fronte a Eenzo che s'affaccia non più in immagine nel segreto pensiero, ma vivo ed «eloquente» col suo cuore, col suo amore, col suo dolore. È ormai chiaro che il Manzoni, nel lavoro di rifacimento e di correzione, ebbe cura di ordire con maggior ordine e chiarezza e più rigorosa coerenza la tela del travagliato amore di Lucia, che è certamente il fatto centrale, a cui convergono e -- se pur se ne dilungano -- finiscono col ricongiungersi tutte le fila del romanzo; nel quale la trista vicenda di Lucia si svolge per due, dirò così, ampie spire riflettenti l'odissea cristiana di chi cerca con puro cuore la giustizia e la pace tra gli uomini: l'una, che move dall' iniqua perturbazione delle nozze, sale coi tremuli riflessi dell' incerta speranza e si converte per ferrea necessità del destino nel pietoso avvenimento del ratto; l'altra, che move dalla liberazione miracolosa, ma segue il giro affannoso di un nuovo e non meno fiero contrasto, finché si rinchiude in sé stessa con la liberazione dal voto: due grandi momenti nella storia di Lucia, frammezzo i quali sorge il voto, che pronunzia la vittoria dell'innocenza sull'iniquità violenta, di Dio su Satana, ma che, se chiude la lotta con le malefiche forze del mondo, apre un più profondo conflitto della coscienza con sé stessa. Ora il poeta, giunto all' episodio del lazzaretto, ha voluto approfondire, più che non avesse fatto nella prima stesura, alcuni potenti motivi psicologici intrecciati ad uno straordinario caso di coscienza, rendere più complicata la situazione drammatica che ne deriva, svolgendola dal contrasto de' sentimenti e giudizi diversi, per essere diversi il carattere e le preoccupazioni morali dei due personaggi contendenti. Questo mutamento e sviluppo di motivi e, conseguentemente, d'atteggiamenti è conforme un suo criterio letterario, che appare chiaro in quella lettera al Fauriel nella quale si lagna che in Italia non si mirasse ad «approfondir les sentiments > e i poeti s'accontentassero volentieri «de l'invention d' évènements, de situations et de contrastes simpUs et tranchants, ed qui ne donnent lieu qu' à de crire des passions, pour ainsi dire, élementaires» (*). E veramente il modo come il Manzoni ha concepita la situazione di Renzo e Lucia nel colloquio del lazzaretto non si presta all'accusa di rudimentale semplicità, non lascia prevedere che ne possa derivare facilmente una soluzione netta e recisa, tanto che essi due col loro sentimento e coi loro ragionamenti non riuscirebbero a superare quella crisi penosa, se non intervenisse l'autorità di fra Cristoforo. E implicitamente da una parte lo scrupolo della coscienza religiosa e l'attaccamento all'obbligatorietà del voto in Lucia, dall'altra il timore di Renzo che i tanti casi occorsi abbiano mutato l'animo della sua promessa sposa, la pervicace opinione che il voto non possa distruggere il vincolo ond' ella è legata al suo cuore, non sono passioni e sentimenti di natura elementare. Nella prima redazione il contrasto dei due giovani sposi, generato -- come dicevo -- massimamente dair improvvisa rivelazione del voto, aveva tutta l'apparenza d'un colpo di scena; si svolgeva;poi per due momenti, nel primo de' quali combatteva il riserbo misterioso di Lucia con l'ansia sospettosa di Renzo, nel secondo lo scrupolo religioso dell' amata con la speranza del giovine nell'aiuto di fra Cristoforo. Era una scena, invero, altamente appassionata, tanto da far dire al Momigliano che «questo conflitto tragico, sorto e finito in pochi istanti, aveva, per se e pel luogo in cui avveniva, per i toni ora contrastanti ora concordi con l'ambiente, una grandezza che il Manzoni avrebbe dovuto vedere (^); ma -- a guardar bene -- la situazione fondamentale di quella scena, appunto per essere imperniata sulla rivelazione del voto -- causa di commozioni imprevedute ?, appunto per esservi in contrasto l'angoscia di Lucia, che, suo malgrado, deve finalmente svelare il suo segreto, e il dolore di Renzo, colpito mentre piìi giubilava di speranza, aveva, nella sua drammatica rapidità, qualche cosa di semplice e di reciso, né consentiva per ciò stesso, una lunga analisi de' sentimenti. Per contro, nella seconda redazione, l'una sapendo che ormai il voto non è più un segreto per l'altro, e questo essendo preparato a rimuovere con le ragioni del cuore e le argomentazioni della mente quell'ostacolo che s' era frapposto tra lui e il suo amore, ne viene un'analisi più delicata e complessa dello stato d'animo dei due contendenti, una più elevata complicanza d'elementi passionali, una situazione, insomma, in cui hanno maggior rilievo gli scrupoli religiosi di Lucia, la sua (1) Lett. cit. del 17 ott. 1820, in Cart. cit., pp. 496-7. (2) Op. cit., pp. 136-7. fermezza a sottomettervi le esigenze del cuore e la sua speranza, cresciuta col tempo, che Eenzo non dovesse più pensare a lei, e, all'opposto, i ben diversi sentimenti del fidanzato che, sebbene informato del voto, si ribella a sacrificarvi il suo amore, ha la coscienza che il vincolo del cuore valga pili d' una promessa fatta in un impeto di disperata angoscia, e non si rassegna a vivere arrabbiato per tutta la vita, a subire il male fattogli da don Rodrigo, dopo avergli perdonato e aver pregato accanto al suo letto di morte. Che nel rifare e ampliare il dialogo, il Manzoni mirasse a sostituire all' effetto, pateticamente vivace, dell' inattesa rivelazione quello di di un dibattito complesso, intricato e inestricabile fra la coscienza religiosa di Lucia e il forte amore di Renzo, s'intende anche dall'avere svolto il rapido e breve accenno di Renzo al buon consiglio del padre Cristoforo in una più aperta e più sostenuta speranza che il giovane mostra di riporre nell' intervento autorevole di quel sant'uomo; s'intende, altresì, dal frammischiare ch'egli fa alle molte parole di tenerezza e di cruccio accorti argomenti, quali il richiamo a don Rodrigo morente, fattogli vedere dal frate, e alla volontà, espressa da questo, che pregassero insieme. Lucia e lui, per 1'* anima di quel poverino», l'amorevole ammonimento che il loro persecutore non possa avere la grazia della salvazione, forse destinatagli da Dio, se non sia «disfatto il male che ha fatto» nel mondo, se non sia cioè consacrato e benedetto il loro amore che colui aveva scelleratamente offeso, l'oscura minaccia, fremente nelle ultime parole prorompenti con disperata eloquenza dal cuore senza pace, di dovere forse, a cagion di Lucia, maledire per tutta la vita «quel disgraziato», Il Manzoni, nel rielaborare la materia del dialogo, ha svolto e nobilitato, a un tempo, -- come meglio vedremo a suo luogo -- il carattere di Renzo, ingegno destro, indole focosa e cuor generoso; ha riatteggiata Lucia conforme quella più alta e pura concezione etico-psicologica a cui il Manzoni era. pervenuto -- come abbiamo più volte osservato -- approfondendone con nuovo vigor religioso i motivi e i caratteri morali. Lucia -- come il poeta l'aveva ideata la prima volta -- non supera le proporzioni di una buona sì, ma inquieta creatura terrena, in cui la passionalità e la pietà religiosa coesistono in giusto equilibrio, ma non sone fuse in quell'armonia spirituale che tempra d'umiltà e di fortezza cristiana anche il cuore commosso da sentimenti de' più teneri e de' più angosciosi. La scena del lazzaretto pur rifletteva l'anima religiosa di lei nella rivelazione del voto, nell'orrore con cui respingeva ogni idea di pentimento, nella riposata fiducia che suonava per entro quelle sue parole: «Ho ottenuto il miracolo, la Madonna mi ha salvata». Ma -- se ben si guardi -- era un pio moto del cuore, una commossa riconferma di gratitudine, rinvigorita dal ricordo di quella notte desolata e della grazia ricevuta: la brevità stessa e lo scopo del colloquio che si svolgeva senza forte dibattito di sentimenti e d' idee, non concedevano uno svolgimento largo e complesso al carattere religioso della protagonista e ai motivi passionali della scena. La coscienza religiosa di Lucia ha ben altro rilievo nell'ultima redazione dell'episodio: il dibattito è gagliardo, lungo e pertinace: non vengono a conflitto soltanto i sentimenti, ma le idee. Quel!' interrogare: «voi? che cosa è questa? in che maniera? perchè?», quel replicare, dopo le tenere parole di premura del giovane nel vederla ancora tanto pallida: «Ah Eenzo! perchè siete voi qui?», quel tornare sul medesimo pensiero: «Ma Renzo ! Eenzo ! giacché sapevate, perchè venire -- perchè ?» non solo denotano lo stupore e l'afifanno per r incontro inaspettato, ma lasciano intendere la sua ferma convinzione circa r irrevocabilità del voto e la sua meraviglia che Renzo non ne fosse egualmente persuaso. La logica di Lucia è diritta e conseguente e opera fin dalle prime battute del dialogo con franco vigore. Donde questo spedito atteggiamento, che durerà senza tentennare, non ostante i battaglieri argomenti di Renzo, sino alla fine, se non dalla coscienza religiosa, che è il fondamento delle sue idee morali, la scorta sicura di tutti i suoi atti? A me sembra cosa vana e superflua proporre il problema se una Lucia più inquieta, più perplessa, meno resistente al combattimento che le dà Renzo in nome del loro amore, sarebbe più vera, più umana, più artisticamente compiuta. Quando mai l'arte -- e massime l'arte de' grandi -- è stata l'immagine esatta della realtà comune e ordinaria che ci palpita attorno -- E che è il mondo poetico di uno scrittore se non la rappresentazione artistica delle sue idee e de' suoi fantasmi, in cui la realtà si trasfigura, si idealizza e assume le forme della spiritualità stessa dello scrittore? Noi dobbiamo cercare e valutare la verità artistica delle figurazioni e delle rappresentazioni, non più; e cioè la concretezza e l'immediatezza con cui il poeta esprime il suo mondo interiore. La Lucia del romanzo rinnovellato riflette lo sforzo più profondo e più severo che la religiosità del Manzoni abbia compiuto per rivelare tutta se stessa nelr elaborazione del capolavoro: vedere se il carattere, l'azione di questo personaggio, che s'estrinsecano nelle forme liriche e dram matiche dell'analisi descrittiva e del dialogo, rispondano alla verace concezione del poeta; vedere se egli l'abbia espressa con schietta ispirazione affettiva, con lucido vigore di fantasia, con serena armonia di colori e di toni; vedere se il nuovo carattere esca segnato della nuova impronta senza discontinuità di lineamenti, senza oscillazioni confuse di luci, questo, non altro, è debito dell' interprete dell opera d'arte. Sì, il Manzoni ha inteso ad inalzare col rifacimento della scena il dramma sentimentale a dramma morale, a diffondere sul segreto dolore di Lucia un fascio di luce religiosa: vigoreggia, non meno che nella primitiva situazione, una grande angoscia, ma è veramente angoscia d'anima cristiana, ferma nella sua fede, convinta dell' infrangibilità d'un patto stretto con Dio; che sente dall'interno suo risollevarsi l'onda de' dolci ricordi e del commosso amore, ma non transige, perchè il senso del divino l'ha pervasa, perchè l'imperativo morale la disciplina e la regge. Lucia emana una calda e vivida religiosità da tutto il suo essere: non ode, non vede, non sente, non giudica che attraverso quella fede potente e fiduciosa e severa, che le ha dato la forza di fare il grande sacrifizio del suo amore, di sopportare e di vincere gli sgomenti e i combattimenti del cuore. Lucia ha vissuto secoli di vita in quel momento supremo del suo destino, come in altro senso e con altra sorte l'Innominato, trasfigurato dal pianto e dalle parole dì lei, risonanti nella fosca coscienza come gemito d'umanità, che invoca e ama, come giudizio di Dio, che redime e perdona. Lucia dalla lotta con gli uomini, in cui il vero vincitore è stato Dio col salvare l'innocente insieme e il reprobo, è uscita pur lei trasfigurata: l'offerta, che le è parsa accetta, del suo bene più caro ha ingigantita la sua fede; prima di quella notte, prima del voto, era la buona e pudica fanciulla, aspettante la santificazione dell'amore; dopo, ritemprata dal dolore ineffabile, sublimata dal sacrifizio, illuminata dalla grazia, s' è sentita come compenetrata d' una nuova pietà e carità, r anima piena di un non so che d' austeramente divino. La voce di Dio copre i battiti del cuore; la coscienza religiosa riempie tutta la sua vita; il solenne olocausto, la grazia ricevuta hanno segnato un solco profondo nel suo cuore: il tumulto degli affetti può invaderla, non scuoterla: ella, da sola con le sue forze morali, non può piti tornare quella d'una volta: la sua volontà s'è legata a Dio. Come la nativa schiettezza di fede e d' umiltà l'ha resa capace di offrire a Dio tutta se stessa, così la medesima virtù la sorregge e difende nel conflitto coi rinascenti affetti della vita; il voto le ha infuso uno spinto sacro: ella ne ha coscienza; codesta coscienza, temprata di rassegnazione e d'abnegazione, è la nuova energia morale, che ne informa ii carattere. L'amore le può dare nuovo e piti straziante combattimento; ma non preverrà; se Lucia vacillasse tra sgomenti e improvvise speranze, ne sarebbe menomato il suo carattere religioso: la grandezza sacra di quel voto ne sarebbe oscurata e il profondo effetto morale di esso sperduto, e parrebbe vana la saldezza di quella convinzione d' essere stata salvata dalla grazia divjna solo in virtù del suo sacrifizio. Il Manzoni intuì quest'ardua situazione morale della coscienza religiosa di Lucia; vide che il centro vitale della trama avventurosa, ond' egli iiitesseva il romanzo della sua umile eroina, era lì, in quel nuovo stato di coscienza, generato dal voto; s'avvide che nella forma del primo getto codesto dramma morale non aveva la profondità e la magnificenza che la saa natura comportava; che, per esprimere r una e l'altra in tutta la loro pienezza, per dare all' ultimo e più grave combattimento il significato non di un contrasto d'amore, ma di una lotta di coscienza, di un conflitto tra ciò che è stato assunto come dovere religioso e ciò che si protesta come diritto del cuore, bisognava rattemprare il carattere morale di Lucia, infonderle uno spirito di più austera religiosità. E a questo intese con assidua cura nella ricomposizione del romanzo. Dalle prime parole, dalle prime scene alle ultime, Lucia si ripresenta nel romanzo atteggiata ad una cotal grazia più dignitosa ed eletta e splendida di una più pura e forte spiritualità: ne' discorsi accorati con Renzo furibondo contro don Rodrigo, ne' mesti pensieri d'addio durante la traversata notturna del lago, ne' colloqui con la strana signora di Monza, nelle separazioni dolorose, nelle invocazioni affannose ai bravi che l'avevano rapita, nel pietoso colloquio con r Innominato, nel travaglio della terribile notte, nella fiduciosa preghiera, nel suo pieno abbandono a Dio, nella promessa solenne, negl' interni combattimenti dopo la liberazione, ne' colloqui col cardinale, nella grandiosa scena, in cui rivela il voto alla madre, nella penosa lotta che il suo cuore sostiene con donna Prassede. Di vicenda in vicenda, di dolore in dolore, via via che si svolge la fortunosa vita di quest'umile figlia de' campi, inalzata ai fastigi del romanzo, attraverso i dolori della persecuzione, lo sbigottimento della fuga, il terrore dell' onta estrema, il fervore della fede cristiana, la gioia della salvezza, i dibattiti della coscienza, i palpiti indomabili del cuore, nella comunione dell'universale dolore, la figara di Lucia s'inalza progressivamente, attingendo dalla sven tura e dal sacrifizio uno spirito di raccoglimento pensoso, di rassegnazione, di fortezza cristiana, che le conferisce un non so che di semplice e profondo, d' umile e d' alto a un tempo. Il voto e il grande colloquio nel lazzaretto sono i supremi gradi, a cui s'aderge lo spirito di lei: non so se il Manzoni abbia sapientemente premeditato di creare un' intima correlazione delle due scene; ma io ne ricevo l'impressione che una segreta ispirazione comune le unisca, le mova, le faccia convergere nella medesima significazione spirituale. Quel grandeggiar della figura religiosa di Lucia di fronte all'uomo appassionato, lottante per l'amore e per la vita, ha origine da quella medesima fede con cui ella si votò alla Madonna. Tanta coscienza del nuovo dovere non può aver fondamento che nella consapevolezza d'averlo contratto con intento chiaro e risoluto. L'anima di Lucia davanti a Renzo è tutta dominata dai ricordi di quella notte: il disperato abbandono fino a desiderar di morire, la consolante preghiera, la ravvivata speranza, la subitanea idea, che l'era passata per la mente come raggio improvviso, di offrire a Dio, nella sua desolazione, quello che aveva di più caro, la solennità sacra dell' offerta; la «più larga fiducia» che le aveva inondato l'animo, il presentimento della grazia, che, poi, le venne concessa. Quel voto^ nella sua semplice e ingenua pietà, era diventato l'imperativo categorico della sua coscienza; era come un roveto ardente, che nessun vento di passione poteva disperdere ed estinguere. Il Manzoni, dopo avere rifusa e ritemprata la scena del voto nel modo che vedemmo, doveva, per la logica inesorabile della verità psicologica e artistica, presentarci Lucia, nel colloquio con Renzo, non meno grande e austera, non meno ferma e incrollabile di quello che fosse nella notte del sacrifizio; tra queir atto di speranza, di fede, di pia dedizione e il contegno che tiene di fronte a Renzo corre un intimo nesso spirituale, così che l'uno non è che svolgimento e compimento dell'altro, e ambedue sono i riflessi indifettibili di un'anima in cui la religione si fonde in uno con la moralità. L'alta figura cristiana di Lucia, quale il poeta venne ricostruendo con più commossa coscienza religiosa^ spicca tutta in queste tre scene, del voto, della rivelazione alla madre, del dissidio con Renzo. E non senza ragione sono state così profondamente mutate dalla minuta alla redazione definitiva, e la seconda è nuova di spirito e di forme: gli è che servono tutt' e tre allo sviluppo del carattere religioso di Lucia; tutt' e tre sono come le tappe drammatiche della dura e mesta milizia, che l'innocente in terra sostiene, passando tra le iniquità degli uomini e le forti passioni della vita. Prima del voto la Storia di Lucia è massimamente romanzesca e l'intreccio, che ne deriva, non richiede analisi sottili e profonde di complicati stati di coscienza; dal voto all'incontro con Renzo la sua storia si fa finemente psicologica e altamente drammatica: il contenuto morale e religioso del suo carattere, di cui presentiamo l'inesauribile ardore e vigore, ma che contingenze antecedenti non avevano eccitato e provato in supremi cimenti, si esplica nell'urto de' nuovi più terribili casi e massimamente nel conflitto interiore della coscienza. Il romanzo s' inalza a dramma e la figura di Lucia assume una grandezza etica e uno splendore nuovo di poesia. Ecco perchè, mentre nella prima parte della lagrimosa odissea -- salvo fugaci ritocchi qua e là, che ne illuminano di più gentile e soave luce la pittura morale -- non abbiamo dovuto rilevare mutamenti radicali attraverso le progressive redazioni; nella seconda, al contrario, il poeta ha quasi tutto rinnovato, o descriva la vita di Lucia fra gli ospiti di Chiuso, fra i suoi compaesani accanto alla madre, in casa di donna Prassede, o ne analizzi i sentimenti, gli affetti, i segreti commossi pensieri, o ne rappresenti nella viva azione dialogica il carattere morale e religioso. Il meraviglioso lavorio di rimeditazione etica, di ricostruzione psicologica e di figurazione artistica che il Manzoni è venuto compiendo sopra le pagine della minuta, più spesso frettolose e sbiadite che meditate ed efficaci, è proceduto dall'intuizione vigorosa e serena del grande problema spirituale che il voto in se stesso involgeva: a rappresentarlo nella sua vicenda complicata e travagliata occorreva volgere in forme più elevate la spiritualità di Lucia, approfondirne con potenza di luminosi rilievi le situazioni psicologiche e drammatiche, portarne, insomma, a più alto grado r idealizzazione poetica. L'unità morale ed estetica che regge e lega in un nodo indissolubile le tre scene, dianzi riavvicinate tra loro, non apparirebbe a noi così evidente, se il Manzoni non avesse dato all'anima religiosa di Lucia una vita più intensa e un maggiore sviluppo di atteggiamenti, accrescenjdo di valore e di energia la coscienza del voto e facendola operare come una potente forza morale nel conflitto coi ricordi d' un soave passato e con gli affetti radicati nel cuore. Questo -- se non m' inganno -- ha voluto il Manzoni porre in più splendida luce; l'esame comparativo delle tre scene può darne conferma. Nella tragica notte, seguita al ratto, l'ineffabile travaglio di Lucia si placa alla fine nel voto, che è l'unica risoluzione suprema di uno stato quasi mortale, l'unico argomento, in tanta desolazione, di speranza, di fede, l'unico balsamo allo spirito e a' sensi, che s' acquietano nel sonno continuo e tranquillo. Neil' ultimo doloroso colloquio con la madre, il sentimento, l'idea dominante è l'inviolabilità di quella promessa «così espressa, così solenne», suffragata dalla «liberazione così impreveduta», dalla certezza della divina grazia largita, dalla convinzione incrollabile che in tutta la vicenda de' suoi casi, compresa la separazione da Eenzo, «sia da vedere un chiaro segno della volontà di Dio» (^). Nel formidabile colloquio con Kenzo è la stessa idea morale che appassiona Lucia, ne investe tutti i sentimenti, ne invigorisce le parole con cui contrasta al cruccio, agi' impeti eloquenti, alle argomentazioni fieramente rigorose di Renzo. Renzo, allo stupore di Lucia per l'ardita impresa, da lui compiuta tra tante miserie e spettacoli di morte, con dogliosa gravità risponde che pei morti s'ha a pregar Dio e sperar bene della loro sorte, ma che «non è giusto, né anche per questo, che quelli che vivono abbiano a viver disperati». E Lucia insorge angosciosamente: «Ma Renzo! Renzo! voi non pensate a quel che dite. Una promessa alla Madonna!... Un voto!». Insiste il giovane nel tentar di scuotere la sicurezza di Lucia; ma ella pronta e severa: «....non sapete quello che vi dite: non lo sapete voi cosa sia fare un voto: non ci siete stato voi in quel caso, non avete provato». Lucia, nel contrasto con l'uomo, si accende sempre più di un fiero spirito religioso. Ecco: a Renzo dice forte: «Andate, andate, per amor del cielo !» e si scosta «impetuosamente da lui, tornando verso il lettuccio»; e poi rinforza: «Andate, oh andate! dimenticatevi di me: si vede che non eravamo destinati !»; e poi ancora: «Andate, per amor del cielo, e non pensate a me.... se non quando pregherete il Signore», e al «sentite. Lucia, sentite!» che fa Renzo, insiste, dopo essersi ancor più accostata al lettuccio, «come chi non ha più altro da dire, né vuol sentir altro, come chi vuol sottrarsi a un pericolo»: «No, no; andate per carità!». La sua anima, nel grande sforzo morale, si vela di mestizia cristiana: «Ci rivedremo lassù: già non ci si deve star molto in questo mondo Cercate di far sapere a mia madre che son guarita; (1) Lucia su questa sua idea torna a più riprese n«l colloquio: -- «Vedete come pare che il Signore ci abbia voluti proprio tener separati». -- «È il Signore che ha voluto che tutto andasse così: sia fatta la sua volontà».? «Fategli scrivere... la cosa... com'è andata., e che Dio ha voluto cosici. (Prora, sp., cap. XXVI, p. 386). ditele che spero che lei sarà preservata da questo male, e che ci rivedremo quando Dio vorrà, e come vorrà ...» Per Eenzo la causa è quasi perduta; ma l'uomo non indietreggia ed eccolo mettere in mezzo qualcosa che poteva toccare il cuore di Lucia: la figura veneranda, le parole amorevoli e incoraggianti di fra Cristoforo. Lucia è scossa dal sentire che il buon padre è lì, poco lungi da lei; ma, se si stacca «di nuovo dal lettuccio» e si riavvicina a Renzo, gli è (notate bene) perchè, vedendo il giovine esitare a dirle che pur troppo il padre l'ha addosso la peste, è involontariamente sospinta dall'ansia ancora verso di lui. La presenza, in quei luoghi, di fra Cristoforo non le desta in cuore che un senso di devozione, di premura, di pena nel saperlo malato: nessuna, sia pur vaga, speranza -- quale il Manzoni attribuiva Lucia (lo vedremo fra poco) nella primitiva concezione dell'episodio -- che potesse il padre intervenire a scioglierla dal voto. C'è, sì, un'apprensione anche per sé in quel «poveri noi!», ripetuto, ma, tutt'altra da quel sentimento, lascia trapelare l'angoscioso timore di perdere col sant'uomo il più valido conforto a tenersi ferma nel voto. Difatto Renzo ha un bel riferirle che il frate aveva approvato che andasse a cercar lei e aveagli promesso d'aiutarlo a trovarla; Lucia risponde, senza scuotersi: «Ma, se ha parlato così, è perchè lui non sa....» e compirebbe il senso della frase, se Renzo non la interrompesse bruscamente. Renzo s' affanna a farle intendere che è proprio fra Cristoforo che vuole che loro preghino insieme per l'anima di don Rodrigo; Lucia conviene che si debba pregare il Signore, ciascuno, però, nel proprio posto, e alle insistenze del giovine, ribadisce: «Ma Renzo, lui non sa....». Mancare al voto, fare il matrimonio, perchè sia «disfatto il male che ha fatto» don Rodrigo, e a questo possa esser così agevolata la misericordia divina? «No, Renzo, no» insorge Lucia con risolutezza: «Il Signore non vuole che facciamo del male, per far Lui la misericordia». Renzo ricorre da ultimo al presunto giudizio di Agnese: «non ve l'ha detto anche lei che l'è un'idea storta?»; ma Lucia, tra stupita e sdegnata, risponde: «Mia madre! volete che mia madre mi desse il parere di mancare a un voto!» E quanto a fra Cristoforo, è tanto sicura d'avere anzi da lui una convalidazione della sacra promessa, che congeda Renzo col dire: «Sì, sì, andate da quel sant' uomo»; «lui saprà spiegarvi le cose, e farvi tornare in voi; lui vi farà mettere il cuore in pace» (*). (1) Prom. sp., cap. XXXVI, pp. 536, 537, 538, 539. È curioso notare che nella scena primitiva la segreta passione di Lucia e il conflitto interno de' suoi sentimenti non avevano un vivo e manifesto rilievo, benché fosse nell' intenzione dell'autore di presentarci in lei una naturale perplessità tra l'amore e il voto, un'inclinazione, anzi, alla speranza che fra Cristoforo potesse toglierla da quel penoso imbarazzo. E dico nell'intenzione, poiché non già ?lampeggiava chiaramente dal dialogo il vago sentimento nuovo, ma era l'autore che ce ne voleva informare con un'aggiunta analitica dopo il colloquio. Lucia a Renzo, già avviato a ricercar del padre per averne aiuto e conforto, rivolgeva quest' ultime parole: «Ditegli che io ho sempre pregato per lui; che se può, venga a trovarmi, a consolarmi, e voi... voi...». A questa trepida reticenza il Manzoni soggiungeva: «? Non tornate più qui per amor del cielo! -- voleva ella dire, ma non lo disse. Dopo fatto quel voto, Lucia aveva sempre creduto di essersi legata irrevocabilmente, e non aveva supposto mai, che alcuna autorità potesse annullare un patto col cielo; aveva respinto come colpevole il pensiero stesso^ e non aveva mai confidato a persona il suo doloroso segreto. Ma quando Fermo parlò di una speranza nel padre Cristoforo, quella stessa speranza confusa entrò nel cuore di Lucia; le balenò nella mente un: -- chi sa? ?, intravide come non impossibile che il padre Cristoforo potrebbe trovare qualche mezzo ... e in quel dubbio ella stimò inutile di dire risolutamente a Fermo: «non tornate». Codesta dilucidazione, non assolutamente necessaria all' intelligenza del dramma, .smorzava la potente efficacia di quel «e voi... voi...», a cui restava sospesa la voce, l'anima di Lucia, mentre Renzo, che forse non ne aveva intesa l'occulta ansia mista di pena e di dolcezza, germogliata nel cuore di lei, correva via tutto preso dal pensiero di «tornar ben tosto» col frate. Ma, se possono esser superflue le parole dell'autore alla rappresentazione artistica, giovano a illuminare la concezione primitiva, che della situazione psicologica^ creata dall' inaspettata visita di Renzo e dalle affezioni di Lucia in quel momento, s'era fatto il Manzoni. Il quale -- conviene dirlo -- non riesci a darci con gli effetti del dialogo la netta immagine di Lucia, quale ei vagheggiava, d'anima agitata tra l'amore e il voto, tra la volontà legata alla solenne promessa e la confusa speranza di liberarsene con l'aiuto di fra Cristoforo, onde cercò di rimediarvi con un po' d'analisi introspettiva. Non vi riuscì con efficace immediatezza d'arte, ma certamente ne ebbe il proposito, e si aff'aticò a chiarirla, come attesta il tormentoso lavorio di correzione, a cui sot topose il passo sopra riportato (*). In effetto l'amore di Lucia nella prima redazione del dialogo non appariva evidente, ma ella lo lasciava intravedere piuttosto dallo sforzo aff"annoso della rivelazione che da aperte espressioni, e non riusciva più a nasconderlo se non quando Renzo le chiedeva risoluto e accorato: «Lucia !, se non fosse il voto...? dite: sareste la stessa per me?»; nell'ultima quell'intimo tormento del cuore è manifesto per più segni e più efficacemente vivaci: e trepida nelle parole di lei con altro spirito e suono dalla forma primitiva. Sarebbe dunque parso al Manzoni, nel ripensare il comportamento di Lucia in codesto drammatico incontro con Renzo, di dover rendere in modi più rilevati e coloriti l'inquieto agitarsi della passione combattuta, ma non doma? di dovere dare una forma più franca, più aperta all'espressione dell'amore? Se così fosse, se in realtà Lucia apparisse più appassionatamente innamorata nell'ultima dipintura, dovremmo ammettere che il Manzoni ha qui modificato quel criterio -- dominante nel processo d'elaborazione artistica di questo personaggio -- d'una rappresentazione più decorosa, più composta e più sobria, d'una idealizzazione poetica, più profondamente pensosa, del carattere e dell'amore di Lucia. Nel fatto, chi non si lasci ingannare dall'apparenza vedrà che certi toni di una più espressiva trepidazione d'amore della nuova scena non sono dovuti all'intenzione di tratteggiare con maggior vivezza l'anima innamorata di Lucia, ma si riflettono, piuttosto, dallo stesso fervore religioso, con che ella difende l'inviolabilità del voto. Nel principio del colloquio Renzo, fremente di dolore, incalza appassionato: «Oh Lucia! perchè venire, mi dite? Dopo tante promesse! Non Siam più noi? Non vi ricordate più? Che cosa ci mancava?». E un gran momento d'angoscia per Lucia: giunge le mani e alza gli occhi al cielo esclamando: «Oh Signore ! perchè non m' avete fatta la grazia di tirarmi a Voi...!» e, rivolta a Renzo, dice sgomenta: «Oh Renzo ! cos' avete mai fatto -- Ecco; cominciavo a sperare che... col tempo... mi sarei dimenticata,..». Sublimi parole d'anima ingenua e forte insieme, che alla presenza dell'uomo, di cui non avrebbe voluto «più saper nulla», teme non ritorni l'antico aff'etto, come al tempo de' primi sgomenti e combattimenti, a turbarla nelle prove di fede e di abnegazione durate con (1) Qu«l «dubbio» che trattiene Lucia dal dire a Renzo: «non tornate» era, nelle varianti, «pungente, ma non senza una dolcezza»; poi il Manzoni corresse in «penoso, ma d'una pena che Lucia non aveva sentita da gran tempo» (Sp. proni., p. 763, ji. 9). È evidente lo sforzo per cogliere e fissare in lucide forme lo stato inquieto di Lucia. assiduo sforzo per mantenere la solenne promessa, per obliare un passato pur tanto soave. L'amore lampeggia, è vero, in quelle altre parole vibranti d' accorata eloquenza: «Uomo senza cuore ! quando m'aveste fatte dir delle parole inutili, delle parole che mi farebbero male, delle parole che sarebbero forse peccati, sareste contento? Andate, oh andate! dimenticatevi di me; si vede che non eravamo destinati!». Ma voi sentite nel pianto di Lucia, in cui l'obbligo al voto, da lei sentito con religiosità profonda, non può soffocare del tutto l'amore, voi sentite che è la sua coscienza candidamente cristiana che soffre e che, mentre non sa rinnegare il tenero affetto, radicato nel cuore, si rafferma nella santità di quell'obbligo contratto con Dio. Parole «inutili» parole forse peccaminose sarebbero le sue: allora e sempre. A che prò? Più forte dell'amore è il destino che è in mano di Dio: così, tra lampeggiamenti d' affetto, s'aderge ognora -- come torre che non crolla -- l'alta coscienza del suo nuovo dovere: giacché ha avuta la grazia, la salvezza in virtù del voto, come, perchè scuotere la fedeltà d'una promessa coi pensieri d'una volta? Ricordate la «supplicazione accorata» con cui Lucia, rilevandosi dallo sgomento della memoria del voto, il primo giorno della sua liberazione, e riconfermando la promessa alla Madonna, aveva chiesto che «le fossero risparmiati i pensieri e l'occasioni, le quali avrebbero potuto, se non ismuovere il suo animo, agitarlo troppo? (*)». Il medesimo accoramento religioso palpita ora nell'anima combattuta dalle parole di Renzo; la medesima apprensione per quella più temibile fra le occasioni deprecate nella preghiera, le tortura l'anima pia, ora che la Provvidenza non gliel'ha voluta risparmiare, e le riaccende il fervore d'implorazione di quella giornata. Renzo, nel dire che fra Cristoforo era poco lontano di lì, insinua tra destro e tenero: «poco più che da casa vostra a casa mia... se vi ricordate..!». Un fiotto di soavi ricordi si risolleva dal cuore dì Lucia che geme: «Oh Vergine santissima!» Un grido, un'invocazione, non più. Ma quante cose espresse in quelle due semplici parole ! E quando Renzo al sentirsi dire che padre Cristoforo gli farà «mettere il cuore in pace» sfoga l'animo in quella parlata splendida di amore e di dolore, Lucia, quasi travolta dall'onda incalzante degli argomenti appassionati e acuti del giovine, quando «il pianto» le permette «di formar parole», invoca ancora la Madonna: «Vergine santissima, aiutatemi voi ! Voi sapete che, (1) Prom. s'p., cap. XXIV, p. 350. dopo quella notte, un momento come questo non l'ho mai passato. M'avete soccorsa allora; soccorretemi anche adesso!». E, insistendo Renzo con quelle parole: «Se è ch'io vi sia venuto in odio.,., ditemelo.... parlate chiaro», che sono un nuovo abile tentativo per strappare a Lucia una confessione aperta dell'amore combattuto, ma non vinto, ella con tragici accenti lo scongiura: «Per carità, Renzo, per carità, per i vostri poveri morti, finitela, finitela; non mi fate morire....»; e, dopo una pausa grave di disperato dolore, singhiozza: «Non sarebbe un buon momento >. Atti e parole, rivelanti non già il risorto conflitto, del tempo addietro, tra il dovere e l'amore, ma il turbamento profondo dell'anima religiosaCristoforo e di Lucia hanno avuto sapienti ritocchi che ora vedremo. Codesta scena, l'ultima che richiami la mia attenzione nello studio che sono venuto facendo attorno alla formazione del celebre personaggio manzoniano, ha subito soltanto quei mutamenti che comportava la più elevata concezione morale e religiosa^ onde il Manzoni -- come ormai ho largamente dimostrato -- ne ha rifatta la figura psicologica. Fin dal primo tratto, fin dalle prime parole, il tono è mutato. Aveva scritto il Manzoni: «Al riveder Fermo ella trasalì, e al vedere il padre Cristoforo balzò dal saccone di paglia, ov' era seduta, e gli si gettò incontro sulla porta. «Oh padre ! . . . Signore Iddio! come sta ella?» soggiunse poi tosto, vedendogli i segni della morte in vólto». Quel trasalire di Lucia non torna più nella scena rinnovata, ed ella, andando incontro al vecchio, grida non altro che: «Oh chi vedo! padre Cristoforo!». Il ritocco è stato opportuno, perchè quell'emozione ogni lettore intelligente l'intravede nell'alzarsi precipitosamente che fa Lucia e perchè acquista più rilievo di pietà e gentilezza quell'unico sentimento espresso di meraviglia e premura pel frate; le poche parole, poi, che le escono spontanee dalle labbra, rispecchiano la prima impressione che doveva provare Lucia alla vista del venerando uomo. Parla il frate, e Lucia, ormai giuntagli vicino, lo guarda attentamente, e allora, dominata da un senso di pietà devota, dice: «Ma lei, padre -- Povera me, com'è cambiato ! Come sta? dica: come sta? >: parole che nella fervida loro abbondanza coloriscono di più calda gentilezza il comportamento di lei. Nel seguito del dialogo c'erano delle esclamazioni oziose: «Oh padre! quanto tempo! quante cose!» Più delicatamente atteggiata è la nuova Lucia che non s'abbandona alle memorie del passato, alle quali più acconciamente accenna il frate con premura paterna e con gratitudine religiosa, né ha in quel momento altra affezione che non sia di pena e di trepidazione per lo squallido aspetto del suo protettore. La discussione sul voto procedeva meno alta e meno ampia; e Lucia alle parole scrutatrici del padre appariva remissiva e pronta a secondare quella vaga speranza eh' era già nata in lei. Vedete (1) Sp. prom.., pp. 767-9; Prora, sp., cap, XXXVI, pp. 542-4. quanto rapidamente si rivolgeva l'animo suo. Facendole osservare fra Cristoforo, come pur si legge press' a poco nel testo definitivo, eh' ella non poteva offrire alla Vergine «una libertà, della quale aveva già disposto», non riprendersi una parola già data «senza sapere, se quegli che l'aveva ricevuta, avrebbe consentito a restituirgliela», Lucia faceva quella naturale domanda, che è rimasta nel romanzo: «Ho fatto male?», ma l'autore lumeggiava il nuovo stato d'animo di lei, soggiungendo che la domanda era fatta «con sorpresa, e con un rimorso che non era tutto doloroso», mentre poi, omesso codesto significativo commento psicologico, non risuonano che quelle semplici parole interrogative denotanti lo stupore, senza il pentimento mondano, il dubbio, senza la compiacenza d'averne un profitto. Ne guadagna la pura e alta coscienza religiosa di Lucia. Poi la scena continuava: «Ed ora, prosegui egli, che vi dice il vostro cuore di quel voto ?» «Che vuol ella che me ne dica?» rispose Lucia arrossendo più che mai e chiudendo quasi del tutto gli occhi, eh' erano già chini a terra». «Se non lo aveste fatto, lo fareste?» «Se,., non fossi in quel pericolo ... in un grande pericolo... e poi. se non è permesso . . . non lo farei». «Se non lo aveste fatto, sareste tuttavia risoluta di sposare quell'uomo, a cui avevate promesso?» «Io credeva... che fosse male il pensarvi... ma poiché Ella me lo domanda... ah, padre, sì!». Non faremo un appunto al Manzoni d' aver fatto parlare così la sua Lucia nella prima stesura: che anzi in quel discorso rotto, sospeso, incerto, e' è tutta l'anima che, sentendo allentarsi il vincolo religioso, torna ai palpiti d'una volta: c'è tutta l'anima combattuta con egual forza dall'affetto e dal sentimento del dovere, quale l'aveva pensata e figurata il poeta nella prima concezione. Secondo l'ultima, più profonda e severa, Lucia, anche nel colloquio col frate, non cede alla persuasiva autorità delle solenni argomentazioni e dichiarazioni di lui se non attraverso un laborioso e contrastato rivolgimento della coscienza. Ella è ferma e sicura di sé, da quando il frate l'invita a confidarsi in lui. Nel testo primitivo, alle parole del suo interlocutore: «Fermo mi ha detto che avete fatto voto di non maritarvi», rispondeva: «È vero» arrossendo: e c'era in quest' atteggiamento qualcosa di confuso, di trepido, di pudibondo. Più netto e preciso è nel nuovo testo il tono della risposta, che alla domanda vaga del padre: «Cos'è codesto voto che m'ha detto Renzo?» ella dà con espressa compiutezza di pensiero: «E un voto che ho fatto alla Madonna ... oh ! in una gran tribola zione!... di non maritarmi», dove senti in quella sospensione di mezzo non una nota di trepidazione pudica, ma la commozione affannosa de' ricordi. Lucia non tentenna, «Ma avete pensato, allora, ch'eravate legata da una promessa»? le chiede fra Cristoforo; ed ella, con candida meraviglia, che rivela la fermezza della sua fede, risponde: «Trattandosi del Signore e della Madonna ! . . . non ci ho pensato», E richiesta se si fosse consigliata con nessun religioso sul voto, con altrettanta sicurezza soggiunge: «Io non pensavo che fosse male, da dovermene confessare: e quel poco di bene che si può fare, si sa che non bisogna raccontarlo». Si confronti l'accento vivo di gravità religiosa che il Manzoni ha dato a questo punto del dialogo, col passo sopra riportato della prima stesura, dove il frate- procede con tono un po' casistico a scrutare il cuore di Lucia, prima di venire alle formule preparatorie del proscioglimento. Più sobrio, più conciso e penetrante procede il dialogo nella nuova forma. «Non avete nessun altro motivo che vi trattenga dal mantenere la promessa che avete fatta a Renzo» ? «In quanto a questo . . . per me . . . che motivo -- . . . Non potrei proprio dire...» rispose Lucia, con un esitazione che indicava tutt'altro che un'incertezza del pensiero; e il suo viso, ancora scolorito dalla malattia, fiorì tutt' a un tratto del più vivo rossore» . E notevole codesta tinta di soave pudore con che il Manzoni ravviva la pittura delicata di queir esitazione che si riapre alla confidenza e alla gioia dell'amore. Anche prima Lucia arrossiva: un po' troppo anzi, così nella conferma della notizia del voto, come nella titubanza a dire cosa ne sentisse nel cuore, e chinava spesso gli occhi a terra. Esagerazione di toni e di sfumature, tanto più disdicevole a quel non so che di gaiezza che serpeggia nelle parole di lei. La nuova Lucia arrossisce una sola volta e «del più vivo rossore», ma in un momento di gran commozione del cuore innamorato; ed è questa una pennellata che, armonizzando con la raccolta e sobria luce del ritratto morale, la tinge di gentile umanità e di delicata passione. Il cuore ripalpita come ne' tempi della gioia tranquilla, ma la coscienza ancora nou s'acquieta: l'autorità di fra Cristoforo è grande, ma troppo vivida e pura fiamma è la fede di Lucia, troppo rigorosa la sua logica spirituale perchè si giocondi, senz'altro, della nuova speranza. E uno de' più luminosi esempi del modo come il Manzoni ha elevato il carattere di Lucia è nell' esitante e ancor battagliero atteggiarsi di lei "alle risolutive parole del padre: «io posso, quando voi lo chiediate, sciogliervi dall' obbligo». «Ma non è peccato tornare indietro, pentirsi d'una promessa fatta alla Madonna? Io allora l'ho fatta proprio di cuore...» soggiunge Lucia. In quest'atto la Lucia dell'ultima forma ci si presenta con quell'impronta di religiosità pura e forte, ond'ella uscì nobilitata dalla elaborazione del romanzo. Il poeta, secondando il suo spirito d' indagine introspettiva, non s'accontenfa di quell'efficace rappresentazione e la illumina d'analisi, dicendo che Lucia era «violentemente agitata dall'assalto d' una tale inaspettata, bisogna pur dire speranza, e dall' insorgere opposto d'un terrore fortificato da tutti i pensieri che, da tanto tempo, eran la principale occupazione dell'animo suo». Quando finalmente il frate le ribatte con cresciuta vivacità di persuasione che non fa peccato col ricorrere all'autorità della Chiesa, perchè le sia resa la parola data a Eenzo, e la sollecita, anzi desidera, eh' ella gli chieda d' essere sciolta dal voto. Lucia, facendo forza a' suoi scrupoli, dice: «Allora. . . ! Allora. . . ! lo chiedo» «con un volto -- aggiunge il Manzoni -- non turbato più che di pudore». E codesto un altro bel tratto di soave verecondia a un tempo e di commossa tenerezza, che Lucia prima non aveva. Era, anzi, presentata in questo momento delicatissimo sotto tutt'altra luce, avendo il poeta più la mente alla gravità ieratica della scena che agl'intimi moti di Lucia. Dettole il frate se domandasse alla Chiesa d'essere sciolta dal voto. Lucia rispondeva: «Lo domando» «con una prontezza, alla quale Fermo non ebbe nulla a desiderare, e che potrà parere forse troppa a chi, non essendo stato presente a quell'atto, non rifletta che la solennità della richiesta^ l'aria autorevole di chi l'ha fatta non lasciavan luogo a titubamenti leziosi, e che ivi la verecondia doveva essere tutta nella sincerità» . Se il proposito di studiare solo nelle linee sostanziali la formazione di questo personaggio manzoniano attraverso i tentativi, gli sforzi, i rifacimenti e i ritocchi, con cui il poeta l'ha via via ideato, ricomposto e immutabilmente effigiato nell'ultima forma, non mi distogliesse da analisi minute, sarebbe interessante osservare anche le particolarità e le sfumature di quest'arte, non meno grande che laboriosa, che la fortunata conoscenza delle prime prove ci mette in grado d'indagare intimamente e d'intendere perspicacemente. C'è ne' grandi scrittori de' fuggevoli tratti, che, in ragione diretta della unità organica di comprensione e di rappresentazione, rivelano la visione interiore dell'artista non meno de' rilievi più risentiti ed evidenti. Vedete il modo come Lucia domanda d'essere sciolta dall' obbligo del voto nel primo getto e neir ultima forma del romanzo. Era parso, da prima, al Manzoni di doverla atteggiare animata da una sollecita prontezza qual' era richiesta dalla forza di quell'autorità che le offriva, come ministro di Dio, fra Cristoforo. Chi avrebbe mai pensato che il Manzoni, dopo avere anzi argomentata questa che a lui doveva parere una convenienza non meno artistica che psicologica e morale, modificasse una concezione così chiaramente e saldamente formata e atteggiasse in modo quasi opposto l'anima di Lucia nell'estremo di quella situazione? Eppure è così: in quel ripetere ad intervalli non lievi queir «allora > con grande commozione, mista di trepidanza e d'obbedienza, c'è tutt' altra aria di sentimento da quel reciso «lo domando» della primitiva redazione; e il grigio periodo, nel quale l'autore aveva voluto ragionar a bello studio su quella prontezza di Lucia, è dileguato per dar luogo alla pennellata luminosa di quel «volto» (chi non l'ha sempre presente il volto di Lucia, durante la scena, non troppo chino per eccesso di pudore, ma umilmente attento agli occhi, alle parole del frate?) di quel «volto» «non turbato più che di pudore». L'episodio s'intrecciava, nella minuta, ad una scena improvvisa, che destava in Lucia «una grande paura», in fra Cristoforo e in Renzo «una grande compassione»: l'apparire, cioè, di don Rodrigo «ritto sul mezzo dell'uscio», «smorto», «rabbuffato», mezzo ignudo, con lo sguardo attento e insensato e con nel viso i segni d'una paura mista a furore, a curiosità, a sospetto. Fosco spettacolo, d' un colorito crudamente romanzesco non meno di quello che offriva, di poi, la fuga forsennata dell' infelice su un cavallo di monatti fino a che, caduto giù morto, veniva gettato su un carro «per andarsene alla fossa» (*). Lucia inquieta, sgomenta, poi rassicurata dal padre, mentre gli veniva dietro «1 agri man do» «sulla grande strada», assisteva alla triste fine del suo persecutore; quindi, con nel cuore la pia esortazione del padre a pregare e a far pregare Renzo e i lor figliuoli per quella «povera anima», se ne tornava «compunta di quella separazione, e atterrita dallo spettacolo, a capo basso e col petto ansante alla sua capanna». Queste due scene -- come ognuno sa -- andarono soppresse ne' rifacimenti ulteriori, o che spiacesse al Manzoni il troppo risentito «esprit romanesque» che le pervadeva^ o che un motivo di più alta pietà religiosa lo dissuadesse dal far morire a quel modo don Rodrigo, o, meglio, per tutt'e due insieme queste ragioni. Anche a Lucìa, di riflesso, il poeta ha creata una diversa situazione psicologica e drammatica, svolgendo con nuova copia di mo (1) Sp. prom., pp. 770-5. tivi e maggior larghezza d'analisi i sentimenti e gli atti dei due giovani e di fra Cristoforo in queir estrema separazione. Oltre il dono del pane del perdono, che il vecchio lascia loro in ricordo, più ricco è il dialogo e meglio studiata ed espressa l'apprensione di Lucia pel venerando suo protettore, consunto dalla peste (*). C'era nella minuta, dopo la benedizione del padre, che finiva col raccomandarsi alle preghiere dei due sposi, questo tratto: «Queste parole, che richiudevano come un presentimento, e un tristo addio, rinnovarono nell'animo di Lucia l'impressione dolorosa, che le aveva prodotto l'aspetto di chi le proferiva. Levò ella gli occhi quasi involontariamente, tutta commossa, a riguardarlo di nuovo...» (^). Il motivo non ne è andato perduto, ma anzi ritorna, ritemprato di pili viva tenerezza devota, due volte nel proseguo del colloquio, quando all' «andiamo» che il frate rivolge a Renzo, Lucia dice: «Oh padre! Ja vedrò ancora? Io sono guarita, io che non fo nulla di bene a questo mondo; e lei..,!» e quando all' «Arrivederci, Lucia...!» di Renzo, già avviato col padre, ella esclama: «Chi sa se il Signore ci faccia la grazia di rivederci ancora tutti!» (^). Così la Lucia della minuta, che passava dall' «impressione dolorosa», ridestatale in cuore dalle pie raccomandazioni del frate, allo sbigottimento, allo «strido repentino > nello scorgere sulla porta della capanna don Rodrigo; che restava «ancora tutta tremante» dopo la fuga del disgraziato; che < mista alla commozione» rivelava sul viso «una grande inquietudine» per quell'orribile apparizione e seguiva il frate «lagrimando»; finché se ne tornava nel modo che abbiam visto alla sua capanna, questa Lucia, inquieta e lagrimosa, s'è ricomposta, nell'ultima forma dell'episodio, in una cotal dogliosa mestizia pacata, che forti emozioni improvvise non interrompono né perturbano; ond' è resa più piena e armoniosa la rappresentazione di quel rassegnato dolore, accomunante le anime degl'interlocutori, ma che, se non si esprime in atteggiamenti di compunzione e di pianto, s'eifonde tuttavia nell'azione del dialogo, nelle parole, che dice al frate, così piene d'umiltà, di carità, di speranza. Fino all'ultimo, fino all'estreme battute delle grandi scene ideate, il Manzoni non ha cessato dal riconcepire e dal riatteggiare, con rinnovato vigor religioso e più delicata armonia di luci e di colori, questa purissima creatura del, suo cuore e della sua fantasia di poeta cristiano. (1) Prora, sp., cap. XXXVI, pp. 544-6.;2) Sp. prom., p. 770. (3) Proni. Sì3., ivi. La genesi e la composizione poetica di Gertrude I. Il motivo delle vocazioni forzate e la genesi etico-religiosa della «storia» di Gertrude. -- II. Effetti della rigida interpretazione storica de' personaggi nella prima redazione e la maggiore indipendenza del poeta nell'ultima: [la famiglia di Gertrude; il comico nella primitiva concezione de' personaggi minori]. -- III. Rinnovamenti e sviluppi d'analisi nell'ultima redazione al fine di raggiungere maggiore unità e coerenza psicologica ed estetica del carattere di Gertrude adolescenle [il primo fallo; la prigionia; la vergogna e il pentimento; la sottomissione]. -- IV. Procedimenti di chiarificazione e di condensazione al medesimo fìne. [il perdono; la conciliazione; il breve giro tra gli splendori mondani prima della vestizione; il principe e Gertrude nell'avviarsi al monastero per la richiesta]. -- V. La progressiva idealizzazione poetica di Gertrude negli episodi anteriori alla monacazione [la visita al monastero; la richiesta; il vicario delle monache e la scena dell'esame; dopo il colloquio]. -- VI. La correzione, dovuta a questo processo d'idealizzazione poetica, delle troppo forti tendenze della prima stesura al psicologismo sottile, al realismo comico, allo storicismo e al moralismo satirico. -- VII. Il dileguarsi del romanticismo patetico e pittoresco della prima stesura al sóffio vigoroso di classicità che penetra e rinnova l'arte del poeta [la vigilia della professione de' voti; la vita nel chiostro]. -- VIII. Gli splendidi segni di questo rinnovamento classico nell'analisi del colpevole amore di Gertrude e nella rappresentazione de' suoi delitti. -- IX. Le fosche scene della prima stesura, disignate sotto gl'influssi delle tendenze suaccennate, e la nuova umanità onde il poeta ha rifuso il carattere tragico di Gertrude. -- X. Alri riflessi di quella classicità artistica rinnovatrice [il ritratto di Gertrude; la scena della presentazione di Lucia alla signora; il contegno di questa nel colloquio successivo e di poi, fino al giorno del tradimento]. -- XI. La scena in cui Egidio trascina Gertrude alla complicità nel ratto di Lucia: genesi di essa e ragioni della soppressione fattane dal Manzoni nel rifacimento dell'episodio. La rapida narrazione che vi ha sostituita: suo alto valore poetico. -- XII. Discussione conclusiva sulla trasformazione totale dell'episodio monzasco e sui motivi e i fini del poeta. I. Il Massillon in un suo vivace ed acuto sermone Sur la vocation prende in esame gli errori nella scelta dello stato e il nefasto uso delle monacazioni e de' sacerdozi forzati, ricercandone le cause e descrivendone le conseguenze con tale rigore d'argomentazioni, con tanto zelo religioso e con sì franca comprensione della vastità del male, imperversante nel suo secolo, che propendo a credere non fosse sfuggito così bel sermone all'assidua meditazione del Manzoni nel concepire e disegnare la storia della forzata vocazione di Gertrude. Il grave problema morale, che il Manzoni fa scaturire dai casi di questa infelice attraverso le riflessioni sulla cronistoria contemporanea, è quel medesimo che s'era proposto il Massillon, il più acuto e il più fine, nelle analisi psicologiche, degli oratori sacri francesi così familiari allo scrittore lombardo; e i motivi etici e sentimentali, che si svolgono trasfigurandosi in risentite e lucide forme di vita nella mirabile analisi manzoniana, presentano una rilevante affinità con quelli onde fluisce la calda parola del facondo vescovo di Clermont. Nel sentire quei biasimi delle arti della menzogna e della perfldia usate dai padri verso i figli: «on leur exagère tous le jours les inconvenients d'un état ou l'intérét d'une maison ne les demande pas; on leur enfle les avantages et les agréments de celui auquel on les destine; et l'on ne se sert que de leurs passions, pour leur inspirer un choix, qui doit les conduire à combattre» ('), ripensiamo alle ipocrite parole del principe, dopo il primo fallo di Gertrude: «eh' essa doveva vedere in questo triste accidente, come un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei» (*); al gran conversare che fanno il principe, la principessa e il principino, durante il tragitto al monastero di Monza, su «gì' impicci e le noie del mondo e la vita beata (1) Serm. cit., in Oeuvres, voi. Ili, p. 138. (2) Prom. sp., cap. X, p. 143. del chiostro, principalmente per le giovani di sangue nobilissimo» (*); ripensiamo ai discorsi frequenti in famiglia sui «destini futuri» della fanciulla, che «stampavano nel cervello» della poveretta «r idea che già lei doveva esser monaca» (=^), alle arti de' «parenti» e delle «educatrici» che «avevan coltivata e accresciuta in lei la vanità naturale per farle piacere il chiostro» (^). Quella figura del principe, non d'altro smanioso che di «conservare» le sostanze, «almeno quali erano unite in perpetuo» onde «aveva destinato al chiostro tutti i cadetti dell'uno e dell'altro sesso», figura «di ricco signore, avaro, superbo, ignorante», com'era ritratto, con più vivo color locale nella primitiva pittura degli Sposi Promessi {*), ha un'adeguata illustrazione ne' fieri ragionamenti del Massillon contro il feroce pregiudizio di scambiare l'ordine della natura coi disegni di Dio, onde «on n'attend point d'autre marque de vocation quc le rang de la naissance, ou la situation de la fortune; qu' étre né le premier dans une famille, c'est étre choisi du ciel pour succèder aux titres et aux dignités de nos ancétres» (^), contro il pregiudizio dell'unità de' patrimoni e del fastoso decoro nobilisco (^). Diceva il Massilon delle destinazioni irrevocabili: «Une démarche ou la circonspection la plus attentive devroit encore craindre de' se méprendre, est toujours l'ouvrage des amusements et des goùts puérils de l'enfance: à peine commence-t-on à bégayer, qu'on décide déja de l'affaire la plus sériuse de la vie; et ces paroles irrevocables qui prononcent sur notre destinée, son les premières (1) JMd., p. 148. (2) Proni, sp., cap. IX, pp. 132, 133. (3) Ibid., p. 134. Nella minuta più distesamente si toccava delle passioni che venivano fomentate e favorite nella fanciulla, massime «l'orgoglio», «gli alti spiriti, la dignità, il sussiego: qualità tutte che manifestavano un'anima nata a governare qualunque monastero» (Sp. proni., p. 178). (4) Sp. prom., p. 177; Proni, sp., cap. IX, p. 132. (5) Serm. cit., in Oeuvres, voi. Ili, p. 138. (6) «Eh! quoi, mes Frères ?rimbrotta il Massillon -- pour ne partager vos biens, vous sacrifiez vos enfants, et le fruit de vos entrailles* Mais, ajoutez vous, il seroit desagréable de les voir trainer leur nom, et prendre des partis peu convenables à leur naissance». Ma -- incalza l'ardente oratore -- «une fortune mediocre parottelle plus affreuse à vos yeux que leur infortune éternelle» i (Ibid., p. 140). Eli Manzoni scriveva del Marchese Matteo, divenuto, poi, il principe de' Proìnessi sposi: «Avaro, egli non avrebbe mai potuto persuadersi che una figlia dovesse costargli\.^ una parte delle sue ricchezze: superbo, non avrebbe creduto che nemmeno il ri- >r sparmio fosse una ragione bastante per collocare una figlia in luogo men degno della nobiltà della famiglia; ignorante, egli credeva che tutto ciò che potesse mettere in salvo nello stesso tempo i denari e la convenienza fosse lecito, anzi doveroso» (Sp. proni., p. 177). qu' on nous apprend à former, avant méme qu' on nous ait appris à les entendre. On accoutume de loin notre esprit naissant k ces images suggérées; le choix d'un état n'est plus qu'une impression portée de l'enfance ...» (*). Sulla trama di queste coraggiose riflessioni par che rifiorisca quella frase manzoniana, vibrante preludio al racconto della triste vita di Gertrude: «La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita»; e le «bambole vestite da monaca»,? «i primi balocchi che le si diedero in mano» e poi i «santini otc rappresentavano monache» e quella frequente esclamazione di tutti: «che madre badessa!» nel «voler lodare l'aspetto prosperoso della fanciullina» e gl'insinuanti discorsi sul tema della prefissa vocazione e quelli della piccola Gertrude, fra le sue compagne d'educandato, su «i suoi destini futuri di badessa, di principessa del monastero» (^) par che diano vita e movimento di forme concrete e precise alle morali meditazioni del Massillon. Ma queste non sono che somiglianze di particolari episodici. Dove il contenuto etico e psicologico dell'infausto sacrifizio di Gertrude e principalmente del suo carattere, pervertito dall'altrui perfidia crudele, e di quello del principe ha una più viva affinità d'ispirazione e di concezione col sermone del Massillon^ è nell'analisi di quella paurosa e suggestiva potenza che il tiranno esercitava sulla sua vittima e di quella vita d'amarezze, di dispetti e di crucci in cui è travolto l'animo della sacrificata. «Des parents barbares et inhumains -- esclama l'oratore francese -- pour élever un seul de leurs enfants plus haut que ses ancétres et en faire V idole de leur vanite, ne comptent pour rien de sacrifier tous les autres et de les précipiter dans l'abìme; ils arranchent du monde des enfants à qui l'autorite seule tien lieu d'attrait et de vocation pour la retraite (^), ils conduisent à l'autel dea victimes in fortunées qui vont s' y immoler d la cupidité de leurs pères, plutót qu'à la grandeur du Dieu qu'on y adore; il donnent à l'Église des ministres que l'Église n'appelle point et qui n'acceptent le saint ministère qu' un jouq odieux, qu'une injuste loi leur impose; enfin, pourvu que ce qui paroìt d'une fa-' mille éclate, brille, et fasse honneur dans le monde, on ne se m,et (1) Serm. cit, p. 135. (2) Proni, sp., loc. cit. (3) Serm. cit., p. 147. E più innanzi, fra le conseguenze delle vocazioni forzate nota «tant de révolte, d'ennui, d'araertume dans les cloitres»,(iMd., p. 148). point en peine que des ténébres sacrées cachent les chagrins, les dégoMs, les larmes, le désespolr de ce qui ne paroìt qu'aux yeux de Dieu». Sono sparsi in questa pagina eloquente i medesimi motivi ricorrenti neir episodio manzoniano: il terribile potere del principe sulr animo della figlia, l'empietà del sacrifizio, l'abborrimento del giogo subito.fLa suggestiva autorità paterna si sostituiva ad ogni sentimento e affetto contrario della figlia predestinata al sacrifizio: autorità cupa, imperiosa, minacciosa in tutte le circostanze fino all'ultimo, così che quel padre nell'animo di Gertrude fanciulletta «imprimeva il sentimento d'una necessità fatale»,ne legava la volontà al prefisso destino col perdono condizionato, lasciandola «sbalordita» e muta; l'incatenava con lo sguardo mentr' ella si presentava al monastero per fare la richiesta alla badessa e ne troncava gl'interni combattimenti, quando la poveretta «scorse» sulla faccia del padre «un' inquietudine così cupa, un' impazienza così minaccevole che, risoluta per paura, con la stessa prontezza che avrebbe preso la fuga dinanzi un oggetto terribile», precipitava dopo il perplesso «son qui» a chiedere da sé stessa la sua condanna (*). L' empietà del sacrifizio preparato dalla cupidità e dal terrore suggeriva al Manzoni nella prima composizione quell'ascetico commento che arieggia appunto il fare dell'oratore francese: «Il sacrificio fu consumato, il dono fu posto sull'altare, ma era di frutti della terra; la mano che lo aveva posto non era monda; il cuore non l'offriva; e lo sguardo del cielo non discese sovr' esso» (*). Infine l'odiosità del giogo, le torbide rivolte dello spirito, la nera noia, la disperazione, quali sentiamo descritte o accennate dal magniloquente oratore, ritornano con piìi potente vigore rappresentativo in quell'analisi manzoniana: «L'infelice si dibatteva sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e le scosse. Un rammaricò incessante della libertà perduta, l'abborrimento dello stato presente, un vagar faticoso dietro a desideri che non sarebbero mai soddisfatti (^), tali erano le principali occupazioni dell'animo suo» (^). E quelle conseguenze delle (1) Prom. sp., cap. IX, pp. 143, 148. V. anche a p. 155: «Tutte quelle risoluzioni sfumavano alla considerazione più riposata delle difficoltà, al solo fissar gli occhi in viso al padre». (2) Sp. prom., p. 227. (3) Un somigliante concetto è in quel luogo del Massillon: «l'épouse de Jesus Christ insensée ne forme des désirs que pour ressembler à la femme du monde» (toc. cit). (4) Prom. sp., cap. X, p, 156. 284 PAETE TEKZA false vocazioni che il Massillon notava osservando: «il apporte pour , '^ tonte maro uè de vocatìon à un ministère d'humilité, des vues d'éle C\^' '^^^''^^ *^^ ^^ gioire; à un ministère de travail et de sollicitude, des ^S espérances de ripos et de mollesse; à un ministère de désintèresse fment, de modestie et de charité, des projets de luxe, de profusion et d'abondance» (*) sono della stessa specie dì quelle fallaci «consolazioni» che a Gertrude «pareva talvolta di trovare nel comandare, neir esser corteggiata in monastero, nel ricever visite di complimento da persone di fuori, nello spuntar qualche impegno, nello spendere la sua protezione, nel sentirsi chiamar la signora» (^). Ma un ritratto pieno e complesso d'anima forzata alla vita del chiostro, e che ci richiama alla figura di Gertrude e alla storia della sua caduta, ci è offerto in questa vivida pagina: «Le solitaire, ou la vierge consacrée à lésus Christ, s' étant chargés d'un fardeau pesant, et n'ayant pas regu l'onction sainte qui l'adoucit, traìnent indolemment et ménte avec murmure le joug, loin de le porter avec allégresse; rendent au monde un coeur qu' ils n'avoient jamais bien donne au seigneur, cachent sous les dehors de la morV tification mille désirs profanes; retrouvent dans le silence de la re traite les images dangereuses des plaisirs, mille fois plus à craindre pour le coeur que les plaisirs mèmes: aim.ent ce qu' ils ne peuvent plus posseder; tombent loin des périls et d'un lieu de sùreté se font une occasion de chute (^).». Così è la celebre signora, nel cruccioso rimpianto del passato, nelr inquieto fantasticare in preda alle sue passioni, negli scoppi di rabbia iraconda e tanto più ne' tratti crudemente risentiti che -- come vedremo -- il Manzoni aveva conferito al primitivo disegno dell' indole e della vita di lei negli Sposi promessi {*). In questi, come ne' Promessi sposi, asseriva il grande credente lombardo che «Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta», se avesse potuto veramente sentire le consolazioni e le gioie della religione. È la verità etica positiva che il pensiero manzoniano deduce dalla trista vicenda (1) Serm. cit., p. 144. (2) Prom. sp., cap. X, p. 157. E v. negli Sp. prom., (pp. 229-30) la magra consolazione che traeva dalla contemplazione e dalla cura della sua bellezza. (3) Serm. cit., pp. 158-9. (4) Cfr. gl'intemperanti discorsi di lei ne' colloqui col padre guardiano, con Lucia, con Agnese, e poi da sola con Lucia (Sp. prom., pp. 172, 173; 254-9). «La bellezza -- scriveva altrove (p. 230) il Manzoni -- era per Geltrude un rodimento continuo, una occasione di regressi affannosi nel passato, e di sguardi disperati nell'avvenire». del sacrifizio di Gertrude: verità che sfolgora alla luce del suo vigoroso idealismo cristiano in quella lode piena di carità e di sapienza. «È una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine ricorra ad essa. Se al passato c'è rimedio, esso lo prescrive, lo somministra, dà lume e vigore per metterlo in opera a qualunque costo; se non e' è, essa dà il modo di far realmente e in effetto, ciò che si dice in proverbio, di necessità virtù. Insegna a continuare con sapienza ciò che è stato intrapreso per leggerezza; piega l'animo ad abbracciar con propensione ciò che è stato imposto dalla prepotenza, e dà ad una scelta che fu temeraria, ma che è irrevocabile, tutta la santità, tutta la saviezza, diciamolo pur francamente, tutte le gioie della vocazione. È una strada così fatta che da qualunque laberinto, da qualunque precipizio l'uomo capiti ad essa, e vi faccia un passo, può d'allora in poi camminare con fierezza e di buona voglia e arrivar lietamente a un lieto fine.» (*). L'austero sentenziare del Manzoni ha forma di precetto e d'esortazione nelle parole del Massillon, ma la somiglianza di concetto e d' intenzione è evidente e il motivo religioso è il medesimo. «La vérité -- diceva l'apologista francese -- ne trouble que poui- instruire ei pour consoler». Se la vocazione è fatta e siete in dubbio se più vi abbiano potuto i motivi umani o l'ispirazione della grazia, «rendez votre vocation certaine par vos bonnes oeuvres: changez cette tiedeur dangereuse où vous vivez, en une sainte vivacité, cette vie toute naturelle, en une vie de la foi; ces négligences coupables, en des attentions religieuses; ce mépris de vos obligations en une fidelité qui vous fasse respecter ce que vous devez aimer»; ma «si . . . les passions seules vous ont forme un état de vie, votre sort est à plaindre, je l'avoue; mais il n' est pas déjespéré.... Dieu peut accorder à la douleur d'un choix injust les graces qu' il auroit accordées à un choix légitime; vous n' ètes pas extérieurement dans son ordre; mais le coeur y est toujours quand il se donne à lui; vous occupez une place qu' il ne vous avait pas destinée; mais une foi vive, mais un amour ardent, mais un repentir sincère sanctifient tous les états ?» (*). Gli é che a Gertrude non noceva tanto d' esser nata con animo debole (^) quanto il non aver avuto fin dall'infanzia quelli che il jjT (1) Prom. sp., cap. X, p. 156. i-v,"^ ^ (2) Serm. cit., pp. 164, 165. (3) Illustrano la situazione di Gertrude anche queste parole del Massillon: «On pourrait ajouter que, si vous étes né foibles, la bonté de Dieu a environné votre àme Massilon chiamava «les secours particuliers d'une éducation sainte et chrétienne» (*); al quale concetto, come dì riverbero, risponde quello del Manzoni, che è come il presupposto etico del rovinoso dramma di Gertrude: «La religione, come l'avevano insegnata alla nostra poveretta, e come essa l'aveva ricevuta, non bandiva l'orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come mezzo per ottenere una felicità terrena» (*). Nel concorso di tali ispirazioni e meditazioni, che occuparono la coscienza del Manzoni inteso a ricostruire di su le cronache contemporanee la trista storia di Gertrude, ha la sua origine la concezione etica fondamentale del carattere di questo personaggio. * * * II. Dicevo nella prima parte di questo lavoro che la figura di Gertrude, come la concepì e la tratteggiò il Manzoni nel primo disegno, recava le impronte d' un forte pessimismo etico, che si rifletteva dalla trista considerazione della vita umana dominata dalle passioni e dagli istinti piti forti, spesse volte^ della volontà, del sentimento, degli esempì e precetti della stessa religione. Ora sulle tracce della minuta e in raffronto con le correzioni e i mutamenti della stampa, riprenderò in esame codesto personaggio manzoniano e confido di dimostrare, con lo studio della sua genesi complessa e de' suoi aspetti particolari, che nella ricostruzione psicologica e neir elaborazione fantastica, a cui andò soggetto, influirono ad un tempo quel pensoso e profondo senso di decoro morale e di pietà religiosa che ha ispirato la trasformazione intima del romanzo in ogni sua parte, quella maggiore indipendenza dal rigido sistema storico che il Manzoni venne via via acquistando ne' rifacimenti dell'opera per una più chiara coscienza delle ragioni dell'arte, de mille secours; que votre àme a été corame défendue dès sa naissance, par les secours des sacreraents, par la lumière de la doctrine, par la force des exemples, par les inspirations continuelles de la gràce». (Serm. sur la fausse conflance, in Oeuvres, voi. V, p. 451). (irivt. (2) Prom. sp., cap. IX, p. 136. Più distesamente negli Si), proni.: «Quanto alla religione, ciò che è in essa di più essenziale, di più intimo, ciò che fa resistere alle passioni e vincerle con una dolcezza superiore d'assai a quella che le passioni soddisfatte possono arrecare, ciò che preserva dalla corruttela, e mette in avvertenza anche contra i pericoli non conosciuti, non era stato mai istillato, nemmeno insegnato alla piccola Geltrude Ma i parenti l'avevano educata all'orgoglio, a quel sentimento cioè che chiude i primi aditi del cuore ad ogni sentimento cristiano, e gli apre a tutte le passioni» (p. 183). e quella vagheggiata armonia dell' ispirazione romantica con la rappresentazione classica che egli conseguì quasi sempre epurando l'opera di tutto ciò che gli era venuto fatto troppo vivamente romanzesco troppo crudamente realistico o pittorescamente drammatico. Quella stessa maggiore abbondanza d'osservazioni storiche e morali e d'elementi comici e satirici che ci avverrà di trovare nella minuta va considerata come una conseguenza della commozione morale e della tendenza ragionatrice e polemica che ancora agitavano il Manzoni, come addietro osservavo, nel passare dalla eloquente difesa della Morale cattolica alla stesura dieW Adelchi e del romanzo; e una conseguenza, altresì, di quella che chiamerei realistica interpretazione della storia, giacché l'una e l'altra disposizione favorivano la riflessione giudicatrice che si manifesta nell'indagine e nel ragionamento o nella censura e nella derisione, r^ Osserviamo per un momento il piccolo mondo familiare in cui cresce la trista fanciullezza di Gertrude. Il padre, nella minuta, era un Marchese Matteo che fin dalle prime battute ci si presentava «avaro, superbo, ignorante», «giacché riguardava come il primo dovere del suo stato il conservare l'opulenza e lo splendore». Era costui un riccone, un nobilone di quattro cotte; che al sentirsi annunziare, nella nascita di Gertrude, da una donzella della Marchesa: -- è una femmina -- rispondeva mentalmente: -- è una monaca -- e si poneva a frugare nel Leggendario il nome di una santa, di jaobilissima stirpe e stata monaca (*). C'era in codesto tratto del padre di Gertrude una certa goffaggine, donde trapelava l'intenzione comica del poeta, meglio manifesta nell'analisi umoristica che seguiva al primo rapido schizzo: il contrasto infatti tra il vedercelo argutamente presentato come un uomo positivo, alieno dalle metafisicherie, un «uomo di pratica», di «buon senso», che diceva doversi «prendere gli uomini come sono e trattarli dal lato dell'interesse» e il vederlo 'fomentare nella figlia l'orgoglio per destare il desiderio «della potenza e del dominio claustrale», genera l'impressione di una potente ironia; perchè quella passione, al contrario, infiammava vieppiìi nell'animo della giovinetta le immagini e i desideri fastosi e giocondi della vita del secolo; onde l'ironica riflessione del Manzoni stesso ch'egli «aveva pensato e operato con la dirittura e la squisita sapienza» di chi dà fuoco alla casa attigua del suo nemico, illudendosi con l'intenzione che quella sola bruci e l'incendio non tocchi la sua (*). (1) Sp. prom., p. 177. (2) Sp. prom., p. 184. Tale era il padre di Gertrude nella minuta, perchè il poeta lo -- concepì attraverso l'immediata visione storica di quella nobiltà secentesca che mischiava in sé la ferocia oltracotante o sordida con certa pretensiosità goffa o grossolana; noi da tutto il suo contegno, che ha un non so che di affaccendato, di loquace, di burbanzoso e ilare insieme, non riceviamo che l'impressione di una sordida cocciutaggine, legata ai pregiudizi di casta. Effetto dell'interpretazione dello spirito di quel secolo, che il Manzoni stesso con eccessivo giudizio chiamò «barbaro e grossolano», effetti, che, come altrove ho dimostrato, si riscontra nella prima concezione dell' Innominato e di altri personaggi. Nella rielaborazione psicologica e fantastica di quel suo mondo primamente abbozzato il Manzoni spiritualizzò uomini e cose, rinnovò in epiche forme le figure stesse della storia atteggiandole in creature ideali, in cui vediamo, dirò così^ rispecchiato un aspetto eterno della vita, un dramma universale dell'anima umana. Così fu phe quel mediocre Marchese Matteo si trasformò nell'alta figura del principe, più superbamente dignitoso, più cupo, più misurato e misterioso nelle parole: incarnazione d'una feroce volontà imperiosa e suggestiva, a cui è destino ineluttabile che la debole e contraddittoria anima di Gertrude soccomba. La principessa nel romanzo è un' evanescente figura, muta, immobile, chp non ha parte alcuna efficace e manifesta, press' a poco come il principino, nel pietoso dramma di Gertrude: l'una e l'altro non sono che le ombre seguaci della volontà fattiva del principe. Ma nella minuta il Manzoni aveva tracciato un profilo morale della Marchesa e del Marchesino attardandosi ad analizzar l'anima d'ambedue: quella, sottomessa alla volontà del marito, «meno i due o tre capi pei quali aveva combattuto, e ne era uscita vittoriosa * (*), questo, aspi'o e prepotente ne' modi, con sempre «il monastero in bocca» e privilegiato di «compiacenze e distinzioni» dai parenti, in confronto della sorella, «tenuta in uno stato continuo di paragone umiliante»; meno pronto «di lingua e d'ingegno», ma dopo quella ragazzata da lei commessa col paggio, pieno d'un' aria nuova di superiorità, a cui la poveretta, «carica d'un fallo e di un perdono» soggiaceva per sempre (*). Spender l'arte a ritrar personaggi vuoti d'ogni passionalità buona o cattiva e a metterli sotto un po' di luce non valeva la pena e (1) Sp. prom., p. 197. (2) Sp. prom., pp. 205-6. perciò il Manzoni, tutto intento, nel rifare, all' essenziale, tagliò via tutte le analisi e le osservazioni che riguardavano quelle due figure secondarie. Se non che la pagina sul fratello della sventurata poteva essere scorciata e resa più franca e lucida, ma conservata, come quella che serviva a illustrare l'ambiente psicologico, in cui maturavasi il tristo destino della fanciulla, e faceva intendere che la grettezza fredda e maligna de' rapporti familiari doveva contribuire non poco ad isterilire ogni buon seme nell'animo di lei e a fermentarvi, per contro, il permaloso orgoglio di razza. La madre di Gertrude, invece, sta bene, com' è nel romanzo, appena rilevata sullo sfondo del quadro, dove campeggia il principe, senza un palpito morale suo proprio, senza alcun moto d' affezione materna, che al Manzoni era piaciuto di ritrar fugacemente nella prima stesura in un tratto tra il lievemente scherzoso e il delicatamente pensoso, ma senza, altresì, quell'aspetto di grossolana comicità in cui figurava la Marchesa dormire saporitamente, non ostante i trabalzi del cigolante carrozzone, di ritorno dal monastero d6f)o la richiesta della figlia (*). Compressa quella velleità d'un realismo comico che strideva bizzarramente nel dramma di Gertrude, il Manzoni di tal madre non ne ha fatta che un'ombra spoglia di sentimento e di pensiero; ma quel torbido fantasma lunghesso la compatta figura imperiosa e minacciosa del principe serve, più assai che nel primitivo profilo, al significato morale e alla rappresentazione poetica della storia dolorosa. Per questa tendenza, allettato, com' io credo, dal senso storico del secolo, a comicizzare il reale osservato o intuito nella storia, il Manzoni aveva figurata anche la badessa del monastero «in atto di goffaggine, d'adulazione e di leziosità >, come si rivela nella risposta secentisticamente ingegnosa ed ampollosa che dice a memoria dopo la richiesta di Gertrude (^). Certamente ciò serviva al colorito storico dello sfondo, ma era qualcosa di pedantescamente comico, che spezzava l'unità psicologica e poetica di quella scena così grave, in cui si decideva del sacrifizio di un' anima, concertato perfidamente dalla famiglia e tacitamente consentito dalla badessa. (1) Sp. prom.^ pp. 198, 216. (2) Sp. prom., p. 210. * * * III. Ma è tempo oramai di rivolgere Io studio al carattere del principal personaggio e di seguirne la genesi e la trasformazione poetica dalla minuta alla redazione definitiva del romanzo. L' attento esame comparativo delle due stesure mi consentirà di provare con quale intenso e paziente studio di meditazione e d'arte il Manzoni seppe rendere più organica, più coerente e più vigorosa la pittura del carattere di Gertrude ed elevarne, conforme una concezione più decorosa e più pietosa dell' indole e de' drammatici casi, la figura poetica. Un cospicuo esempio della maggiore unità e coerenza psicologica che il ritratto morale venne acquistando nell' elaborazione del racconto della prima giovinezza è in quella mirabile analisi che dello stato d'animo della giovinetta, rinchiusa nella camera dopo lo scandaluccio col paggio, il Manzoni fa sulla fine del cap. IX. Bisogna procedere con molta cautela nel raffronto della prima prova con l'ultimo ritratto per avvedersi del modo come dal rifacimento uscisse riplasmata e lumeggiata di nuova luce l'immortale figura dell' infelice adolescente. È stato tutto un lavorìo di rifusione^ di condensazione, di riordinamento e di rimartellamento intorno ai motivi intimi e alle forme più espressive della rappresentazione poetica. Ecco: l'amoruccio di Gertrude col paggio è scoperto; la sua famigerata letterina è passata nelle mani del padre, che viene a giudicarla e a punirla della sua inconsapevole leggerezza. Diceva la prima stesura: «Ma il temporale più scuro, più lungo, più terribile venne a scendere sul capo di Geltrude; il Marchese Matteo dopo d'averla caricata di strapazzi, che ella intese con tanto più di tremore quanto si sentiva veramente colpevole, le annunziò una prigione indeterminata nella sua stanza e per sopra più le parlò d'un castigo proporzionato alla colpa, senza specificarlo; e così la lasciò in guardia alla stessa donna che aveva scoperto gli affari > ('). Prima di questo frettoloso racconto, di stile, per vero dire, grezzo e pesante, si leggeva nella minuta come il paggio fosse sfrattato insieme con terribili minacce e due «solennissimi schiaffi» e la cameriera denunziatrice colmata di lodi non senza prescrizioni co (1) Sp. prom., p. 191. pertamente minacciose di segretezza: ecco perchè nel riprendere la narrazione principale, che si riferiva a Gertrude, il Manzoni, non potendo trascui'ar di connetterla a quelle due secondarie, vi prelude col mischiare, sia pure con la denotazione di qualche cosa di «più scuro» e di «più terribile», Gertrude e il paggio e quella donna nel medesimo tempo. Il mutamento dell' ultima redazione (^) ha un grande valore psicologico e drammatico, ed è certamente dovuto al proposito di approfondire l'analisi e di sceneggiare in più larghe linee l'incontro di Gertrude col padre. Tra il cader della carta amorosa nelle mani del principe e l'apparire di costui nella camera della figlia nessun inciampo di secondari elementi narrativi, nessuna interposizione d'altra materia e d'altre figure, determinanti pause importune e sterili d'ogni accorgimento artistico nel veloce svolgimento degli avvenimenti. Pare che il Manzoni, compreso della necessità di dare il massimo rilievo alle due figure dominanti^ Gertrude e il padre, nella tela generale del racconto e alla prigionia angosciosa della giovinetta, volesse, dirò così, sgombrare il terreno col riferire in breve sulla sorte toccata al paggio e sul contegno tenuto verso la cameriera depositaria di un delicato segreto. Con nuovo vigoi*e poetico, con più serena indipendenza da un metodo di narrazione, logico ma poco efficace, con una più profonda visione drammatica della situazione, il Manzoni sopprime quegli ammenicoli, d' ordine inferiore e trascurabile, che riguardavano la cameriera, relega altrove, e con più opportuna disposizione, la breve scena del rabbuffo e dello sfratto dati al paggio, e pone immediatamente Gertrude di fronte al principe corrucciato nella camera che diverrà la sua prigionia; ciò che era arruffato o sovrapposto nel primo testo, ordina e chiarisce con un processo psicologico, che genera l'impressione d'un terrore, di un'angoscia, d'un avvilimento crescente. Così il magro racconto si trasforma in una vera rappresentazione di caratteri e di sentimenti, e il patetico della situazione si svolge, per sapienti gradazioni, nella sua totale pienezza. Gertrude è in preda al terrore, oppressa dal sentimento della colpa: è un primo momento d'immaginazione e d'ansia mortalmente penosa: «Il terrore di Gertrude al rumor de' passi di lui, non si può descrivere né immaginare: era quel padre, era irritato e lei si sentiva colpevole >, Preludio al drammatico incontro, dove il rumor di quei passi, -- non ancora la persona imperiosa e sdegnata -- è già un motivo di perturba ti) Prom. sp. cap. IX, p. 139. zione infinita. «Ma quando lo vide comparire con quel cipiglio, con quella carta in mano avrebbe voluto esser cento braccia sotto terra^ nonché in un chiostro»: è un secondo momento in cui la realtà temuta, preannunziata si accampa inesorabile: lo sguardo torvo di chi deciderà del destino di lei è presente, la fissa negli occhi^ le pesa sul capo; e la lettera funesta è nelle mani del giudice inesorabile. La scena è tuttora muta; ma il principe, ecco, le rivolge meditate parole, «non molte, ma terribili». È il terzo momento della scena, il piìi fieramente straziante; nel quale lo sgomento dell'attesa d'un vago gastigo s'acuisce nella spaventosa certezza di una pena grave, ineluttabile, indeterminata sì, ma ormai così immanente che l'anima, nella sua solitudine angosciosa, ne prevede già il colpo e gli effetti. «Il gastigo intimato subito non fu che d'esser rinchiusa in quella camera, sotto la guardia dalla donna che (aveva fatta la scoperta; ma questo non era che un principio, che un ripiego del momento: si prometteva, si lasciava vedere [per aria, un altro gastigo oscuro, indeterminato e quindi piti spaventoso». Il motivo dell'interiore lotta che Gertrude combatte sino a scrivere al padre la lettera di pentimento, è tutto qui: giacché le mirabili pagine seguenti, allacciandovisi, non fanno che tratteggiare con vigorosa coerenza e sapiente sviluppo l'anima della poveretta^ tormentata da quella prigionia avviliente e irritante, oppressa dall' incubo di un pili tremendo gastigo. La figurazione dell'ambascia di Gertrude rimasta sola con l'incresciosa carceriera è venuta acquistando un nuovo movimento iniziale d' ispirazione e di tono attraverso i rifacimenti (*). Nel primo disegno il poeta non aveva raggiunto ancora tanto vigore di penetrazione e d'elevazione fantastica da fissarne in una sintesi poetica limpida e ferma la complicata situazione psicologica. C'era qualche cosa di discontinuo, d'unilaterale, di affastellato in quel primo abbozzo: «Geltrudé aspreggiata, rinchiusa, minacciata, in una situazione che sarebbe stata dolorosa anche alla coscienza più illibata, si trovava anche con la memoria del fallo, che basta a rattristare la situazione più gioconda; e l'animo suo fu prostrato. Non sapeva prevedere come né quando la cosa sarebbe finita, si aspettava ad ogni momento il castigo incognito e perciò più temibile». Il Manzoni non aveva visto tutta l'anima di Gertrude, tutto lo sbigottimento di quell'ora; era, direi quasi, impacciato nelle strettoie d'uno psicologismo analitico, come suole accadere o a scrittori di mediocre (1) Sp. prom., p. 191; Prom. sp., cap. IX, p. 140. fantasia, anche se provati all'osservazione della realtà, o a scrittori potenti sì, ma, ne' primi cimenti con la materia dell'arte, non ancor capaci di disciplinare e unificare le loro impressioni; onde quella visione malferma, dissipata si tradusse in una rappresentazione in cui era mal dissimulato lo schema logico di una fiacca osservazione. Quel ricalcare, per via della triplice aggettivazione: aspreggiata, rinchiusa, minacciata, -- i tratti già risaltanti dalla tremenda scena precedente ?, a che serviva se non a persuaderci che -- avesse questo solo patito -- la poveretta non poteva essere in una «situazione» più «dolorosa»? E bastasse!; ma c'era «anche» (nota l'effetto di discontinuità e di sovrapposizione che fa codesto arido termine logico) «la memoria del fatto» (come se questo non fosse un elemento massimamente essenziale e intrinseco di quella situazione!); quale conseguenza? che l'animo ne rimase «prostrato». Poi l'afflitta si sgomentava vieppiìi al pensiero dell'oscuro gastigo. Ed ora raffrontate a questo il passo nuovo del romanzo: «Rimase essa dunque col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col terrore dell'avvenire e con la sola compagnia di quella donna odiata da lei, come il testimonio della sua colpa, e la cagione della suadi sgrazi a». Non la frammentarietà di un' analisi fiaccamente osservativa, non la sovrapposizione de' momenti psicologici artificiosamente discontinui; nulla di schematico, di raziocinativo, di diffluente, di superfluo nello stile; ma la delineazione intera, armonica di quell'anima in preda al «primo confuso tumulto» di sentimenti che la fantasia dell' artista guarda e rispecchia con limpida e vigorosa sobrietà di stile, inalzandosi dall'analisi psicologica all'unificazione poetica. Ve riflessa tutta l'anima di Gertrude, non un aspetto di essa; v' è condensata con rapida efficacia rappresentativa l'agitazione tempestosa in cui ella è stata quasi improvvisamente travolta dal malaugurato accidente della lettera, dallo sguardo e dai detti tremendi del padre. Questo potente tratto iniziale da gran maestro contiene in germe gli elementi essenziali della dolorosa lotta da cui la povera rinchiusa sarà trascinata ad offrirsi vittima alla feroce volontà, che attende sicura l'ora del suo sacrifizio. La minuta continuava raccogliendo materiale acutamente osservato, ma senza cercare, con una sapiente distribuzione, quella gradazione di luce e di colori, quello svolgimento e concerto armonioso di linee che ammiriamo nell'ultima redazione. «L'essere come sbandita dalla famiglia le era un peso insopportabile e nello stesso tempo l'idea di rivedere il padre o di vedere la madre, il fratello, la prima volta dopo il suo fallo, la faceva trasalire di spavento. In questa agitazione continua si svolse e si accrebbe nell' animo suo un sentimento nativo in tutti, ma più forte in lei per indole e reso ancor più forte dalla educazione, il timore della vergogna: senti' mento non solo onesto, ma bello, ma essenziale; sentimento, però, che, come tutti gli altri, può diventare passione violenta e perniciosa quando non sia diretto dalla ragione, ma nutrito di orgoglio. La sola idea del pericolo che la sua debolezza, la sua debolezza per un paggio, per una persona meccanica, fosse risaputa da alcuna delle sue antiche superiore, da una sua compagna, da un congiunto di casa: questa idea le era più terribile, più odiosa, della prigione, dell'ira dei parenti, del fallo stesso» (*). Come nella prima parte di codesta analisi aveva l'acuto psicologo voluto dare risalto al motivo della memoria del fallo, cosi in questo secondo tratto veniva svolgendo quello della vergogna che sarebbe seguita alla colpa, se questa fosse stata risaputa dagli estranei alla casa. Era dunque il medesimo procedimento, metodicamente analitico, di rappresentare gli stati d'animo per successione discontinua e figurazione statica, come se la fantasia osservatrice si movesse ora a contemplare una faccia ed ora un'altra della travagliata coscienza; era la medesima preoccupazione, già rilevata, di mostrare una saliente affezione dell'animo; nel qual modo d'osservare e figurare faceva bella prova la diligenza di un intelletto che scruta e riflette, non la potenza d' una fantasia che intuisce e sintetizza. Come e perchè si svolgesse e crescesse il sentimento della vergogna in Gertrude il Manzoni non interpretava; ma s'indugiava con certa intenzione didascalica intorno alla natura e forma varia di quel sentimento per caricar le tinte sul nativo orgoglio che lo fomentava. Così la figura di colei eh' era piuttosto vittima che colpevole, risaltava inopportunamente in una luce alquanto sinistra. Vedete, al contrario, come la nuova dipintura secondi con maggior naturalezza ed efficacia i moti di quell'anima e ne svolga e prosegua con decorosa temperanza di tocchi e gentile aggiustatezza di ben fatte motivazioni e circostanze la dominante apprensione della vergogna. L'animo umano, dopo un forte e confuso tumultuar di emozioni, come avviene dell'aere e del mare che, percossi e sconvolti dal rapido cozzar di venti contrari, trapassano in uno stato di calma precorritrice di urti più impetuosi, suole allentarsi in una quiete (1) Sp. prom., p. 191 che è feconda di commozioni meno confuse, ma più vive. Così meditando, il Manzoni ha tratto con nuova arte l'animo di Gertrude dopo la tempesta suscitata dal colloquio coi padre. «Il primo confuso tumulto di quei sentimenti s'acquietò a poco a poco: ma tornando essi poi uno per volta nell' animo_, vi s' ingrandivano, e si fermavano a tormentarlo più distintamente e a bell'agio». Ma noi intravediamo che il motivo dominante nella rampogna del padre, ripercosso nell' animo di lei come un «terror» confuso e oscuro «dell'avvenire», vi s'è fitto e diventa il fulcro di tutti i suoi tormentosi pensieri. «Che poteva mai essere quella punizione minacciata in enimma?» (*). Ecco la ragione profonda dell'inquietudine presente, dell' amarezza che s' accompagna «alle liete e brillanti fantasie d'una volta», della vergogna stessa, dell'abbandonarsi, a grado a grado, dell' animo, combattuto tra l'antica avversione al chiostro e il bisogno d'uscire da quello stato di penoso struggimento, all' implorazione del perdono paterno. Fra le punizioni «quella che pareva più probabile era di venir ricondotta al monastero di Monza, di ricomparirvi, non più come la signorina, ma in forma di colpevole e di starvi rinchiusa chi sa fino a quando ! chi sa con quali trattamenti! Ciò che una tale immaginazione, tutta piena dì dolori, aveva forse di più doloroso per lei, era l'apprensione della vergogna. Le frasi, le parole, le virgole di quel foglio sciagurato, passavano e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate, pesate da un lettore tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui eran destinate; si figurava che avesser potuto cader sotto gli occhi anche della madre o del fratello o di chi sa altri: e, al paragon di ciò, tutto il rimanente le pareva quasi un nulla» (*). Più trista e più grave è codesta immaginazione, codesta apprensione del gastigo, ma quanto meno volgare di quel temere che nel monastero o presso il parentado sì sapesse il suo fallo! Nel passo primitivo non vi era che meschinità d'orgoglio ferito, tanto più immeserita da quegli scialbi elementi realìstici (il paggio, la superiora, la compagna, il congiunto) che pullulavano nella fantasia della disgraziata con un senso di odiosa molestia. Nella forma nuova è tutto un altro sentire, fantasticare e soffrire; l'apprensione, che appassiona Gertrude, è più nobile e seria: un'apprensione di squallido abbandono là in quel monastero, già tanto increscioso, dì sgomento al pensiero di dover espiare la sua colpa (1) Proni, sp., loc. cit. (2) Ivi. chi sa quanto tempo lontana dalla famiglia e in uno stato di disprezzo e d'avvilimento. Da tale immaginazione dolorosa scaturisce nell' animo di Gertrude, com'è naturale, la vergogna; ma più che l'esser rinchiusa come colpevole nel monastero è cagione di vergogna il figurarsi il padre e gli altri familiari intenti a leggere e a pesare la lettera sciagurata; e la vergogna non è che un fluttuar dell' anima tra la paura del gastigo e il cordoglio d' aver perduta la stima altrui e d' aver peggiorata la sua condizione, ora tanto piti difficile per poter resistere alle finte blandizie e all' imperiosa violenza de' suoi oppressori; donde si riflette il carattere vero della Gertrude manzoniana, misto d'orgoglio e di bontà, debole e fantasioso, bisognevole d'affetto, d'aiuto e di compatimento. Ciò che importava nel proseguo della finissima e difficile analisi era mostrar come Gertrude, pel concorso di vari motivi, dopo lungo combattimento cedesse all'impulso di scrivere al padre «una lettera -- come dice il Manzoni -- piena d'entusiasmo e d'abbattimento, d' afiìizione e di speranza, implorando il perdono e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo» (*). Come veniva il poeta preparando la dolorosa catarsi nella redazione primitiva? È osservabile lo sforzo durato dall'autore per presentarla come un intimo rivolgimento della coscienza, ora esagerando quel poco di energia morale che poteva operare nell'animo del suo personaggio, ora cercando d' attenuare l'impressione, che il contegno di esso destava, come di un pentimento sicuro e di una risoluzione determinata e cosciente. Il grande interprete delle segrete lotte dello spirito umano cercava di risolvere nelle forme dell' arte il delicato problema psicologico d'un cuore che nel sommo dell'ambascia fa dedizione di sé stesso a ciò che più gli ripugna. Postosi tale problema, come il Manzoni lo risolvette la prima volta? Presentava l'anima di Gertrude nemmeno più occupato dalla «trista e funesta consolazione dei sog' splendidi della fantasia; perchè questi sogni erano tanto in opposizione col suo stato reale e con l'avvenire il più probabile e quelle immagini erano tanto legate con la sciagura, che la mente le respingeva con incredula avversione». Mostrava poi come dal ricadere «nella considerazione delle circostanze reali > cominciasse Gertrude «a dolersi davvero di ciò che aveva fatto, a paragonare la vita che menava prima del ( ) Ibi ., p. 141. SUO fallo con quella che strascinava in allora e a trovare la prima soave, a rammaricarsi di non averla saputa conoscere»; come in tale stato d' animo l'immagine del paggio le «comparisse accompagnata di tanti dispiaceri che aveva perduta ogni forza nella sua fantasia». Atteggiava quindi la fanciulla così che, «raffreddata l'ira dalla tristezza e dal timore del peggio e dal pensar che al fine il castigo era meritato, il pentimento cominciò ad essere più dolce, divenne un sollievo». Anzi nel nuovo stato ella trovava già delle rallegranti consolazioni che invero non ci aspetteremmo fossero così pronte e operose in un animo inquieto come il suo: «pensò ella al perdono che si ottiene con quello e si rallegrò, pensò che ciò ch'ella soffriva poteva essere un'espiazione e tutto le parve piti leggero». Ed eccole spuntare in cuore tal compunzione religiosa che, a vero dire, non ne avremmo facilmente supposta tanta pienezza e tanto abbandono. Q.'^^^'^^^^ «Si diede quindi tutta ad una divozione la quale in parte era un !>^ sentimento intimo e retto .dell' animo, in parte un fervore di fan-'«^» tasia». «Le tornava allora alla mente il chiostro, ma in un aspetto tutt' altro che increscioso: «la dignità di monaca e quella benedetta pompa di badessa» le allietava la fantasia; «e quella benedetta boria di essere la piìi nobile dei monastero, ultimo rifugio della sua ^j superbiuzza, le parve un zucchero al paragone dello stato d' umi liazione, di prigionia, di disprezzo nel quale si trovava». E così infervorandosi la piccola Gertrude prendeva addirittura posizione di battaglia (chi lo crederebbe?) contro la sua antica e radicata avversione al chiostro. «Le risorgeva» sì, codesta avversione «con tutte le sue immagini, ma ella le pigliava per tentazioni e le combatteva. In questa incertezza ella desiderava di rivedere il padre, di rivederlo con una faccia diversa da quella di cui le rimaneva una immagine terribile, e dolorosa, di avere il suo perdono, di essere riammessa nella sua famiglia» (*), Il difetto capitale di questa rappresentazione dell' anima di Gertrude è in ciò che può sembrare, a chi la guardi indipendentemente dalla complessa visione di quella trista giovinezza, piuttosto un pregio di chiarezza, di semplicità, di ordine nel figurare il trapasso dalla confusione, dalla vergogna al rincrudito dolore dell'avviliente prigionia, da questo al pentimento, al confortevole pensiero del perdono paterno e delle superbe seddisfazioni nel monastero. O r (1) Sp. prora., pp. 193-4. Ma chi abbia presente l'immagine della sventurata adolescente, quale lampeggiò fin dalla stessa prima concezione alla meditativa fantasia del Manzoni, s'accorge che quei tratti che abbiamo raccolti e riassunti si svolgevano secondo, dirò così, un semplicismo psicologico, di cui non è questo il solo esempio che offra la prima stesura. Se ne riceve l'impressione come di una deduzione, scolasticamente metodica, di un fatto dall'altro, di un' ostentata chiarificazione del modo come s'avveravano i mutamenti e i progressi nell'anima agitata, quasi volesse l'autore dimostrare più che rappresentare, persuadere più che commuovere. L' intonazione logica piuttosto che estetica della descrizione si faceva sentire ne' trapassi e legamenti sintattici {cominciò quindi -- ? scacciato questo nimico [l'amore] dal cuore... il pentimento cominciò -- Si diede quindi tutta ad una divozione -- Le tornava allora alla mente)', e di riflesso il sentimento del fallo, il bisogno del perdono, il proposito d'ottenerlo spiccavano in linee seccamente tagliate, senza sfumature che denotassero l'ondeggiar dell'anima travagliata, senza un variar di luci e d'ombre che rivelasse la pena di quella umiliante relegazione, resa più odiosa dalle angherie della cameriera, l'accorato desiderio d' un po' di benevolenza, la trepidanza tra la prospettiva, che unicamente le rimaneva, di un rifugio onorevole nel monasteroe l'invincibile avversione a rinchiudervisi. C'era una troppo superficiale agevolezza, come ne' casi di conAcrsioni che si compiono senza contrasto, in quel passar rapido di Gertrude al sentimento, alle immaginazioni delle grate conseguenze del perdono, alla risoluzione di scrivere al padre; e e' era, d'altra parte, in cosiffatta dipintura qualcosa di inorganico, di diffiuente, di unilaterale, che non rendeva chiaramente l'ineluttabilità di quella risoluzione da" cui doveva esser deciso il suo destino. Lo stesso Visconti -- non ostante che il Manzoni in fine al capitolo quasi cercasse di mitigar l'impressione della descrizione precedente (*) -- aveva osservato, a proposito di quel pronto combatter, come «tentazioni >, le attraenti immagini del passato, che conveniva «indicare più chiaramente che per altro non erasi ancor piegata alla risoluzione di farsi monaca» (*). Non che parergli giusto l'avvertimento dell'amico, il Manzoni stimò opportuno di rivedere e rifar totalmente l'analisi della complessa situazione. Che il penoso stato in cui Gertrude era caduta. (1) «Non già ch'ella avesse presa una risoluzione, ma non poteva più reggere alla solitudine e alla proscrizione, e sperava confusamente che in quel colloquio la risoluzione si sarebbe fatta per lo meglio» (ivi). (2) Ivi, n. jj. e il pentimento del fallo e il bisog-no d'un po' di misericordia e d' amore potessero indurla a mostrarsi «indeterminatamente pronta > a ciò che poteva piacere al padre e contribuire a scemare quella sua antica avversione, è consentaneo all'indole sua fantasiosa e inquieta; ma che ne derivasse senz'altro la risoluzione di combatterla era troppo e, per giunta, mal s'accordava con l'ingenita fiacchezza morale di lei. Il poeta ha dunque affisato lo sguardo sulla prima figurazione di Gertrude con più sicuro intuito di quel temperamento fantasioso e ardente e con più grave e delicata pietà del suo doloroso destino: onde ne ha ritoccati i tratti salienti e ombreggiata e ricolorita la patetica situazione con gentilezza di toni nuovi, con ricchezza di sfumature sapienti e sviluppo opportuno d'elementi da prima scarsi o lasciati nell'ombra; così da rispecchiare lucidamente l'ondeggiante sensibilità -- nota essenziale d^l carattere di Grertrude -- che, affiorando dai misteriosi istinti del suo essere e dalle congenite tendenze ereditarie della sua stirpe, riempie di un compatimento pensoso l'animo dell'osservatore. Ecco: il paggio non torna incresciosamente alla memoria della poveretta come la «persona meccanica» per la quale altri la dovessero svergognare come la testimonianza della sua «debolezza»; né ella si libera così facilmente di quell'immagine, come con certa intempestiva baldanza d'ironia commentatrice (^) ci raccontava da prima il Manzoni. Il quale, anzi, purificati i motivi della vergogna, separa da codesta apprensione la figura del giovinetto^ per farne rivivere la gentile immagine mischiata ad altre tormentatrici nella fantasia della fanciulla: -^ non lasciava di venire spesso anch'essa ad infestar la povera rinchiusa; e pensate che strana comparsa doveva far quel fantasma, tra quegli altri così diversi da lui, seri, freddi, minacciosi». I dolori presenti vincono il diletto di quella memoria, a cui sono troppo strettamente legati, ma il brusco e grossolano modo di rappresentarne r oblio, che abbiamo rilevato nella minuta, ha ceduto nella nuova dipintura ad un processo delicatissimo di gradazioni, che riproduce fedelmente lo sforzo durato dalla sentimentale Gertrude per liberarsene: «appunto perchè non poteva separarlo da (1) Tanto è vero che «all'amore per signoreggiare un animo, bisogna un poco di buon tempo, e che le faccende gravi, te le grandi sciagure gli spennacchiano le ali e gli spezzano i dardi, se ci si permette una frase, invero troppo poetica, ma che spiega tanto bene ciò che accade nell'animo» {Sp. proni-, p. 193). Ma sconveniva far del brio su quel piccolo povero amore di Gertrude, per cavarsi il gusto di canzonare la fraseologia mitologica de' poeti erotici classicheggianti. essi, né tornare un momento a quelle fuggitive compiacenze, senza che subito non le si affacciassero i dolori presenti che n' erano la conseguenza, cominciò a poco a poco a tornarci più di rado, a respingerne la rimembranza, a divezzarsene». Con eguale attenzione seguita il poeta a smorzare le tinte forti del primo disegno. Le «liete e brillanti fantasie d'una volta» tornavano; ma non «più a lungo o più volentieri» che nell'immagine del paggio, vi «si fermava», perchè -- dice il Manzoni con nuova grazia e sobrietà -- «erano troppo opposte alle circostanze reali, a ogni probabilità dell'avvenire», A questo punto la nuova redazione esce dalle tracce della prima stesura che s'affaticava a descrivere il pentimento, la devozione, il combattimento vittorioso contro le antiche inclinazioni, e rifa la situazione presentando l'animo di Gertrude agitato attorno all'immagine del monastero, che unico le si offriva come «un rifugio tranquillo e onorevole». La figura psicologica acquista coerenza e unità e compostezza nuove; l'anima, deserta dalle liete immaginazioni, oppressa, al contrario, e assediata da tristi e minacciosi fantasmi, non poteva che abbandonarsi a quel vago pensiero, e confortarsene per la gioia pregustata di veder «cambiata in un attimo la sua situazione». Il Manzoni, dirò cosi, ha spostato il fòco centrale del quadro: il sentimento del fallo diventa un coefficiente "del dramma: non é, però, tutto il dramma stesso; il quale piuttosto si concentra nell' affanno intollerabile di quella vita, chiusa come in un carcere, disprezzata, perennemente oppressa dalla minaccia d'un «gastigo» -- già fatto presentire dal padre -- «oscuro, indeterminato e quindi più spaventoso». Così il contenuto e il significato del breve dramma di Gertrude smettono quella compunzione morale che prevaleva nella prima rappresentazione, per atteggiarsi nelle forme d'una dolorosa passionalità, più confacenti al temperamento e al carattere della giovanetta. Vedete la vicenda in che s'aggira l'animo suo. Non che si risolvesse d'entrar per sempre nel monastero, ma non poteva a meno di riflettere -- in quelle ore di abbandono doloroso -- ai vantaggi di una tale risoluzione. Se non che < contro questo proposito insorgevano i pensieri di tutta la sua vita». Sarebbe dunque riuscita a scacciare quella vaga idea del chiostro -- Era la stessa angoscia dello stato presente che ve la richiama va.. Troppo «i tempi eran mutati; e nell'abisso in cui era caduta e al paragone di ciò che poteva temere in certi momenti, la condizione di monaca festeggiata, ossequiata^ ubidita, le pareva uno zuccherino». E qui abbiamo un bellissimo saggio del lavoro di ricostruzione psicologica e di rifusione fantastica, esercitato dal poeta sul primo getto. Nel quale quell'immaginazione di una vita di monaca privilegiata fioriva, come abbiamo visto, da uno stato di fantastica compunzion religiosa; e sol di riflesso appagava anche l'animo superbo e insofferente della presente umiliazione; mentre nella nuova forma del romanzo, essa nasce per diretto contrasto all'esasperazione di quella prigionia e al terrore dell'imminente gastigo. Il processo psicologico appare così più conforme alla natura di Gertrude. Che è codesta natura? un impasto di debolezza, di tenerezza, d'orgoglio. Non è capace di raccogliersi nel confortevole fervore di una viva e costante devozione religiosa; può sentirsene accesa di tanto in tanto, non assolutamente dominata, nello stesso modo che la punge il desiderio d'appagare il suo orgoglio, ma non basterebbe questa sola passione a determinarla ad un atto decisivo. Né, d' altra parte, la sete, onde brucia, d' affetto, di dolce protezione, o, almeno, d'umane parole non varrebbe da sola ad infiammare la sua volontà. Istinti, passioni, che scuotono l'animo urtandosi insieme, senza che alcuno s' accampi, come suole accadere ne' caratteri di viva sensibilità e di scarsa energia volitiva: concorrenti insieme, per avventura, a generare l'azione, perchè vi s'immischia una confusa idea d'appagamento e di sollievo. La quale situazione complessa, vista e approfondita dal Manzoni con altro sguardo dalla primitiva figurazione, è tutta in questa analisi delicatissima: «due sentimenti di ben diverso genere contribuivano pure ad intervalli a scemare quella sua antica avversione: talvolta il rimorso del fallo, e una tenerezza fantastica di devozione: talvolta l'orgoglio amareggiato e irritato dalle maniere della carceriera, la quale (spesso, a dire il vero, provocata da lei) si vendicava ora facendole paura di quel minacciato gastigo, ora svergognandola del fallo. Quando poi voleva mostrarsi benigna, prendeva un tono di protezione, più odioso ancora dell'insulto. In tali diverse occasioni, il desiderio che Gertrude sentiva d'uscir dalle unghie di colei, e di comparirle in uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà, questo desiderio abituale diveniva tanto vivo e pungente, da far parere amabile ogni cosa che potesse condurre ad appagarlo. In capo a quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina, Gertrude, stuccata ed invelenita all' eccesso, per un di que' dispetti della sua guardiana^ andò a cacciarsi in un angolo della camera, e lì, con la faccia nascosta tra la mani^ stette qualche tempo a divorar la sua rabbia. Sentì allora un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, d'esser trattata diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arretrava spaventato. Ma le venne in mente che dipendeva da lei di trovare in loro degli amici: e provò una gioia improvvisa. Dietro questa, una confusione e un pentimento straordinario del suo fallo e un egual desiderio d'espiarlo. Non già che la sua volontà si fermasse in quel proponimento, ma giammai non c'era entrata con tanto ardore». In queste pagine dell'ultima elaborazione noi vediamo disporsi in una più rigorosa e lucida unità estetica e svolgersi con nuovi effetti psicologici e drammatici ciò che di ancor frammentario e grezzo era confluito nel primo getto: la donna carceriera, del cui odioso contegno era fatto un accenno magro e scialbo (*), acquista uno sviluppo d' azione, un significato morale e un colorito poetico di gran rilievo, come quella che, amareggiando ed irritando l'orgoglio di Gertrude, contribuisce al rivolgimento interiore della poveretta e alla risoluzione disperata di scrivere al padre: la grigia ombra silenziosa, che avvolgeva nel primitivo disegno quella sua amaritudine languente nella compunzione del pentimento, si scioglie negli avvampanti diverbi, che ogni tanto interrompono il fantasticare affannoso di lei; ne sorgono in sinistra luce, l'una di fronte all'altra^ l'arcigna figura della donna, che or rimbrotta per atterrire ora blandisce per avvilire, e quella corrucciata della giovinetta, che freme invelenita, divorando la rabbia nel pianto convulso. È un quadro che il Manzoni ha ricreato quasi ex novo ai fini dell'efficacia drammatica, tratteggiandolo con quella temperanza di linee e di colori che gli suggeriva il suo senòo d' arte misurata e armoniosa, secondando massimamente quel criterio di logica vigorosa che ha presieduto tutto il suo lavoro di ricostruzione e di trasformazione del romanzo, sia nel dedurre e collegare gli avvenimenti, sia nel motivare le azioni de' personaggi. È in quella mattina che Gertrude, piti esasperata del solito, sente il prepotente bisogno d'uscire di là, «di vedere altri visi, di sentire altre parole, d'esser trattata diversamente». L'anima trabocca d'amarezza e di rabbia; l'ultimo eccesso produce la catastrofe: in un temperamento di sensibilità morbosa, coni' è quello di Gertrude, non è tanto un' intima preparazione di sentimenti e di pensieri, quanto un impeto passionale d' un momento che determina lo spasimo di quel bisogno. Il quale è qui sapientemente rilevato, in dipendenza (1) «La conversazione era fra di esse quaile può risultare dall'odio reciproco» (Sp. proni., p. 192). diretta da uno stato di agitazione straordinaria, mentre nella prima stesura aveva un posto inopportuno dopo il colloquio col padre. Con quel sentimento risorge il pensiero del padre, della famiglia, .? lo spavento che abitualmente s'accompagnava a quelle immagini, ma questa volta la paura non prevale^ e l'anima, oppressa dall'insopportabile odio e fastidio della guardiana, s'abbandona a teneri pensieri di riconciliazione, di benevolenza, d' affetto; e così fantasticando, prova una di quelle gioie improvvise che, empiendola di dolcezza e conforto, la dispongono a commozioni straordinarie. Ora s' intende come tale stato di tenerezza insolita predisponga e agevoli in Gertrude «un pentimento straordinario del suo fallo e un egual desiderio d' espiarlo»: movente psicologico di prim' ordine, che pur s' insinuava confusamente tra gli affrettati periodi della prima redazione (*), ma senza quella concretezza e coerenza drammatica che vi ha impresso di poi il genio paziente poeta. Dopo queste considerazioni non posso consentire ne' sottili appunti mossi di recente da Nicola Scarano (*) all'analisi manzoniana degli stati d'animo di Gertrude. «Un po' monotona -- gli pare -- per qualche ripetizione e per non aver saputo l'artista fare nuove scoverte». Ripetizioni possono parere i tratti in cui è ripresentata la figura della guardiana ed è ritoccato lo stato di sbigottimento dell' adolescente dinanzi all'avvenire e di rammarico del fallo commesso: ma in ciò non c'è vuota reduplicazione di motivi^ bensì riprese, svolgimenti di essi, che secondano e scolpiscono con efficacia di nuovi rilievi la travagliata vicenda e il faticoso rivolgimento interiore di queir anima, della quale il Manzoni deve pur dire per quali impulsi e in quali modi si risolvesse a scrivere al padre la lettera famosa. Che «nuove scoperte» dovesse fare l'artista, non so, eccetto quella di studiare e ritrarre l'intimo nuovo travaglio di Gertrude ne' tristi giorni della prigionia; il che il Manzoni ha fatto e -- a mio avviso -- egregiamente. Ma più severo è il giudizio dello Scarano in queste parole: «sono inoltre stati di animo campati in aria, senza quasi nulla che li determini di fuori, senza che sorgano per lavorìo nuovo su i ricordi del passato. Qui l'analisi psicologica, non sorretta da fatti o da elementi reali, diviene un'a (1) Detto che Gertrude combatteva le liete immagini del passato come tentazioni, il Manzoni proseguiva: «In questa incertezza, ella desiderava di rivedere il padre, di rivederlo con una faccia diversa da quella, di cui le rimaneva una immagine terribile e dolorosa, di avere il suo perdono, di essere riammessa nella famiglia» (Sp. proni., p. 194). (2) N. Scarano, La Gertrude del Manzoni, in N. Ant. del 16 die. 1916, pp. 460 segg. Stratta parodia». Rimando all'esame da me fatto dell'analisi manzoniana, nel quale -- se non m'inganno -- è implicita la confutazione di così aspro e strano giudizio. Ma non posso a meno di ribattere, qui, che gli stati d'animo di Gertrude, non che campati in aria e, come a dire, presentati senza un fondamento, una ragione propria, una motivazione interna e un'eccitazione esteriore, sono propriamente determinati da fatti ed elementi reali, cioè dalla scoperta di quel suo amoruccio per via della lettera caduta in mano del padre (di quel padre !), dall'apparizione improvvisa di lui venuto a rimproverarla, con quel cipiglio, a minacciarla di un indeterminato, ma certo gastigo, che può anche essere le chiusura nel monastero, dal trovarsi guardata da quella cameriera che la tortura con discorsi, con minacce e fintaggini e dispetti. E quanto ai ricordi del passato, ce n'è di lieti, ormai così lontani, e di tristi, così vicinij che sono anzi d' incentivo e di tormento alla fantasia della giovivinelta, generano in lei il conflitto de' sentimenti, fermentano il vario tumulto delle passioni. E lasciamo andare l'appunto per i quattro o cinque giorni, messi là dal Manzoni, che lo Scarano si maraviglia non potessero essere anche «tre o sei»^ osservando che è un numero «preso a caso, perchè esso rappresenta una lacuna nel lavoro della creazione», come se proprio quella espressione numerica indeterminata non volesse significare in modo vago e indefinito, conforme alle leggi della poesia, la vita di resistenza, di sofferenza, di struggimento della piccola rinchiusa, finché non giunga all'estremo dell'esasperazione. «Dopo quei quattro o cinque giorni -- prosegue spietato lo Scarano -- le è fatto, come idea nuovissima, venir in mente che dipendeva da lei di trovare nel padre e nella famiglia degli amici, sì che viene a provare per ciò una gioia improvvisa. Ma questo era come l'altro corno del dilemma; e avendo Gertrude r un corno presente, non aveva da aspettar cinque giorni per veder l'altro». Tralasciando che è difficile consentire in questa forma rigidamente logica in cui lo Scarano ama figurarsi gl'interni combattimenti di quell'anima debole e inquieta, mi richiamo anche per questo all'analisi che addietro ne ho fatto; soltanto aggiungo che quel pensiero che il rabbonirsi de' suoi avversari dipendeva da lei, cioè dalla sua condiscendenza a far la volontà del padre implorando il perdono, sorgeva per antitesi e con suggestiva attraenza dallo spavento stesso di quei «fantasmi seri, freddi, minacciosi», risorgenti troppo spesso nella sua mente, e che attingeva tanto più forza dall' intenso esasperante bisogno d'uscir da quel luogo, d'ottener dal mondo un po' di benevolenza. Il processo psicologico è condotto con sicuro intuito e magistrale coerenza poetica. E quella «gioia improvvisa», chi ben guardi nella delicata trama psicologica onde il potente artista ha intessuto l'animo di Gertrude, non è che la conseguenza straordinaria di quel figurarsi visi benigni e parole carezzevoli, che l'anima sovreccitata vede e sente come in viva realtà e a cui s'appiglia disperatamente, perchè ha un estremo bisogno di consolazione e di sollievo. Lo stato d'animo di Gertrude nel comparire dinanzi al padre, che al legger quella lettera ho visto subito «lo spiraglio aperto alle sue antiche e costanti mire > (*), è raffigurato in quella leggiadra similitudine del fiore con cui s'apre il cap. X. Convengo con lo Scarano che ad essa e a ciò che colà si dice di certi momenti dell'animo giovanile non s'attaglia perfettamente il caso di Gertrude, la quale è ben vero che non cede mollemente alla crudele insidia del principe e ch'ella è un fiore piuttosto abbattuto dall'uragano che «pronto a concedere la sua fragranza alla prim' aria che gli aliti punto d'intorno». Se non che quell' «abbandonarsi (*) sul fragile stelo» con ciò che segue, ove sia riferito ai più benigni discorsi che, dopo averla nuovamente aspreggiata, le rivolge il padre «raddolcendo a grado a grado la voce e le parole», può reggere sol che si consideri lo stato di Gertrude, «scossa dal timore, preparata dalla vergogna e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea». A questo proposito v'erano nella prima redazione due tratti, andati poi soppressi^ che chiarivano il segreto sentire di Gertrude in quel momento di abbandono e la nota caratteristica dell'indole sua. Dopo la similitudine del fiore il Manzoni proseguiva; «L' animo vorrebbe perpetuare questi momenti^ e diffidando della sua costanza, corre con alacrità a formar disegni irrevocabili: felice se la tarda riflessione non gli rivela col tempo che ciò che gli era sembrato una ferma e pura volontà non era altro che una illusione della fantasia» (^). Ed era pur detto di questi momenti non solo «che si dovrebbero dagli altri ammirare cOn timido rispetto» (*) ma «coltivare dal prudente consiglio in modo che si mostrassero colla prova e col tempo», e che in essi «tanto più si dovrebbe tremar e vergognarsi di chiedere quanto più grande è la disposi (1) Prom. sp? cap. X, p. 142. (2) La prima stesura (p. 195) non ha il «mollemente», il che rende più accettabile l'immagine. (3) Sp. prom., p. 195. (4) Così pur ne' Prom. sp., Ice. cit. zione ad accordare» (*). E quel «Ah ! sì,» con cui G-ertrude nella prima redazione interrompeva «incontanente» il discorso del padre prospettante i pericoli del secolo, ella lo pronunciava «mossa ad un punto dal timore, dal ravvedimento, e da una certa tenerezza e sopra tutto dalla corrività della sua fantasia» (^). Quest'ultimo piti forte motivo, che il Manzoni ha poi tralasciato di rilevare o per rendere più sobria l'analisi o per dare unicamente risalto agV impulsi morali ed affettivi o piuttosto così per l'una come per l'altra ragione (^), e quel tratto dell'osservazione iniziale, medesimamente soppresso, gettano un po' di luce nella primigenia concezione del carattere di Gertrude e, in particolare, del suo contegno in presenza del padre. Ella è insomma in uno stato d'illusione sentimentale e fantastica, che, mentre le fa parer di volere con consapevolezza, lascia di fatto indifesa la volontà. Di questa più manifesta situazione, com'era lumeggiata nella prima stesura, dell' animo di Gertrude è rimasta una traccia significativa nel romanzo là dove è detto che il padre volle cogliere a volo quel momento «per legare una volontà che non si guarda > {*). * * * IV. Se nell'episodio della prigionia testé esaminato il Manzoni è riuscito a rendere più compatta, più piena e più profonda la rappresentazione del carattere di Gertrude col rifare in modo più delicato e più complesso la dipintura de' sentimenti e coli' avvivare r analisi psicologica e la situazione di nuovi motivi drammatici, in altre parti ha inteso al medesimo fine ora col sopprimere quel che (1) Sp. proni., loc. cit. (2) Sp. proni., p. 197. (3) Può essere per sobrietà, parendogli sufficienti motivi a prorompere in quel «ah sì»! il timore, la vergogna, la tenerezza istantanea; può essere, ad un tempo, pel proponimento di non caricar troppo sull'indole fantastica della fanciulla al fine di rappresentare una scena d'insidiosa oppressione, in cui tutto il biasimo spetta all'insinuante perfidia del principe. (4) Prom. sp., cap. X, p. 143. Lo Scarano condanna questa fra^e, perchè Gertrude «cedevole divenne per paura e non perchè non si guardasse» e aggiunge che «non fu un dolce inganno quello che la vinse; ma una costrizione, una violenza bella e buona» (art. cit. p. 461). Questo s'intende anche dal romanzo; ma che Gertrude avesse dinanzi al padre una volontà ferma e chiara si da guardarsi dagli agguati dell' «astuzia interessata», io escludo affatto. Che l'autore, piuttosto, immaginasse in lei uno stato di fantastica sentimentalità predisponente alle più straordinarie accondiscendenze, è provato anche dall'esame dell'abbozzo, che lascia scoprire i segreti intenti e procedimenti del poeta. gli paresse accessorio o eterogeneo e con lo scorciare ne' tratti ridondanti, ora col rinvigorire o sviluppare gli elementi essenziali all' analisi e qualche volta con l'aggiungerne di nuovi. Processo di chiarificazione e di condensazione che, sebbene non importi un vigor nuovo d' intuito psicologico, una più penetrante meditazione fantastica, richiede tuttavia il vigile senso dell'evidenza concisa, la scaltrita attitudine a purificare la visione poetica d'ogni elemento superficiale, triviale, contingente, a rifare in sobrio e limpido disegno ciò che prima era prolisso o grossolano. Dopo quel «sì» disgraziato, padre e figlia stanno l'una di- fronte all' altro con sentimenti e contegno mutati. La prima stesura riferiva indirettamente con fare sbiadito, or generico, or troppo caricato, il discorso plaudente del vincitore (*); descriveva con sforzo d'analisi mal contenuta lo stato dubbioso e confuso della vinta (*). Dai rifacimenti le due figure sono balzate nette e precise ne' lor caratteri essenziali: il padre in quella parlata breve, rapida, densa, che è un capolavoro d'ostentata benevolenza e di tortuosa coazione; la figlia in quella chiara dipintura del nuovo combattimento in cui è presa tra il rammarico di quel «sì» «che le era scappato > e la suggestione deprimente delle parole del principe. Dove l'autore, con un fraseggiar povero di vigore fantastico e frondeggiante di verbalismo, s' attardava sulla confusione de' pensieri di Gertrude, ha tatto risaltare con lucida scioltezza di tocchi il tormentìo di quel «sì» impegnativo; dove aveva sbiaditamente colorito uno stato d' inerzia paurosa, ha dato nuova vita e colore al contrasto tra quelle due volontà, l'una inerme ed abbattuta e l'altra agguerrita di forza e scaltrezza e fervorosa del suo trionfo. Così nell'ordinata e sobria dipintura dell'ultima mano ha nuovo rilievo quella che è la caratteristica psicologica della Gertrude manzoniana, un agitarsi cioè tra il pentìmento de' passi a cui la trascina la sua irrequieta sensibilità e l'impotenza di porvi rimedio ('). Nella scena che succede immediatamente a questa del perdono e della riconciliazione, compariva nel primitivo disegno, oltre la madre e il fratello, il segretario del Marchese, incaricato di stendere lì su due piedi la domanda formale pel vicario delle monache: gustosa figura che conferiva peculiare vivezza al quadro secentesco di quella famiglia patrizia (*), ma che il poeta ha poi tolta via, preferendo di (1) Sp. prom., p. 197. (2) Ivi. (3) Cfr. i due passi in Sp. prom., ivi e Prom. sp., cap. X, p. 143. (4) Sp. prom,. p. 199. sacrificare il colorito storico della scena e l'umor satirico che gli aveva ispirato un tipo di cortigiano all' esigenza poetica, più profondamente sentita, di porre in stacco vivo i due personaggi cospicui, r oppressore e la vittima, d'infondere con la rapida sobrietà del racconto e la vivacità del dialogo, in cui domina quasi da sola con la sua voce la figura del principe, un senso di più alta e paurosa drammaticità alla scena, d'imprimervi un più universale carattere umano. Nel seguito del racconto, da quella scena fino alla visita al monastero, assistiamo al lavoro intenso di tagli e scorci e mondature, che rendono più netta e distinta l'essenziale figurazione del carattere di Gertrude: sparita una similitudine ingombrante e poco conveniente (*); eliminati alcuni particolari dell' acconciatura (*) che perturbavano l'unità psicologica ed estetica della rappresentazione di queir aS^annoso sbalordimento crescente, in cui la vittima era come rapita dall'affaccendamento degli astuti oppressori; cancellate certe dimostrazioni d'ossequente amorevolezza che caricavano troppo il colore de' caratteri (^), soppressa, o meglio, condensata in uno scorcio sobrio ed efficace, entro le linee svelte dell'azione, l'analisi dell'animo di Gertrude, oppressa dalle congratulazioni e dai complimenti della gente di casa e de' parenti più prossimi (*); bandite le dimostrazioni di premura de' suoi familiari durante la trottata pel Corso e sostituite dai garruli discorsi di due zìi, un de' quali, col far del brio sulla vita beata della prossima monaca, non solo ravviva il quadro d' ambiente, ma dà anche risalto alla silenziosa ambascia della festeggiata ('); più serrato e conciso e, dirò così, rammorbidito nei toni con l'estinguere alcuni tratti che immiserivano il ritratto morale di Gertrude, il racconto della vendetta che ella si prende sulla cameriera col farla allontanare da sé; e svolta, per contro, per una più acuta intuizione de' caratteri, l'analisi della trista soddisfazione che non appaga la fanciulla e della (1) «La mente di Geltrude era come il lavorìo d'una povera fante, che serva ad una numerosa famiglia e che in un giorno di faccende chiamata di qua di là non può venire a capo di nulla» (Sp. prom.. p. 200). (2) «La Marchesa^ presiedeva all'acconciamento, e parte lodando, parte riprendendo, parte consigliando, parte interrogando Geltrude di cose estranee, non le lasciò il tempo di raccozzar due idee. Del resto, a misura che l'opera procedeva verso la sua perfezione, Geltrude stessa vi prese un po' d'affetto, e vi occupò quel poco di pensiero che le rimaneva» (p. 201). (3) «A tavola Geltrude fu la regina: servita la prima, trattenuta, corteggiata, ella doveva corrispondere a tante gentilezze, e faceva ogni sforzo per riuscirvi» (ivi). (4) Ivi. (5) Sp. prom., pp. 201-2; Prom. sp., cap. X, p. 145. pena che la tormenta al pensiero de' grandi progressi fatti, in quella giornata, sulla via del chiostro e ravvivata in dialogo, come suole spesso il Manzoni, la parte ipocritamente premurosa del padre, ch'era prima succintamente descritta; ridotta, in fine, a pochi tratti, vivi e concisi, la descrizione dello svegliarsi di Gertrude la mattina seguente che deve recarsi a far la richiesta al monastero. La minuta si soffermava a ritrar quel risveglio in codesto quadro di acuta e lucida fantasia, che il Manzoni avrebbe potuto conservare con lievi ritocchi nel testo definitivo: «Geltrude desta per forza, non ancor ben certa di vegliare, assalita ad un punto dalle memorie del giorno trascorso, dal pensiero di ciò che si doveva fare in quello che cominciava e dal cinguettio della governante, stava con gli occhi socchiusi ed intenti come trasognata: quel destarsi era por la sua mente come il dubbio barlume di un mattino tempestoso, quando un leggero diradamento nelle tenebre appena annunzia che il sole è nell' orizzonte, e a chi guarda più attentamente il sole stesso appare come un disco bianco sfumato e leggiero sospeso dietro le nuvole trasparenti» (^). Un'altra vigorosa pennellata, che nella minuta ritraeva al vivo la penosa situazione di Gertrude, assediata, appena scendeva nella sala a prender la cioccolata di rito, dalle nuove cerimonie de' genitori e del fratello^ le quali erano «piccoli fili che legavano sempre più» la poveretta, è scomparsa dal romanzo; ma pur di questo tratto, non men che del precedente, non sapremmo giustificar la soppressione neppure col più rigoroso criterio di sobrietà, poiché ne veniva luce e colore, in un punto dei più cospicui del racconto, alla figurazione dell'indole complessa e ombrosa della sventurata. Conviene riportarlo per disteso: «Essa non confermava con parole la risoluzione che tutte quelle dimostrazioni supponevano; non diceva nulla, non faceva nulla, ma tutto ciò che si faceva intorno a lei, la poneva in una situazione nella quale il disdirsi, appena il mover dubbio sulla sua risoluzione, il fermarsi un momento avrebbe (1) Sp. prom., p. 205. La minuta, poi, raccontava press'a poco come l'ultima redazione: «Il nome del Marchesino aveva già fermata l'attenzione di Geltrude, ma quando dalle parole della governante l'immagine del Marchesino in collera passò nella mente di Geltrude, tutti i pensieri onde questa era affollata, si levarono a volo come uno stormo di passere alla vista d'uno spauracchio, e non restò più a Geltrude che la voglia di disbrigarsi e di schivare quella collera». Osserva, però che, agilità nuova e che precision di rilievo abbia ricevuto il passo elaborato in quest' altra forma: «All'immagine del principino impaziente, tutti gli altri pensieri che s'erano affollati alla mente risvegliata di Gertrude, si levaron subito, come uno stormo di passere all'apparire del nibbio» (Prom. sp., cap. X, p. 147). avuto sempre più apparenza di stranezza scandalosa» (*). E giacché siamo su questo proposito, dirò che la preoccupazione della sobrietà s'è fatta sentire anche in altri luoghi del racconto, ne' quali lo sguardo del poeta non si perdeva dietro a superficiali superfluità di disegno, ma penetrava, acuto e profondo, nello spirito doloroso di quel fosco dramma domestico. E noto che l'autore nell' accingersi a descrivere il giro d'addio a' beni mondani, fatto da Gertrude dopo la visita al monastero, e il colloquio col vicario, dichiara così nella prima come nell'ultima stesura del romanzo di non voler soffermarsi su quella descrizione per evitare «una storia di dolori e di fluttuazioni, troppo monotona, e troppo somigliante -- ha aggiunto nel testo definitivo -- alle cose già dette» (*). Eppure tra le due redazioni c'è differenza; ed è da credere che la considerazione che troviamo dichiarata nella giunta dell'ultima, abbia spinto la mano del rigido revisore a scorciare con speditezza anche eccessiva la densa e particolareggiata descrizione che gli era venuta fatta nel primo getto. A dire il vero, non si tratta solo di soppressioni e di emendamenti dovuti al «fren dell'arte >, ma altresì di sostituzioni e di mutamenti sostanziali così nella rappresentazione degli oggetti ed aspetti del mondo, a cui Gertrude s'affacciava per l'ultima volta, come nell'analisi de' suoi sentimenti. Lo stato di Gertrude appare nell'ultima forma più doloroso che nella primitiva, ma anche meno agitato e involuto; più decorosa la sua intima tragedia, più semplice e, ad un tempo, più delicata, la descrizione de' suoi patimenti. E così, pur conservando gl'intimi contrasti, il carattere ne esce ricostruito e lumeggiato in una forma più raccolta, più organica, più profonda. È il segreto procedimento che di continuo s' intravede nella pertinace elaborazione psicologica e fantastica, attraverso la quale il Manzoni è venuto riatteggiando i suoi personaggi. Ho detto che Gertrude anche dalle pagine ritoccate non figura meno dominata di quel che fosse prima, dai segreti contrasti dell'animo; e aggiungo che, anzi, il Manzoni ha reso più vivace e più cospicuo il travaglio della fanciulla tra le impressioni della splendida vita mondana e l'idea della vita del chiostro, tra il desiderio inquieto di poter vivere per sempre anch'ella nel mondo e il pauroso pensiero, che guastava ogni altra inclinazione contraria, delle difficoltà sempre più ardue e intricate dell'attuale sua condizione. (1) S'p. prom., p. 207. (2) Sp. prom., p. 217; Prom. sp., cap. X, p. 155. Per ottener ciò, senza tuttavia venir meno all'intento di render più sobrio e conciso il racconto de' casi della disgraziata signora -- che minacciava di diventare un romanzo nel romanzo -- il Manzoni di tanto ha ampliata la rappresentazione poetica di quel mondo fastoso, pur toccando in modo succinto delle impressioni e de' sentimenti suscitati in lei giovinetta, di quanto ha ristretta la descrizione dell' affannosa alternativa d' impronte risoluzioni^ di scompiglianti pentimenti, di quella profonda contraddizione tra ciò ch'essa sentiva dentro di sé e ciò che faceva e diceva, impigliandosi sempre pili nella rete orditale dal suo tristo destino. Sono nuove pennellate d'ambiente codeste: «l'amenità de' luoghi, la varietà degli oggetti, quello svago che pur trovava nello scorrere in qua e in là all'aria aperta le rendevano più odiosa l'idea del luogo dove alla fine rismonterebbe per r ultima volta, per sempre >; nuovo quel tocco, per quanto fugace: «la visita delle spose le cagionava un'invidia, un rodimento intollerabile»; nuovo quel rilievo genialissimo di un singolare, eppur tanto vero, disagio morale: «talvolta anche il pensiero di dover abbandonare per sempre que' godimenti glie ne rendeva amaro e penoso quel piccolo saggio; come l'infermo assetato (nuova pur questa comparazione efficacemente significativa) guarda con rabbia, e quasi respinge con dispetto il cucchiaio d' acqua che il medico gli concede a fatica». La dipintura di quel mondo splendido e rumoroso rimase tal quale -- salvo qualche efficace ritocco -- l'aveva concepita il poeta la prima volta, cioè a larghi e rapidi tratti, sollecitandolo più che la cura di ritrarre le figure e gli spettacoli, on d'era circondata Gertrude, quella di significarne gli effetti nell'animo eccitato di lei. Dell' avere, di proposito, tralasciata una più minuta e viva rappresentazione di quel mondo, è stata mossa accusa anche di recente al poeta con argomentazioni desunte da una teoria generale dell' arte che per sé stessa ha il suo ragionevole fondamento. E stato detto che «più poetico, più ricco, più vario sarebbe stato l'addio di Gertrude a ciò che più ardentemente l'anima sua bramava», se l'analisi de' suoi turbamenti e contrasti sì fosse accompagnata alla pittura di tutto ciò che brillava e giulivamente ferveva attorno a lei {^). Può essere. Ma -- a parte che uno scrittore grande va studiato e valutato in ciò che di concreto, d'immediato, di caratteristico ha l'arte sua -- non dimentichiamo che quella sommaria rassegna de' godimenti mondani, a cai è ammessa la giovane ormai (1) SCARANO, art. cit., p. 463. destinata al chiostro dopo il colloquio col vicario, non ha che un valore episodico nella trama del racconto e che il Manzoni aveva con la sua lesta concinnità qua e la rievocato quel mondo aristocratico non dico di proposito e in un quadro compiuto, ma a luoghi opportuni e a grandi linee, come per dare uno sfondo scenico alla rappresentazione della rapida vicenda di fatti e di commozioni in cui è presa ineluttabilmente Gertrude dalla sua prima entrata nel monastero al decisivo colloquio col vicario delle monache. Sfondo scenico che non ha -- ^ è vero -- risentiti, rilevati e coloriti contorni né varietà di figure profilate in vivida luce né dovizia di colori fastosi; ma conviene non perder d'occhio (e a ciò la minuta è di gran giovamento) la concezione fondamentale di questo personaggio, l'intimo disegno che la meditante fantasia del poeta venne entro sé componendo di quella dolorosa giovinezza, il significato morale di tal sacrifizio infecondo di bene. Poiché é chiaro che il Manzoni intese di far risaltare* in codesta storia di Gertrude il carattere e il valore d' un dramina familiare, d'ombreggiarne a tocchi brevi e lievi r ambiente, appunto per dare rilievo alto, complesso, morale insieme ed artistico, all' impari lotta d' un' anima, fantasiosamente sentimentale per natura e morbosamente orgogliosa per razza ed educazione, con la volontà fredda, astuta, potentemente suggestiva d'un padre tirannico per indole e privilegio di casta. Avesse avuto il Manzoni la mente sgombra di quello che troppo eccessivamente si son chiamate le «ubbie della morale» e meno avesse temuto «di dipingere quadri che potessero aver contrario effetto a quello dell'edificazione» (*), non per questo ci avrebbe data una rappresentazione, più particolareggiata e lussureggiante, degli spettacoli e de' divertimenti che in Gertrude suscitavano «ebbrezza», «ardore» di vita lieta e brillante, orrore dell' «ombra fredda e morta del chiostro». Eppure, a rigor di logica, non si può nemmeno dire che in queste pagine il Manzoni abbia di proposito trascurata la serie de' fatti esterni o scompagnatane la rappresentazione dall'analisi psicologica degli interni di Gertrude; né che non abbia visto «col divino occhio della sua mente que' divertimeati e quegli spettacoli quali si potevano presentare all'occhio di Gertrade», né che egli si meriti il rimprovero di non aver «tenuto per altissimo canone d'arte che le due serie di cui si é parlato sono in poesia inscindibili» ('), (1) SCARANO, ivi. (2) ScARANO, art. cit., pp. 462, 463. quando lo studio dello scrittore è manifestamente inteso a farle andare proprio insieme, armonicamente disponendo in salda, coerente e lucida unità estetica gli aspetti di quel mondo e le impressioni di Gertrude, così da riflettervi quell'intimo rapporto di suggestioni e di reazioni tra l'esterno e T interno che costituisce l'inscindibile unità psicologica della rapida sì, ma densa rappresentazione. Alla quale anzi il poeta, elaborandone il primitivo disegno, ha infuso maggior copia di motivi e d' impressioni, che compongono un quadro bensì temperato e sobrio, ma da cui par che movano riverberi tanto più luminosi e una spiritualità tanto più suggestiva pel modo, felicemente seguito, di suscitarvi immagini, colori, movimento in corrispondenza viva e continua con le interne affezioni di Gertrude, per l'arte, insomma, di animarlo quel quadro, non al fine di un'evocazione storica, ma in contrasto co' patimenti e con l'irrevocabile destino della giovinetta infelice. Nella visione di quel piccolo mondo ipocritamente feroce e fastosamente cortigianesco il poeta raccoglie lo sguardo pensoso sull' animo e sul funesto sacrifizio di colei che il pervertimento morale trascinerà a tradire Lucia; di contro scorge la figura grandeggiante del primo e più vero autore di tanti casi sinistri, il principe, e, portato dalle pronte sue attitudini all'analisi de' sentimenti e alla figurazione piuttosto della vita morale che delle condizioni e degli aspetti esteriori, condensa, quanto più può, il racconto nello studio di quei due caratteri, nella rappresentazione di ciò che dia moto e rilievo alla natura e alle passioni loro, così opposte e diverse. Postosi il problema psicologico e morale della rovina morale d' un'anima, di cui son causa' r egoismo domestico, i pregiudizi di casta, la debolezza morale e la mancanza di un puro e alto sentimento religioso, il Manzoni lo risolve nelle forme dell' arte- consentanee alla sua ispirazione e alla sintesi ideale a cui mira: ne viene di conseguenza che la storia di Gertrude riesce ad una analisi psicologica, in cui è sempre vigile il senso di quel conflitto morale che è l'unica e grande ragione poetica del racconto. Così il poeta ha visto, meditato, sentito; entro codesti confini spirituali ha circoscritto il dramma di Gertrude: noi non possiamo chiedergli più di quello che egli ha raccolto nella sua visione interiore, più di quello che ha appassionato la sua coscienza poetica. Non è questione d' esitanza che il Manzoni sentisse a colorir quadri di seducente vivacità mondana; né di scrupoli morali o religiosi né d'estro frenato (*); il fatto é (1) Ivi. che la coerenza artistica, la quale altro non è che armonica concordanza del fantasma col sentimento, della forma rappresentativa con i motivi, con le ispirazioni della sensibilità o della passionalità intima d'un poeta, non gli consentiva d'attardarsi a destare attorno a Gertrude quella che allo Scarano piacque chiamar «cinematografìa degli spettacoli ridenti e splendenti», ma gli consigliava la misura e la sobrietà nel tratteggiare ciò che, pur collegandosi a quel dramma, non avesse che officio di sfondo da cui si dovevano staccar vive ie figure di Gertrude e del padre tra fasci di luce riverberati dalla concezione morale di quell'intima storia di sopraffazione e di dolore. Eliminare ciò che non sia strettamente necessario a lumeggiar le situazioni, condensarle in pochi tratti salienti con vigorosa sobrietà espressiva, riordinare in modo più logico i lineamenti psicologici e morali de' caratteri in azione sono i procedimenti che avvertiamo di cbntinuo nel lavorìo di ricomposizione e di raffinamento dell'episodio monzasco. Il discorso del principe alla figlia poco prima di condurla a far la richiesta al monastero è condotto nell'ultima redazione con più tatto e con più vivo eccitamento dell'orgoglio nobilesco; la scena stessa si svolge in un tempo più rapido che non fosse nella minuta e ha un colore e un vigor nuovo che le imprime una svelta e fosca drammaticità. Il padre parla con un tono di fierezza, di mal contenuto comando e di mal coperta minaccia, con lucida e concisa energia suggestiva. Che fa, che dice Gertrude? Nulla: ascolta, dominata da quella voce e da quello sguardo, irrigidita dallo sforzo" interno dell'anima turbata. Non una frase, non una parola a ritrarne l'aspetto in quell'amara vigilia, a farne lampeggiare dal volto l'affanno interiore. Kiservate all'ultimo le parole della vanità e dell'orgoglio: «fate vedere di che sangue uscite: manierosa, modesta; ma ricordatevi che in quel luogo, fuor della famiglia, non ci sarà nessuno sopra di voi», non succede nessun atto o moto di sospensione o d'attesa che complichi la situazione: «Senza aspettar risposta il principe si mosse; Gertrude, la principessa e il principinolo seguirono; scesero tutti le scale e montarono in carrozza». La concisione poetica di questa scena genera un'intensità drammatica di grande efficacia: non v'ha forse altro luogo dell'episodio in cui il Manzoni con singolare sobrietà di mezzi ne risvegli con sì potente evidenza fantastica il tragico senso: quell'immediata, brusca, imperiosa mossa del principe, seguito sommessamente dagli altri, dopo le ultime altere pa role, è un colpo da gran maestro: vi senti il carattere dell'uomo, la sommissione della sua vittima e delle sue ombre, l'arida cupezza di quelle grandi case patrizie. Che è quel silenzio rigido di Gertrude? È la maschera del suo dolore. C'è in poesia il silenzioso, il sottointeso, l'inespresso, che ha talvolta l'eloquenza illuminatrice dell'arte pili calda e colorita: il Manzoni ne ha di tali momenti divini, in cui l'arte che tutto fa nulla si scopre: questo è uno. Nella prima stesura non aveva avuta la felice intuizione della drammatica profondità di quella scena. Vedete: perfino le circostanze, i toni iniziali ne impedivano la visione vera e forte. Mentre ora leggiamo: «Quando vennero ad avvertir ch'era attaccato, il principe tirò la figlia in disparte e le disse: «orsù, Gertrude...», prima era detto: «Preso il fatai cioccolatte, il Marchese si alzò, pigliò Gertrude in disparte e con aria di consiglio amorevole le disse: «Orsù, figlia mia...». È mutamento questo di gradazione, ma d'effetto mirabile: quel pigliarsi in disparte con fare risoluto ed impassibile la figlia proprio quando si annunzia che la carrozza è pronta, conferisce alla scena un non so che di vibrato e di pauroso, che mozza il respiro e dà risalto alla diabolica arte di non lasciar tempo e mezzo alla poveretta di liberamente pensare, deliberare e agire. Tra quell'atto e l'impronto avviarsi del principe «senza aspettar risposta» non risuonano che le sollecitanti parole di lui, chiudendo come in un vortice l'anima muta di Gertrude: il drammatico svolgimento non potrebbe avere maggiore rapidità. Quest'impressione non faceva la minuta, dove l'avviso dato da un servo che il «cocchio era pronto» veniva dopo il discorsetto del padre e, insieme con un «via, via», detto da costui alla figlia commossa, la costringeva «a farsi forza e a ricomporsi». Codesto circostanziar fiaccamente l'azione ne scemava il vigore drammatico; quell' «aria di consiglio amorevole» e quell'ostentato «figlia mia» colorivano, se vogliamo, di perfida ipocrisia la figura dell' interlocutore, ma rallentavano l'effetto di fosca imperiosità, che pur andava cercando il poeta. L'inerire, poi, nel discorso un tratto a forma indiretta («E qui le diede le istruzioni su quello che doveva fare e dire») e il farle -- ripetere la formola della domanda» e quel volgare «Benissimo, a meraviglia» che il tiranno pronuncia con un' ilarità da commedia, r intonazione del discorsetto, in cui scoppietta Io spirito di una volgare e garrula intimidazione, immiserivano la scena, ne dissipavano l'ideale unità, soffocavano con la fastidiosa superfiuità delle parole la gran luce sinistra che dalla parlata continuata, piena, solenne. tagliente del rifacimento divampa ed avvolge la figlia muta ed immobile. La quale, per contro, movevasi, da prima, a ripetere meccanicamente la formula imboccatale; poi la vedevamo commoversi («Ella arrossò, non rispose nulla, chinò il capo, gli occhi le si gonfiarono») e, con grande sforzo, ricomporsi e da ultimo, nello scender le scale, esser «servita da un bracciere». La scena volgeva al patetico; il dramma tra la garrulità acre del padre e i lucciconi mal contenuti della figlia precipitava nella commedia lagrimosa; l'accessorio, il caratteristico, l'analitico, perfino quella preziosità del bracciere di colore storico, disperdevano la solennità sinistra di quella vigilia fatale, ne snervavano il semplice e profondo significato morale, ne sciupavano il valore poetico. A tramutare lo spirito della scena, a renderla altamente drammatica e profondamente poetica, valse lasciar nell'ombra del suo muto dolore la fanciulla e raccoglier tutta la luce suU' uomo altero, dando a lui unicamente voce e moto: spettacolo di grandeggiante energia sopraflfatrice, da cui, assai più spiccatamente che dai dipinti turbamenti del primo disegno, si riflette nel grigiore diff'uso dello sfondo il segreto tormentìo dell' adolescente oppressa. Così quest'atteggiamento di concentrata e muta angoscia, che s' indovina più che non si veda, rende con maggior coeren>.a e profondità che non fosse ne' particolari patetici e discorsivi della minuta. Li situazione psicologica di quel terribile momento del dramma. * * * V. Con lo studio dell' episodio della richiesta, che si svolge nel monastero davanti la madre badessa e alle monache radunate per la solenne cerimonia, rivolgerò l'indagine, che mi sono proposto di condurre intorno la formazione del carattere di Gertrude, a considerare per quali prove e sforzi vittoriosi l'autore è venuto maturandone l'idealizzazione psicologica, l'elevazione poetica. Il principe e Gertrude con la madre e il fratello entrano in Monza; si giunge alla porta del monastero; si smonta e si trapassa fino a quella del chiostro interno; qui file di monache acclamano * in segno d'accoglienza e di gioia >, e Gertrude si trova «a viso a viso con la madre badessa,», alla cui richiesta risponde: «Son qui...»; poi, esita alquanto, infine prosegue a dire tutta la formula della risposta. È questo uno de' momenti più drammatici del racconto: sotto quelle parvenze di festa e tenerezza giuliva, ossequiente e rumorosa 7 si matura il destino doloroso d'una giovinezza ingannata ed oppressa.. Come vide il Manzoni questa situazione nella foga della prima creazione? Gli lampeggiò nella fantasia sin dal primo momento, in una naturai forma severa e decorosamente composta, il tragico giuoco di quella scena, dove la debolezza della vergogna, la violenza dell'arbitrio, la complicità dell' ossequio gareggiano a nascondersi e a ingannarsi a vicenda? La minuta rivela il tentativo, lo sforzo di raggiungere la figurazione perfetta dell'idea, ma si sente che ne conturbano la serena chiarezza e la composta gravità elementi diversi, non ancora consumati nell' elaborazione fantastica della scena: e cioè quel logicismo analitico, che è un abito spiccatissimo della mentalità manzoniana, frenato, attenuato, ma tuttavia evidente anche nella forma profondamente rinnovata del romanzo; quella appassionatezza per la materia rappresentata che scopre il disaccordo, non ancor superato, tra l'ispirazione romantica e l'espressione classica: quella tendenza, razionalistica e moralistica insieme, che aduggia il carattere lirico del gran quadro con immagini di studiata comicità e con riflessioni ritardatrici e fuorvianti; quel proposito, infine, di colorire l'indole e i costumi de' tempi con figure, aneddoti e atteggiamenti di storica ispirazione. La commozione di Gertrude nell'entrare in Monza, nell 'avvicinarsi al monastero, nell' avviarsi fino alla porta del chiostro interno dove l'aspettava la badessa con le suore, era piuttosto scrutata e analizzata che poeticamente espressa, e la folla di curiosi si disponeva attorno alla vittima, senza colore, senza vita. Una sola nota affettuosa: «All' entrare nel borgo, al vedere la porta de) chiostro Geltrude si sentì stringere il cuore, ma gli occhi della famiglia erano sopra di lei»; poi nulla che esprimesse la trepidazione crescente e lo sforzo di contenerla. «Guardando alla porta, la vide già piena di curiosi»: una notazione, messa là come quell'altra: «il cocchio si fermò», a servizio della materiale enumerazione de' fatti, senza commozione fantastica. Che sentiva, che faceva in quel momento Gertrude? Ecco tutto: < lo studio di non far nulla di sconvenevole la occupava tanto ch'ella scese, e s'avviò quasi senza altro pensiero». Vorrebbero queste parole dipingere l'apprensione di quel momento, ma non danno che l'impressione di un particolare informativo: ed esse e le precedenti, accennanti al luogo e ai curiosi, non sono che aridi elementi logici analitici e discontinui: e' è la costruzione delle idee, non l'anima, non la luce dell'arte (*). Vedete ora nell'ultima (1) Sp. prora., p. 208. forma corretta del medesimo passo, come quello stringimento al cuore perduri e cresca via via che la poveretta s' avvicina al punto de?cisivo; come quel fermarsi della carrozza, quelle mura, quella porta si avvivino di trista luce nel cuore dolorante della vittima; come quella curiosità abbia senso e vita negli occhi della folla assediante e operi -- quasi nuova tiranna -- sul contegno della poveretta, ma <ìome s'aggiunga un nuovo e più pesante motivo di suggestione, cioè quello sguardo fiero, grave, energico del padre; come infine tutte le parti della scena si svolgano con lucida sobrietà e trovino armonicamente ciascuna il proprio posto e concorrano con sapiente processo interativo alla significazione umana, ail' unità estetica di quel prologo così denso di terrore e d' impostura ('). Gertrude è giunta al punto del colloquio. Che diceva la minuta? «Geltrude, come incantata, giunse in faccia a tanto teatro, condotta ed animata dai parenti e si fermò nel bel mezzo davanti alla madre badessa» (^). Incantata ! e anche nella terribile perplessità della risposta avrebbe guardata «come incantata la badessa e la folla che la circondava >. Espressione di folle sbalordimento, che segnava d'un' impronta spettrale quel volto, quello sguardo, ne irrigidiva la persona in automa; così come queir essere «condotta ed animata dai parenti» -- se non era una superfluità di dettaglio -- ribadiva la medesima impressione. La situazione si coloriva d'una tinta di romanzesco, cui aggiungeva vivezza il contrasto col carattere di teatralità che assumeva quella folla aspettante. Secco, conciso, composto, senza coloriture o commenti, il tratto nuovo non dice che questo: «Giunsero alla porta; Gertrude si trovò a viso a viso con la madre badessa» (^); ma quanto più vigoroso e significativo nel ?drammatico svolgimento della scena ! Quel «si trovò viso a viso» -condensa la tragicità irrevocabile del destino che si compie e segna (1) «All'entrare in Monza Gertrude si sentì stringere il cuore; ma la sua attenzione fu attirata per un istante da non so quali signori che, fatta fermare la carrozza, re?citarono non so qual complimento. Ripreso il cammino, s'andò quasi di passo al monastero, tra gli sguardi de' curiosi che accorrevano da tutte le parti sulla strada. Al fermarsi della carrozza, davanti a quelle mura, davanti a quella porta, il cuore si strinse ancor più a Gertrude. Si smontò tra due ale di popolo, che i servitori facevano stare indietro. Tutti quegli occhi addosso alla poveretta l'obbligavano a studiar continuamente il suo contegno: ma più di tutti quelli insieme, la tenevano in soggezione i due del padre, a' quali essa, quantunque ne avesse così gran paura, non poteva lasciar di rivolgere i suoi, ogni momento. E quegli occhi governavano le sue mosse e il suo volto, come per mezzo di redini invisibili» {Prom. sp., cap. X, p. 148). (2) Sp. prom., p. 209. (3) Prom. sp., cap. X, 149. potentemente la iniziale battuta di quella silenziosa contesa a due, ammantata di simulata premura. La badessa rivolgeva a Gertrude il discorso «nel modo con cui si fa per formalità una domanda, della quale è certa la risposta». Così nella minuta: c'era il pensiero indistinto che cercava una sua forma fantastica, non l'immagine, la riflessione logica, non la linea luminosa dell'ipocrita figura. Il poeta l'ha riguardata e, con impeto d'estro nuovo, ce l'ha scolpita in quell'atteggiamento «tra il giulivo e il solenne». Gertrude comincia a dire la formula, inculcatale dal padre: è un momento, in cui la difficoltà massima dell'artista è quella di conciliare con la necessaria rapidità del descrivere la complessità della situazione, in cui vengono in conflitto nell'animo di Gertrude lo sforzo del piangere, la coscienza della gravità delle sue parole, l'orgoglio, l'orrore del chiostro, la paura del padre. Ebbene, nel primo disegno il poeta non era riuscito a superare questa prova, facendogli impaccio le abitudini logiche del suo pensiero, il gusto del psicologismo analitico, l'impulso, piuttosto romantico, a scrutare (che non era poi necessario) tutte le interne fluttuazioni e tumultuose riflessioni del suo personaggio. S'abbandonava ad un fraseggiar superfluo nelle motivazioni della istantanea perplessità, a dire che in quel momento «ella doveva manifestare con certezza un desiderio ch'era tutt' altro che certo nel suo cuore»; che «rifletteva un istante». Procedeva minuto e grave nel ritrar hi nota compagna, anzi le note compagne: «Così guatando, ella vide distintamente alcune delle sue compagne, e sulla parte che appariva di quelle faccette e piti agli occhi un'espressione mista di malizia e di compassione, che diceva chiaramente: «Ah, e' è incappata la brava!». Determinava gli effetti di quella vista con la descrizione di sentimenti troppo noti, perchè non si dovesse lasciarli indovinare alla fantasia integratrice di chi legge: «Questa vista le risvegliò in cuore tutta l'avversione al chiostro, l'orrore per la violenza che l'era fatta, e con questi sentimenti un lampo di coraggio» Qui un' altra riflessioncella, intrusa per quella solita afifezion logica del nostro autore, e uno spezzamento sintattico infiacchivano la rappresentazione nel punto catastrofico della scena: «E già ella stava cercando una risposta diversa da quella che si aspettava da lei, cosa troppo difficile a trovarsi in quella circostanza. Alzò un momento gli occhi verso il padre che le stava al fianco per indovinare che effetto avrebbe prodotto la sua resistenza e come per sperimentare le proprie forze, ma vide negli sguardi del Marchese una espressione sì minacciosa che tutto il suo coraggio svanì» (^), Continuava il Manzoni l'analisi psicologica con un lungo tratto, di cui non rimase neppur l'ombra nel romanzo e in luogo del quale vedremo, invece, una pennellata nuova, di ben altro valore: «Pensò che la resistenza, che il ritardo, l'avrebbero resa innanzi a tanti occhi un oggetto di scandalo, di stupore e di derisione; pensò al padre, al fratello, al mondo, al paggio; si consolò, riflettendo che dopo quella formalità le ririmaneva ancora una porta aperta per tornare indietro, che poteva guadagnar tempo, e che avrebbe saputo approfittarne, e il partito, il più facile, il piti sicuro, il meno terribile le parve di dire, come fece: «Son qui a domandare d'essere ammessa a vestir l'abito» (^). È verosimile codesto dibattito dell'animo di Gertrude? codesto interno discutere il prò e il contro della propria situazione, codesta consolante conclusione cui arriva? Non c'è da meravigliarsi di questo -- diremo con lo stesso Manzoni -- guazzabuglio del cuore umano; e s' intende che nella prima concezione o stesura dell' episodio di Monza, avendo affisato sul carattere di Gertrude piti lo sguardo scrutatore del psicologo, che non quello intuitivo, luminoso e sereno del poeta, fosse portato all' analisi realistica, sottile e abbondevole de' fatti interni anziché valesse a comprendere e fissare con potenza sintetica e immediatezza e concretezza efficace un aspetto eterno dell'animo umano, una di quelle verità profonde che solo l'energia idealizzatrice dell'arte, inalzata al grado di contemplazione, può trarre a forma immortale di su la molteplice realtà della vita. Ma l'autore, allettato dal psicologismo, sciupò una situazione poetica che gli offriva da sé stessa la risoluzione semplice e profonda in quello che è l'incessante motivo irresistibile nelle rovinose vicende giovanili del suo personaggio, la paura del padre. Eppure quel motivo r aveva scorto, ne aveva sentito la portata agli effetti del dramma, se scrisse che gli sguardi minacciosi del Marchese fecero svanire «tutto il coraggio» rinato nell'animo della poveretta; se non che, lungi dal dare ad esso pienezza di svolgimento psicologico e drammatico, l'aveva ravvolto nel turbine d'altre affezioni e -- quel che è peggio -- ne aveva fatto un fascio col timore del fratello, coll'apprensione del mondo, con la vergogna del paggio. Ora si veda l'intero passo nell'ultima redazione: «Son qui...,» cominciò Gertrude; ma, al punto di proferir le parole che dovevano (1) Sp. prom., pp. 209-10. (2) Prom. sp., loc. cit. decidere quasi irrevocabilmente del suo destino, esitò un momento e rimase con gli occhi fissi sulla folla che le stava davanti. Vide, in quel momento, una di quelle sue note compagne, che la guardava con un'aria di compassione e di malizia insieme, e pareva che dicesse: Ah! la c'è cascata la brava. Quella vista, risvegliando più vivi nell'animo suo tutti gli antichi sentimenti, le restituì anche un po' di quel poco antico coraggio: e già stava cercando una risposta qualunque, diversa da quella che le era stata dettata; quando, alzato lo sguardo alla faccia del padre, quasi per esperimentar le sue forze, scorse su quella un'inquietudine così cupa, un'impazienza così minaccevole, che, risoluta per paura, con la stessa prontezza che avrebbe preso la fuga dinanzi un oggetto terribile, proseguì: «sou qui a chiedere d'esser ammessa a vestir l'abito religioso, in questo monastero, dove sono stata allevata così amorevolmente». Il Manzoni -- rimeditando la scena -- ne intuì la verità semplice e grande, da prima confusamente intraveduta: vide la disarmata volontà di Gertrude, tutta dominata dalla potenza suggestiva e minacciosa di quello sguardo, di quel volto; vide che in quello stato non poteva ella seguire una risoluzione che non fosse fomentata unicamente dalla paura del suo giudice e condannatore. Ed ecco la narrazione mutarsi nel disegno, nella forma, animarsi di una nuova spiritualità: ecco grandeggiar la figura del principe di fronte alla povera anima esitante: ecco tutto il groviglio psicologico del primo getto diradarsi, sciogliersi nella semplice e intera figurazione del terrore di quella faccia cupa, inquieta, minacciosa. La psicologia -- per chi voglia cercarla -- e' è, ma si ravvolge alle radici del dramma; il dramma s'aderge agile, semplice, conciso nel suo svolgimento perspicuo, nel suo significato universalmente umano: è il dramma dei deboli a cui non splende il conforto della luce morale e tocca l'ineluttabile destino dell '.oppressione e della sconfitta. Che il Manzoni mirasse a dare vivo spicco al trionfo di quell'egoismo paterno, armato d'arbitrio e di terrore, è manifesto anche dal modo come ha elaborato l'intero passo, sfrondandolo d'elementi concettosi, scegliendo con nuovo rilievo le immagini, serrando la sintassi. (Quella vista le restituì... e già stava cercando una risposta... quando... scorse...) nel momento saliente, così da; riprodurre con l'icastica rapidità del racconto la breve vicenda de' sentimenti sopraffatti dall'impetuosa paura. Lo spirito fine e gagliardo, la decorosa gravità, onde s'è ricomposto r episodio nella parte fin qui esaminata, hanno rinnovato il resto in modo anche più sostanziale. Già la figura di Gertrude, ridotta l'analisi de' sentimenti all'essenziale, dato rilievo più risentito e sicuro alla contrapposta figura del padre, dal cui sguardo dipendeva ogni moto, ogni atto di lei, risulta in linee più semplici e vigorose, in un atteggiamento di più profondo e raccolto dolore, che ne rivela tutta la fragile umanità di creatura debole ed oppressa. C'era un non so che di sforzato, d'inquieto, di complicato nel primitivo disegno di questa poveretta, costretta a chiedere in un consesso ostentatamente solenne e festoso il suo sacrifizio; ora, nell'ultima forma, la figurazione estetica del suo contegno, la risoluzione drammatica della sua disfatta sono più conformi alla gravità della situazione psicologica, che per ciò stesso s' illumina d'una più nobile luce di poesia. Dopo le fatali parole pronunciate sotto la pressione della paura Gertrude si perde nella folla festeggiante; poi non la vediamo se non di sfuggita, o invitata] a sceglier per prima de' dolci da una gran guantiera colma o presa dalle monache che fanno a rubarsela, mentre la scena si svolge frettolosamente jverso la fine, con la risposta garbatamente diplomatica che dà subito la badessa, con l'alzarsi, dopo le parole di lei, d'un frastuono confuso di congratulazioni e d'acclamazioni, col complimentar che fan le monache, talune la madre, altre il principino, col breve colloquio -- capolavoro d' ipocrisia e di furbizia -- al parlatorio tra la badessa e il padre, con gl'inchini, gli ultimi complimenti, la partenza: e tutto ciò è segnato con nitidezza di sguardo, con sveltezza di tocchi. La minuta aveva tutt' altro andamento e tono: garrula, scherzosa, con intromessi commenti e richiami ingombranti, rivelava un non so qual buon umore dell' artista (*), come se gli piacesse mischiarsi col suo sorriso ironico a quella folla dalle facce impiastricciate di dolciastra impostura,, e presentava di frequente Gertrude sballottata come una (1) Nel dire che alcune educande «s'eran trovate un cantuccio per vedere anch'esse qualche cosa», osservava ridendo: «il che era in verità troppo giusto» (p. 209). Ci presentava la badessa «tutta sorridente» nel porgere a memoria la risposta «che le era stata data in iscritto da un beli' ingegno di Monza, uomo dotto, che aveva letto i celebri romanzi del Pasta» (p. 210). Le suora per l'acclamato discorso della superiora «sorrisero di compiacenza» -- raccontava l'autore con mal celata canzonatura -- e aggiungeva con serietà ironica: «e non a torto, perchè la gloria del capo si diffonde sugli inferiori» (p. 211). Comici quella Marchesa, quel Marchesino e quelle suore che in crocchio «s'abbandonavano alle varie riflessioni che può far nascere un bacile di dolci» (p. 213); il che, insieme con la secentesca discorsa della badessa, serviva, nell'intenzione dell'autore, alla coloritura satirica del concettismo letterario del secolo. Di tono grossolanamente scherzoso era quell'inizio nella descrizione de' sentimenti di Gertrude: «V'ha due modi di scendere il pendìo della sventura: l'uno è di capitombolare ad un tratto nel precipizio, l'altro d'andarvi come saltelloni a più riprese; in questo secondo caso, ogni fermata è una specie di riposo...» (p. 211). pupattola e assediata di chiacchiere e di complimenti ('). Era un tramestìo di piccole cose frivole, che voleva riprodurre lo spirito e il costume della società claustrale di quei tempi {^), ma che non aveva nemmeno la chiara vivacità d' una commedia goldoniana e in cui, per contro, andava dissipato lo spirito tragico di tutta la scena, troppo alto e universale per esser costretto entro la cornice d'un quadretto secentistico. Come finiva? Ecco: «Geltrude colle tenere espressioni della badessa, con le istanze delle suore di venir presto, fu rimessa in cocchio più stordita, più incerta, più sopra pensiero di quello che fosse partita la mattina, ma con un anello di più alla catena; e che anello!» (^). È fermata con chiarezza di sguardo e coerenza rappresentativa la situazione vera di Gertrude? No: codesta confusione dell'animo, espressa con modi di stile troppo pesi e aggrovigliati, discordava dai sentimenti provati poco prima, da quel «certo sollievo d'essere uscita di quella stretta, comunque ne fosse uscita >, dal proposito «di volere, prima di fare un altro passo, meditar ben bene se le conveniva o no di progredire e di non lasciarsi cogliere così alla sprovveduta» {*). Era pur questo un modo strano -- se non addirittura falso -- di rappresentare la sacrificata giovinetta in tale stato d'idee e di sen (1) Sp. prom., p. 213. (2) V. la tiritera, con l'intrusione, perfino, d' un elemento autobiografico, sui dolci offerti, la cui fabbricazione -- secondo gli ordini ecclesiastici -- era proibita (pp. 212-3). Diamo solo un saggio del discorso, secentisticamente artificioso, della badessa: «Se il rispetto non ponesse un freno agli afi'etti, io accuserei in questa circostatiza di troppo rigore quelle regole sapientissime che ci proibiscono di dare alcuna risposta a domande di questa natura, prima di averne ottenuta licenza. Bensì, senza riguardi, accuseremo il tempo che coi suoi lenti passi ci ritarda di dare questa risposta desiderosa non meno che desiderata ecc. ecc.» (pp. 210-11). La risposta della Superiora, ne' Promessi sposi, ridotta in forma indiretta, non serve più al fine d'offrire un esempio ridicolo di letteratura concettosa e ampollosa e una macchietta, più buffa che gustosa, della vita del secolo, ma nella sua garbata e insinuante compostezza, colpisce un carattere, fissa un tipo: nelle sobrie, ma studiate parole, ne' brevi atti, in cui il poeta ci ripresenta la badessa spogliata d'ogni trivialità ridanciana, risalta il tratto vivo di un'astuzia guardinga nell'apparenza, ma ossequiente nel fatto, che ne fa una figura meno storica che non fosse nel primo getto, ma più ricca di trista umanità e di verità poetica. (3) Sp. prom., p. 213. (4) Sp. prom., pp. 211-2. Questa breve analisi dell'animo di Gertrude non è andata interamente perduta; ma più opportunamente il poeta l'ha trasferita nella narrazione -- anch'essa più spedita e sciolta da taluni mediocri particolari comici della minuta (Sp. proni., pp. 215-6) -- del ritorno alla casa, riducendola a linee più raccolte e più temperate, ma con più penetrante investigazione del singolare stato di Gertrude che, «spaventata del passo» fatto, «vergognosa della sua dappocaggine, indispettita contro gli altri e contro se stessa, faceva tristamente il conto dell'occasioni, che le rimanevano ancora di dir di no; e prometteva debolmente e confusamente a se stessa che. timentì che non pare fosse d' abbattimento, ma, una volta posta sotto eodesta luce, era superfluo, anzi contraddittorio rappresentarla poi diversamente. Gli è che il Manzoni non aveva ancora maturata con sicuro vigore di visione e d' espressione la forma fantastica del suo personaggio nella situazione descritta, perchè l'idea di esso, ancora avvolta di elementi astratti, quali sono il psicologismo minuto e le riflessioni a mo' di commento, non erasi sostanziata in un chiaro e puro sentimento d' ispirazione o motivo sentimentale, che si trasfigurasse nel concreto ordito della situazione e nella concreta fisionomia del personaggio in azione. Ogni creatura dell' arte non è che la forma fantastica che assume uno stato, un motivo interiore del poeta: ricercare la genesi artistica di un carattere, d' un' azione, d' una scena, d' un episodio vuol dire risolverla ne' motivi sentimentali in cui si sono come trasfusi stati intimi, etici, intellettuali, aff'ettivi, e via dicendo, dell'autore stesso. Il Manzoni come rivide, rielaborando la scena che veniamo esaminando, la situazione generale e gli atteggiamenti particolari di Gertrude con un'attitudine più triste e pietosa verso la vittima dell'altrui nequizia, con un concetto più limpido e fermo della paurosa suggestione del padre, risentì del suo personaggio un'ispirazione sentimentale conforme alla nuova concezione e ne trasse motivo a rinnovarne fantasticamente le fattezze e l'azione. Così si spiega perchè di Gertrude, dopo la richiesta, che suggella il suo destino, non dica quasi più nulla, e del móndo circostante tracci, a grandi linee, con tono sobrio e severo, figure e azioni, attenuando negli svelti contorni d'una composta, ossequiente ipocrisia quella madre badessa del primitivo disegno, così goffamente comica nell'ampollosa parlata, così grossolanamente garrula e faccendona, respingendo nello sfondo del quadro quel brulichio di suore rumorose e chiacchierone che appesantiva la scena, purgando questa di ogni elemento pedestre o giocoso, tagliando via tutto il frascame di frasi superflue che adugglava il poetico significato di quel convegno fatale. Per tal modo Gertrude resta, per dir così, fermata immutabilmente nella nostra umanità in quel suo atteggiamento d'angoscia e di paura, dissimulate nell' espresse parole; e la scena, ond'ella risalta, per essere stato ricomposta in linee e luci più mi in questa o in quella, o in quell'altra, sarebbe più destra e più forte»; turbata ancora, però, dal «terrore di quel cipiglio del padre»; «per un istante, tutta contenta», come di una bella cosa, quando non scorse «sul volto di lui più alcun vestigio di collera» (Prom. Sp., cap. X, pp. 150-1). fiurate e decorose armonizza efficacemente con la situazione psicologica del personaggio. Dobbiamo soffermarci un momento su una modificazione d'intreccio -- l'unica in tutto l'episodio di Monza -- che consiste nell'avere il Manzoni trasportato l'esame del vicario immediatamente dopo la richiesta fatta al monastero e dopo la scelta della madrina^ mentre nella minuta esso seguiva al giro d' addio dato ai beni mondani. Parve logico connettere quell'esame con la richiesta senza intermissione di tempo e come una conseguenza immediata di quella (*), e parve altresì cosa opportuna nell'ordine psicologico e drammatico del racconto. Infatti quella postrema rassegna delle belle cose del mondo, fatta che fosse prima dell'esame, potrebbe significare come una prova del fuoco per sperimentar la vocazione, la sicurezza dell' anima, per chiarirsi il proprio vero stato di coscienza. Ed era lecito presumere anche questo dalla prima stesura, tanto era essa incerta e imprecisa -- a differenza della nuova redazione -- circa il tempo regolare dell' esame (^) e la ragione vera di quel giro in mezzo al mondo (^) da farsi prima del noviziato. Ma siccome, nel fatto, l'interrogatorio sulla vocazione era collegato col capitolo da tenersi, al quale l'esaminatore doveva rilasciar «l'attestazione necessaria» {*) e quel po' di vita tra spettacoli e divertimenti doveva servire per le giovani monacande a veder «bene a cosa davano un calcio» ed era, se mai, l'ultimo esperimento di una vocazione, già manifesta, «prima di proferire un voto irrevocabile» (^), l'una cosa non aveva relazione con l'altra; il che nella minuta non era chiaro, anzi per la precedenza data all'esame poteva far pensare che una relazione ci fosse. Così anche questo mutamento d'intreccio rafibrza la logica degli avvenimenti, rende perspicua la ragion loro, contribuisce altresì alla coerenza psicologica e all' evidenza fantastica della situazione e de' sentimenti. Per quest'ultimo rispetto, infatti, quegli spettacoli e divertimenti e quell'impressioni dolorose di Gertrude a tocchi vigorosi descritte, hanno un risalto nuovo nella piena integrità del dramma, per esser collocati cosi nell' estremo della dolorosa storia, poco prima della vestizione dell'abito, e la figura stessa (1) Dice infatti il principe di ritorno dal monastero: «domani vei'rà il vicario delle monache, per la formalità dell'esame, e subito dopo, Gertrude verrà proposta in capitolo» p. 151). (2) Cfr. n. preced. e Sp. proni., p. 219. (3) Sp. proni., p. 216. (4) Proin. sp., cap. X, p. 155. (5) Ibid., p. 151. della povera sposina, colta dalla nostra fantasia in quel triste trapassa dalla pompa, dallo splendore, dal brulichio clamoroso e gioconda del bel mondo all'ombra fredda e morta del chiostro, spira una tal quale mestizia inquieta e stanca che la rende più altamente poetica. Nel colloquio stesso di Gertrude col vicario e ne' discorsi in cui poco prima la trattiene il padre si osservano variazioni notevoli tra la minuta e il romanzo rispetto alla dipintura del carattere di lei; alle quali, quantunque non si tratti di sostanziali differenze, conviene porre un po' di attenzione, perché il Manzoni nel rivedere le situazioni e le scene più rilevanti del lungo episodio non ha tralasciato occasione per elevare la figura morale della sua dolorosa eroina con uno spirito di pietà più profonda e pensosa, con un vigore d'analisi più raccolto ed intenso. Costante processo di quella idealizzazione della realtà, attraverso cui ha trasformato l'opera uscita dal primo getto, imprimendole il suggello della verità eterna, che è il segno della grando poesia. Fra le molte parole d'ammonimento e d' incitamento del padre, e' era nella minuta qualche accento di solenne orgoglio e di misteriosa minaccia (*), che non poteva non sconvolger l'animo della misera ascoltatrice; della quale il Manzoni indugiava a descriver l'apprensione, l'angoscia: «la gragnuola assidua e crescente di quelle parole minacciose, percotendola la abbattè affatto e la fé' sciogliere in uno scoppio di pianto»; dopo molte altre parole, dette in fretta per confortarla, per rasserenarla, ma troppo vane e grossolane per toglierla da quella «agitazione», ella, rimasta sola, «pianse amaramente, si sdegnò, volle meditare su quello che aveva a dire; ma questa meditazione era così piena di dolori, d'incertezze e d'angustie, che la poveretta prescelse di divertirne a forza il pensiero, di rivolgerlo a qualche cosa di estraneo, e di aspettare il consiglio dalla cosa stessa e dal momento» (^). Si preoccupava poi, la disgraziata, di presentarsi all'esaminatore «in un aspetto che annunziasse una qualche perturbazione e risol (1) Sono tratti che non si leggono più nel romanzo: «Oggi voi dovete fare un gran passo: pensate che da esso dipende l'onore di vostro padre, della famiglia, il vostro, e il vostro destino di tutta la vita» -- «Io mi sono impegnato, in faccia al mondo, e mi sono impegnato perchè voi mi avete dato motivo di credere, di esser certo che poteva impegnarmi senza rischio di avere una smentita» -- «Astretto di appigliarmi al secondo [partito, di svelare i veri motivi della richiesta che voi avete fatta, e del vostro pentimento], dovrei anche poi trattarvi come una figlia colpevole, che avrebbe corrisposto al primo perdono con un'altra gravissima colpa» (Sp. proni., p. 220). (2) Sp. prom., p. 221. vette di avere un aspetto tranquillo e decente; e lo ebbe, -- aggiungeva pedestramente l'autore -- in brevissimo tempo». Se non che all'annunzio «Il Signor...!», Gertrude tornava ad apparir «vergognosa e agitata», tanto che il «buon uomo», che si spiegava quelle perturbazioni in modo favorevole alle sue presunzioni, le cominciava a dire con fare scherzevole: «Signorina, vedo che le fo paura», ed ella alla fine si sentiva «rincorata dalle parole e dal tono» del suo interlocutore. Dai rifacimenti la figura di Gertrude uscì lineata con piìi disciplina d'arte e impressa di una tristezza più decorosa e raccolta: non ne vediamo l'interna angoscia dai segni esteriori, se non quando, alle gravi parole del padre: «o svelare il vero motivo della vostra risoluzione», dice il poeta che «era diventata scarlatta» che «le si gonfiavan gli occhi e il viso si contraeva, come le foglie di un fiore nell'afa che precede la burrasca»; non le scorgiamo nel volto altri moti alle parole più serene del padre; non lacrime, non sussulti di sdegno, non agitazione e vergogna neir aspetto all'annunzio del vicario. Il poeta, per queir intima energia illuminatrice e disciplinatrice, ritrovata nella calma della contemplazione, che gli valse a ricreare e a rifoggiare materia e forma del primo getto trasfigurando in classiche rappresentazioni anche le più genuine ispirazioni romantiche dell'opera sua, ha, dirò così, ritratta la sua visione poetica dai sensi all'anima, dalle esteriorità patetiche all'intimità dolente e silenziosa; ha sostituito all' ostentata analisi particolareggiata delle commozioni varie il tratto sobrio, fugace, ma bastevole a illuminare l'immenso affanno di un cuore, il sapiente uso del chiaroscuro e di quelle che direi riverberazioni poetiche, che, riflettendosi dalla situazione stessa, dagli atteggiamenti e dalle parole di un personaggio, profilano di una luce ferma e chiara la figura dell' altro. Magistero d' arte classica, che rispecchia non le parvenze della natura, ma lo spirito, non la serie caduca delle sensazioni, me l'unità integrale della coscienza, non gli aspetti ed episodi della realtà mutevole e discontinua, ma l'eterna umanità palpitante col suo ritmo immutabile non meno nel mondo delle cose che in quello degli uomini. Vedete che differenza di visione poetica dall'abbozzo al romanzo. Diceva il primo: «Un bel mattino il Marchese annunziò a Gertrude che in quel giorno il Signor*, ecclesiastico mandato dal vicario delle monache, verrebbe ad esaminare la sua vocazione». E poi: «Stimò che fosse necessario aggiungere all'annunzio qualche avvertimento, che lasciasse un'impressione nell'animo della figlia, e le servisse di compagnia e di guardia nell'assenza forzata d'ogni altro custode». Quindi cominciava il lungo sermone del padre. Voleva essere il preludio della grande scena dell'esame, e non aveva che le battute fiacche d'una musica stonata e pedestre. Che sentì Gertrude all'annunzio di quella visita? come allora vi dispose l'animo? Che Gertrude avesse la consapevolezza di quel momento, che, anzi, nelle inquiete giornate quando la conducevano tra le feste e gli spettacoli vi riponesse la speranza di tentare la sua salvezza, il Manzoni ce l'aveva fatto sapere; ma l'averne toccato lì, come di un sentimento riflesso, non aveva altro fine che di prolungare l'analisi dell'animo di lei, amareggiato di dover lasciare le delizie del mondo.. l'ultima redazione del romanzo, nella quale, come dicevo, sì fa seguire la scena dell'esame nel giorno dopo la visita al monastero, ti prospetta questo stato interno di Gertrude il giorno stesso dell'interrogatorio decisivo. È al tutto cambiata la mossa: ciò che era analisi diventa dramma, e -- tratto pur nuovo ed originale -- la chiamata del principe cade in mezzo ai suoi pensieri, quando forse non se l'aspettava proprio nell'ansia della breve vigilia. Ecco il passo: «Il giorno dopo, Gertrude si svegliò col pensiero dell'esaminatore; e mentre stava ruminando se potesse cogliere quell'occasione così decisiva, per tornare indietro e in qual maniera, il principe la fece chiamare > (^). A noi basta questo modo altamente drammatico (e le nuove movenze sintattiche vi aggiungono vigore attrattivo) d' introdurre la scena di quella dolorosa e fatale giornata, per figurarci l'animo di Gertrude, che, mentre si raccoglie a preparare l'estremo tentativo, improvvisamente è turbato dalla chiamata del padre e chiuso nel ferreo cerchio de' moniti, delle minacce, delle lusinghe, finché ecco si annunzia il vicario, e Gertrude resta sola con lui.' È bastato rinnovar le circostanze condensandole di suggestiva terribilità, prospettandole vigorosamente in una percezione immediata, che non lascia tempo all'animo di uscire dalla loro rapida vicenda, è bastato rendere più evidente il contrasto tra la sinistra eloquenza, avvolgente, opprimente, del principe e il mesto silenzio della figlia, rigida nel suo dissimulato dolore dinanzi a lui, per far balzare ai nostri occhi la figura della poveretta, senza indugi analitici, senza colorimentì patetici, nella plastica pienezza della sua umanità dolorante, negl'icastici lineamenti dell'ansia mortale che non si rivela, ma s' intuisce. È proprio così: nell' animo di Gertrude s'intuisce più che non si legga, s'indovina molto più che (1) Sp. proni., p. 220; Proni, sp., cap X, p. 152. il poeta non dica: non sempre non ci guida la parola di lui, ma penetriamo in quella tormentata coscienza più a fondo che non ci giovasse la particolareggiata descrizione della prima stesura. Quando «l'uomo dabbene», dopo aver chiarito lo scopo di quel colloquio, soggiunge: «Si contenti che io le faccia qualche interrogazione», Gertrude non risponde altro che: «Dica pure». Semplici e sincere parole^ che possono sembrare una magra frase di convenienza, e sono al contrario il breve respiro d' un'anima, uscita testé dal martellio accasciante de' discorsi del padre, che si dispone con ansia repressa. Dio sa con quanto sforzo, al martirio d'un interrogatorio tanto importante e che presente di dover raccogliere tutte le sue forze per simulare una vocazione non sentita. E quand'anche quel «dica pure» non avesse che il valore estetico di non lasciar trapelare nulla del vero stato di Gertrude, è pur sempre, nella sua nuda semplicità, un tratto d'efficacia drammatica, come sa farel'arte grande che avvicenda ombre e luci nelle sue rappresentazioni. Nella prima stesura, per contro, Gertrude trovava il coraggio di fare codesta dichiarazione non sapremmo se più confidenziale o circospetta: «Signore, io ho desiderato ardentemente questo abboccamento. Da questo dipende la scelta della mia vita, e io spero che da ciò che io le risponderò, verrò io stessa a conoscere quale sia la mia vocazione» (*). Parole che rivelano il medesimo stato d' animo di Gertrude, accennato nella descrizione delle feste e delle conversazioni che precedettero la sua entrata nel monastero: se non che ivi l'analisi di quella vaga estrema speranza che Gertrude riponeva nella prova dell' esame per trovarvi la forza e la calma di prendere più liberamente una risoluzione conforme al suo desiderio, era appropriata, come quella che lumeggiava con meditato rilievo il temperamento di lei, debole e fantastico e perciò facile al procrastinare; ed era anzi, per quel che osservammo, uno spunto felice nella dipintura dell'animo della giovinetta, che poteva essere conservato nel romanzo; qui, al contrario, tal discorsetto serio serio, equilibrato, fatto con un' aria di confessione ad un tempo e di cautela, non si adatta alla situazione presente, in cui ella è col suo animo combattuto e chiuso a viso a viso coli' interrogatore, e non le si addicono parole che contengano qualche riflessione sul suo stato e su i suoi propositi senz'essere l'immediata protesta di ciò che la sua povera anima, tutta soggiogata dalle parole del padre, non può a meno di dire mentendo a sé stessa. (1) Sp. proni., p. 224. Come il Manzoni nel rifacimento dell'episodio condensò, non tanto per la preoccupazione di tirarlo troppo per le lunghe, quanto per quel fren dell'arte, che altro non è se non equilibrio e profondità di visione, le minute e particolareggiate analisi psicologiche della prima stesura in sobri e vigorosi rilievi, così i discorsi e ogni altro atteggiamento esteriore di Gertrude temprò e contenne con la misura severa dell'artista che cerca nella semplicità e nella concisione espressiva de' mezzi l'efficacia rappresentativa della realtà osservata e idealizzata. «Dica pure» risponde Gertrude: o che altro può dire? che altro deve dire in quel momento d'aspettazione angosciosa? Due piccole parole, in cui senti il tremito interiore della sventurata che non si rivela, il preludio d' un dramma che si svolgerà tempestoso nell'ambito chiuso della sua coscienza, ma non lampeggerà in nessuna parola e in verun atto d'esitanza, d'inquietudine, di ripugnanza o di ribellione imprx)vvisa. È l'arte rinnovatrice, come già osservavo, con che il Manzoni ricompose, dirò così, l'anima de' suoi personaggi ritraendone la vita dall'esterno all'interno, dai sensi allo spirito, di tanto rendendo parca la parola nelle loro labbra e composti i moti della loro persona, di quanto intensificò la loro intima spiritualità. È quel meraviglioso processo classico, attraverso il quale l'opera manzoniana è venuta liberandosi dal romanticismo artistico della prima maniera. Ma per intender bene il valore del dialogo, che veniamo esaminando, e i mutamenti operati dal poeta nello svolgimento di esso e nello stesso contegno di Gertrude ci conviene soffermarci un po' sulla figura del suo esaminatore, sostanzialmente trasformata anch' essa dalla prima stesura all'ultima redazione del romanzo. Era curioso quella specie di processo che l'autore faceva al signor abate che, dopo i discorsi del Marchese, esaltante la pura e calda vocazione della figliuola per la vita del chiostro, veniva con «la prevenzione dolcissima» che fosse vera e pregustava la consolazione «di godere dello spettacolo di una buona risoluzione», «mentre -- diceva l'autore -- avrebbe dovuto pensare ad accertarsi se la risoluzione esisteva»: e preparava «l'animo suo nulla più che ad adempiere una cerimonia, una formalità» mentre -- ribadiva il Manzoni -- «faceva tutt'altro; e doveva saperlo. E perchè aveva ciecamente creduto al padre di Geltrude? Perchè era un buon uomo; e la bontà gli era sì naturale che gli pareva la cosa più naturale del mondo; siccome ve n'aveva sempre nelle sue intenzioni e nelle sue azioni, egli ne supponeva sempre nelle intenzioni e nelle azioni degli altri >. Era insomma un «sempliciotto», come, letta questa pagina, ebbe a scrivere il Visconti, il quale osservava che, «per giudicar bene», non doveva esser tale (*), L'amico, -- s'intende, -- come in tutte le sue postille, guardava alla verosimiglianza de' caratteri; ma io che vengo indagando la genesi primitiva de' personaggi manzoniani, riconosco nel ritratto morale di codesto «buon uomo» la tendenza al realismo comico e al moralismo censorio che troppo spesso mosse il sentimento e la fantasia del poeta nella prima formazione del romanzo, onde, come già ho rilevato più volte e avrò a comprovare anche nel seguito, taluni caratteri e fatti apparivano nella prima stesura in un aspetto troppo spiccatamente volgare o financo buffonesco, o troppo tristo financo cinico e beffardo. Quella dabbenaggine dell'esaminatore (perchè poi era deputato a così alto uffizio un uomo simile?), che si lascia infinocchiare dal padre di Gertrude, voleva essere la fertile materia di un ritratto umoristico e di umoristiche movenze anche nello svolgimento del dialogo; ma né quello riuscì fatto in modo coerente e perspicuo, perchè il tono rcquisitorio e gnomico, che prevale, guasta la lepida pennellata con cui è ritratta la straordinaria bonarietà del nostro uomo, né -- come tosto vedremo -- la credula gaiezza di lui nell' interrogare e ascoltare Gertrude desta in noi l'impressione d'un umorismo felicemente sentito ed espresso, ma sì piuttosto d' una comicità un po' grossa e stentata. S' accorgesse il poeta di non essere riuscito nell'intento o riconoscesse giusto (almeno in parte) l'appunto dell'amico Visconti o -- quel che è più probabile -- gli paresse -- come già nel rifare la scena della richiesta al monastero e il ritratto della badessa ?, disconvenire alcuna nota comica o volgare, perturbante l'unità estetica della grave e dolorosa situazione di Gertrude, o volesse, infine, -- com'è non meno probabile -- rendere anche questa secondaria figura più elevata e più decorosa che non fosse nella minuta, il fatto è che il carattere del vicario ha nel romanzo un atteggiamento più serio, più accorto, più guardingo. Un resticciolo della primitiva tentata concezione umoristica è in quell'appellativo d' «uomo dabbene» che già il principe aveva adoperato discorrendo con la figlia non senza intenzione d' impressionarla, e che l'autore riprende, nel farne il ritratto, con una finezza ironica, non facilmente afferrabile, riverberante piuttosto il suo segreto giudizio sull'apprezzamento interessato del principe che non una disposizione canzonatoria verso il nuovo personaggio: ma i lineamenti essenziali di questo hanno una (1) Sp. proni., pp. 223-'!. compostezza e una lucida sobrietà, che preludiano convenientemente alla scena dell'interrogatorio. Il tratto psicologico, anzi, della rinnovata figura rispetto alla protestata vocazione di Gertrude è la «diffidenza», come quella che «era una delle virtù più necessarie nel suo uffizio» l'aver «per massima d'andare adagio nel credere a simili proteste e di stare in guardia contro le preoccupazioni >. È vero, sì, ch'egli «veniva con un po' d'opinione già fatta» (ben altra cosa della «prevenzione dolcissima» della prima stesura!) «che Gertrude avesse una gran vocazione al chiostro; perchè così gli aveva detto il principe»; ma ciò è consentaneo a chiunque non cada neir eccesso opposto di supporre il male in chicchessia e perchè -- osserva acutamente il Manzoni -- «ben di rado avviene che le parole affermative e sicure d'una persona autorevole, in qualsivoglia genere, non tingano del loro colore la mente di chi le ascolta» (/), Nel delicato profilo di questo «buon prete» -- se una verità umana lampeggia ?, ella è questa, che anche l'anima più nobile, e più cauta, più devota alla santità e alla giustizia del suo uffizio nella vita sociale^ non si sottrae del tutto alla subdola suggestione dell' altrui passioni, quando esse si presentino rivestite di autorità e ammantate di disinteressata sincerità. La scena dell'esame, come la leggiamo ora nel romanzo, procede concisa nell'analisi, svelta e sobria nel dialogo; è evidente la cura di far risaltare i caratteri dall' azione viva, impegnata tra il prete, che, calmo, attento, lucido e penetrante, scruta e incalza per afferrare la verità di quella vocazione, e Gertrude che, «determinata d'ingannarlo», «rifugge spaventata» dalla «vera risposta» che le «s'affaccia subito alla mente» e che, non d'altro preoccupata che di togliersi «presto e sicuramente da quel supplizio», nasconde il suo turbamento e risponde sempre «più franca a mentire contro sé stessa». Quand'ella all'abile interrogatore, che, accennando alla possibilità d'un suo capriccio dopo aver sentita smentir quella di «minacce» o «lusinghe» altrui e toccando con finezza delle «impressioni illusorie» e de' pentimenti che seguono col mutar dell'animo, s'è avvicinato di tanto alla verità dolorosa, risponde con forza, anzi «precipitosamente», tanto la sgomenta quell'indagine così terribilmente appropriata al suo caso: «No, no, la cagione è quella che le ho detto», il dramma è finito. Tacciono le note del dialogo, ed è ripresa più ampia e sottile l'analisi che avvia con fredda calma all'epilogo. Stupenda mossa d'artista, che seconda con (1) Pì'om. sp., cap. X, p. 153. IL ROMANZO IN FORMAZIONE 33^ evidenza fantastica la vicenda de' sentimenti e de' modi dei due collocutori. La «diffidenza» d'obbligo dell'esaminatore La fatto sua prova: la povera vinta ha vinto, alla sua volta, colui che «poteva bene impedire che si facesse monaca»; ha vinto, pel «ribrezzo» di «render consapevole della sua debolezza quel grave e dabben prete >, perchè, «partito che fosse», finiva «la sua protezione» ed ella sarebbe rimasta «sola col principe». Quale l'epilogo? È tutto in queste parole, che rivelano con quale austera e pietosa ispirazione il poeta ricostruisse e rifoggiasse codesto breve episodio: «L'esaminatore fu prima stanco d'interrogare che la sventurata di mentire» (*). Quando il Manzoni concepì e stese la prima volta questa scena dell'esame, era più vivo ed operoso in lui il psicologo che il poeta. Lo si deduce dal tenue sviluppo della parte dialogica, dalla poca cura ed evidenza nell'ordine delle interrogazioni, messe in bocca all'esaminatore, e massimamente dall'analisi minuta, proprio come nella scena del monastero, dello stato interno di Gertrude, la quale è rappresentata come combattuta da opposte apprensioni, incapace della risoluzione più schietta e più propria, trascinata da un'abitudine, ormai acquisita, a mentire a se stessa. Non negherò che già la minuta recasse in quelle pagine il segno dell'arte grande del Manzoni per vivo risalto dato al carattere di Gertrude, per intuizione lucida e precisa di quel groviglio di fantasiosa ingenuità e di complicata finzione, di debolezza nativa e d'orgoglio esasperato, che è l'anima della sventurata, e per vigoroso colorito di stile; preferirei, anzi, di leggere nella redazione definitiva, ripulito nella dizione e attenuato un po' nel colorito de' sentimenti, questo splendido tratto: «Avvezza com'era a trarsi dalle circostanze diffìcili con ripieghi che la ponevano in circostanze più difficili ancora, a consumare per dir così il tempo avvenire per vivere in quel momento, ella cedette all'abitudine e alla difficoltà; mentì contro sé stessa e disse: «È la mia vocazione; fin dai primi anni io- mi son sentita inclinata a servir Dio nel chiostro, lontano dai pericoli e dalle cure del mondo». Queste parole furono porte con l'apparenza della più ferma persuasione; e l'indugio, ch'ella aveva posto al rispondere, parve al Signor... un segno, una prova di riflessione posata. E in quel momento furono contenti ambedue (*): (1) IMd., pp. 153-4. (2) Sp. prom., pp. 225-6. Ecco un'espressione alquanto recisa, che, se conviene alla giuliva semplicità del buon uomo, esagera quel certo sollievo che Gertrude ritrae dalla fatta dichiarazione. Era tuttavia questa una sfumatura di sentimento troppo con egli di vedere una così buona disposizione, ella di essere uscita d' impaccio come che fosse» (^). Se non che l'analisi soverchiava, nel primo disegno, la rappresentazione; il dialogo, che col suo rapido moto incalza di tanto la scena nella forma attuale del romanzo, era ora turbato dagl' intermezzi analitici, ora avvolto ne' riferimenti indiretti della materia del colloquio; né aveva un suo ritmo crescente, che lo rendesse, come l'ammiriamo nella nuova redazione, veramente drammatico: la preconcetta semplicità, confinante con la dabbenaggine dell'interrogatore -- che manifestamente era un errore psicologico nella concezione della figura -- non poteva agli effetti dell'arte se non sminuire il significato ideale di tale scena, che lumeggia l'ultima e più funesta sconfitta di un'anima che viveva di finzioni e di terrori; non poteva di rifiesso se non toglier vigore passionale e drammatico al contrasto tra l'interrogante e r interrogata e perturbarne, con la comicità -- per quanto discreta -- che spunta qua e là dagli atteggiamenti e dalle parole di lui, l'intimo carattere tragico. Come appunto codesta concezione alquanto comica del secondo personaggio aveva impacciato il poeta impedendogli di significare, -- ne' composti e semplici modi, conformi alla sua tempra d'artista -- il pathos della scena immaginata, così è bastato avere rinnovato il carattere del buon prete nella forma che abbiamo visto, perchè lo spirito, lo svolgimento, il tono di essa acquistassero profondità, vigoria, e chiarezza. Il carattere stesso di Gertrude dal più austero e alto modo di concepire la situazione generale, riceve un'impronta di più nobile dolore e di più pura verità poetica. La quale poco era mancato non si smarrisse nella sottile trama dell'analisi là dove il Manzoni con evidente inverosimiglianza aveva rappresentata la giovine afflitta, umiliata, confusa e «come colpita» dalla prima domanda sulla vocazione, e dove con non minore incoerenza le faceva pensare che < violenze, minacce... non ne avevano usate» i parenti e dove, infine le metteva in bocca quelle parole intese ad occultare il vero con soverchia ostentazione: «i miei parenti desiderano certo che io sia monaca; ma mi hanno lasciata libera». Le risposte che tra felici rilievi, con che le accompagna il poeta, dello sforzo durato a nascondere l'interno travaglio, dà Gertrude forme all'indole strana della giovinetta perchè il Manzoni la trascurasse e perciò, nel rimaneggiamento dell'analisi, l'ha più delicatamente espressa in quella frase: «ne trovò una sola [risposta] che potesse liberarla presto e sicuramente da quel supplizio» (Prom. sp., loc. cit.). (1) Sp. prom., pp. 225-6. nel romanzo con quel loro tono laconico, diritto, rigido scolpiscono mirabilmente l'ostinata determinazione di mentire sino alla fine, dopo che «r infelice rifuggi spaventata > dali' idea di rivelare tutto il vero. In quel momento l'orrore di dovere umiliare il suo orgoglio, confessar la sua vergogna non meno che la paura del padre le imprimevano nel volto la maschera tragica della simulazione fredda e imperturbabile. Il Manzoni, semplificando l'analisi e rinvigorendo il dramma rappresentativo, ha espresso tutta la verità poetica della sua originale creazione. L'aver presentata Gertrude, cosi nell' attesa come durante l'esame, dominata dalla paura di un grande pericolo da affrontare, tanto sollecita d'evitare spiegazioni e rivelazioni, quanto contenta d'uscire, come che fosse, da quella difficoltà, aveva fatto immaginare al Manzoni, nella prima stesura, che ella stessa dopo il colloquio, «ancor più fortemente compresa dall' idea del pericolo che aveva passato, che dal pensiero dell'impegno che aveva preso», corresse «tutta commossa» a raccontare al padre «frettolosamente l'esito della conferenza >; mentre nel romanzo è il padre -- come si sa -- che va «quasi di corsa» da Gertrude, tutto giubilante e intenerito dopo aver sentito il vicario compiacersi delle < buone disposizioni > da lei dimostrate (*). È un mutamento che, se conta poco o nulla per l'intreccio e la disposizione delle parti in azioni, ha valore rispetto ai caratteri e alla situazione psicologica loro; ed è mutamento dovuto alla concezione più pura^ più austera e alla figurazione, più pensosamente composta e sobria che abbiamo rilevato, del carattere di Gertrude. È più verosimile l'atto spontaneo del principe, poiché risponde a quello stato di «esasperazione molto penosa» che bene ha fatto il Manzoni a lumeggiare con nuova efficacia nel romanzo; ed è più consentaneo alla natura e all'ordine de' sentimenti e al particolare stato di Gertrude quel!' atteggiamento che il poeta non descrive, ma lascia intravedere, di raccoglimento silenzioso, d'immobilità d'atti e di spirito, di occulta prostrazione pel grande sforzo compiuto, mentre il padre la ricolma «di lodi, di carezze e di promesse >. VI. Che il Manzoni abbia mirato ad elevare poeticamente la figura di Gertrude, a conferire un tòno più nobile e serio al racconto de' suoi casi dolorosi, a colorire la stessa rappresentazione d' ambiente con rinnovata libertà artistica è provato, oltre che dai raf (1) Provfi. sp., cap. X, p. 155. 336 PARTE TERZA fronti fatti fin qui, da altri mutamenti di minor conto, che tuttavia ritengo di non dover trascurare; come quelli che 'attestano lo sforzo durato dal poeta per vincere alcuno tendenze del suo ingegno e della sua cultura, quali la soverchia inclinazione all' analisi, il psicologismo sottile e talora ardito, il realismo comico, troppo crudo o volgare, lo storicismo e il moralismo censorio e satirico che già ho largamente dimostrato come prevalessero nella prima composizione del romanzo. Tocchi più abbondanti e arditi che non siano nel romanzo per ritrar la bellezza fisica della giovinetta ('), qualche pennellata più colorita data al carattere vivace, superbo, incline alla vita mondana (2), un tratto di precocità raziocinativa eh' era troppo per una fanciulletta di sei anni (^), un' analisi vivace e sottile, condita di sapide osservazioni, che l'arguto psicologo faceva delle competizioni di Gertrude con le sue compagne d'educandato {*), un'accesa dipintura della passionalità morbosa di lei (^) che segna spiccatamente i caratteri essenziali di quella che sarà l'inquieta e fosca anima della signora, quale vedremo rappresentata nelle forti scene della colpa e del delitto, tutto ciò è stato o soppresso o ridotto con più sobrietà o, più spesso, raddolcito nelle tinte e ricomposto con un' ispirazione di più gentile pietà e con una più pacata e serena osservazione di quell'anima giovanile. Erano pagine che, uscendo così dal primo getto lucide e vigorose, attestavano le fresche attitudini dello scrittore all'indagine psicologica e che sostanzialmente sono rimaste nel romanzo, ma risentivano di quella spiccata tendenza all' analisi sovrabbondante che il Manzoni adoprerà ogni sforzo a correggere e a contenere, rivelavano, anzi, la tendenza già osservata più addietro, al psicologismo sottile e talora ardito, che medesimamente l'autore verrà, nella riforma (1) Sp. prom., p. 178. Ne' Prom. sp. non è rimasto che un cenno dell' «aspetto prosperoso della fanciullina» (cap. IX, p. 132). (2) Sp. proni., loc. cit. (3) Era !'«idea... che per esser monaca era mestieri del suo assenso volontario» (Sp. proni., p. 179). (4) Sp. prom-, pp. 180, 181. Più limpida, più svelta e ordinata ne' Protn. sp., cap. IX, pp. 134-5. È da notare che, in luogo de' pochi cenni squallidi e stenti della minuta, troviamo ne' Prom. sp., un accurato e vivo studio dell'esultanza delle monache, nel ricevere l'educanda, e delle arti che metton subito in opera per secondare il segreto disegno del principe, (cap. IX, pp. 133-4). (5) Val la pena di riferirla per intero: «Questa sventurata non aveva un animo ostile, non si dilettava naturalmente nell'odio; ma le sue passioni erano tanto violente e tanto delicate, ella le idolatrava tanto che tutto ciò che poteva essere ad esse di ostacolo, offenderle, contristarle, diveniva per lei oggetto di avversione, e sarebbe stato vittima del suo furore, quand'ella avesse potuto impunemente sfogarlo» (pp. 181-2). dell'opera, attenuando mediante quel processo d'idealizzazione poetica a cui, come più volte ebbi ad osservare, sottopose tutta la materia del romanzo. Ma anche più osservabile, per questo riguardo, era la descrizione delle immagini mondane, che pullulavano nella mente dell' appassionata giovinetta. Erano esse analizzate e figurate in qualche scena, che prendeva concretezza nella fantasia di Gertrude. * L'orgoglio di giovane vagheggiata -- aveva scritto il Manzoni -- adorata, supplicata con umili sospiri, di sposa ricca e fastosa, di padrona che comanda a damigelle ed a paggi, ben vestiti, era ben più dolce che l'orgoglio di madre badessa e in quello tutta s'immerse la fantasia orgogliosa di Geltrudina. Cominciò dunque a far castelli in aria, a figurarsi un giovane ai piedi^ a levarsi spaventata, e fuggire dicendo: «come ha ella ardito di venir qui ?» Ma quella fuga e queir asprezza non erano a fine di scacciarlo daddovero: il giovane non perdeva coraggio; nascevano nuovi casi, e tutto finiva col matrimonio, come la più parte delle commedie. Eichiamava alla memoria quel poco che aveva veduto dei passeggi della città e vi girava in carrozza innanzi indietro; ripensava la casa domestica, le anticamere, le livree, il comando e rifaceva tutto per suo uso, ma in modo più splendido. Questi pensieri l'assediavano nel dormitorio, nel refettorio, nell'orto, nel coro; ella confrontava col brillante di essi lo squallido che aveva sott' occhi e [si confermava sempre più nel proposito di non dire quel «si» che si aspettava da lei» (*). Ora chi raffronti questo passo col testo definitivo, in cui parte di esso è caduto e parte è stato notevolmente trasformato, s' accorge che il Manzoni ha corretto la plastica evidenza delle immaginazioni di Gertrude, ha scancellato quella macchietta tra patetica e comica dell' innamorato rifondendo e ricolorendo figure, sentimenti e stile con delicata spiritualità, cosi che le fanciullesche visioni dell' educanda vi appaiono in un aspetto fantasticamente vago e velatamente castigato. Piccolo, ma notevole esempio del lavorio fatto dall'autore per idealizzare il suo mondo tra storico e romanzesco, per infondervi una più pura vita di poesia, con la riduzione o, addirittura, l'eliminazione di tutto ciò che eravi entrato di troppo pittorescamente realistico, di troppo grossamente caratteristico e circoscritto nella rappresentazione della vita e de' costumi del secolo. (1) Sp. proni., pp. 1S4-5. Su quel giovane fantastico ritornava il Manzoni a p. 190, aggiungendo che «bellezza, grazia, ricchezza, nobiltà, eloquenza, sincerità, costanza, e sovra tutto appassionatezza, nulla gli mancava». «Se non che -- commentava con amabile ironia l'autore -- aveva il difetto di non esistere». In altro luogo, una piccola scena, disegnata certamente per codesta tendenza al realismo comico e al caratteristico della storia, presentava nella minuta, assieme con la madre e il fratello di Gertrude chiamati dal principe dopo la scena del perdono, il segretario di casa. Già vi ho accennato, osservando che ben altro carattere e significato acquista la scena com' è stata rinnovata nel romanzo: e riconfermo che la soppressione di quella macchietta è dovuta al motivo di purificare il quadro d'elementi burleschi spiccatamente realistici, col fine di trarre dall' uso della supplica al vicario la materia per una situazione poetica che giovasse, piuttosto che al colorito storico de' tempi, all'analisi di passioni e di sentimnti umani. È la comprensione limpida e profonda della realtà psicologica che vince lo storicismo ingenito nell'intellettualità manzoniana: è r umanità che s' inalza sopra il costume e vi si specchia co' suoi eterni riflessi. Parimente il Manzoni in quella descrizione della vita d'educandato, che per ogni parte ha resa più agile e lucida e infusa di più pensosa poesia col sopprimere o condensare, avvivare, ingentilire dovunque vi trovasse qualche cosa di trito, di verboso, di fiacco, di volgare, d' eterogeneo alla rappresentazione artistica, ci presenta Gertrude turbata nelle sue «brillanti e faticose» immaginazioni mondane non da un vero e caldo e gagliardo sentimento di fede -- di che ella, educata all'orgoglio, era incapace -- ma da «una larva, come le altre», tale, però, che quando grandeggiava nella fantasia, «r infelice, sopraffatta dai terrori confusi e compresa da una confusa idea di doveri, s'immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la resistenza all' insinuazioni de' suoi maggiori, nella scelta dello stato, fossero una colpa; e prometteva in cuor suo d'espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro > (*). È questa una situazione complicata e delicata ch'era sfuggita nella fretta della prima stesura allo sguardo penetrante del poeta e che egli accortamente adopera per predisporre, diversamente dal modo che abbiamo veduto, l'invio della supplica al vicario delle monache; poiché -- seguita a narrare l'autore -- «quelle monache che avevan preso il tristo incarico di far che Gertrude s'obbligasse per sempre, con la minor possìbile cognizione di ciò che faceva, colsero» appunto «uno de' momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e sottoscrivere una tal supplica». Ora, può sembrare più felice l'idea d'avere scelto il momento che Gertrude, abbattuta, pentita, bisognosa di perdono, (1) Prom. sp., cap. IX, p. 136. s'abbandonava alla volontà del padre per farle compiere un atto di tanta importanza; e certamente, rilavorata con più acume ed arte, quella scena della prima stesura sarebbe potuta rimanere a rappresentazion viva ed efficace de' caratteri e della più grave situazione, in cui era precipitata Gertrude implorando il perdono. Ma -- contrariamente alla minuta, dove il Manzoni non aveva curato «di dare determinazioni precise di tempo > (*) -- ei dice nel romanzo che 1'* esame non poteva aver luogo, se non un anno dopo ch'ella avesse esposto a quel vicario il suo desiderio, con una supplica in iscritto» (*); né poteva essere «ammessa a quell'esame della vocazione se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori del monastero». Di conseguenza, quando Gertrude fu per uscirne era logico che fosse scorso un anno o giù di li dall' invio della supplica (^). Precisati e circoscritti così, per l'esattezza storica, i termini degli avvenimenti, non poteva l'autore far cadere la scena della compilazione e della sottoscrizione di quella tal supplica nel mese di dimora in famiglia antecedente all'esame, e gli fu giocoforza collocarla nello stesso ambiente monastico un anno prima della fine dell'educandato. Curiosissimo caso codesto, in cui vediamo che la stessa osservanza del costume storico (dal quale, per contro, il Manzoni, inteso a rifare il romanzo, venne allontanandosi tante volte con più libera fantasia, nella ricomposizione poetica de' personaggi e de' fatti) costringe il poeta ad operare un sostanziale mutamento nella creazione artistica. Con la logica della storia egli ha, però, conciliato la logica della poesia, poiché la poveretta Gertrude si lascia indurre a sottoscrivere quella malaugurata supplica in uno stato d' animo non molto distinto, come abbiamo veduto, da quello figurato nella minuta e risalta al vivo l'arte coperta e insinuante delle monache, «congiurate a tirar la poverina nel laccio >: anzi quei turbamenti morali, in cui la repugnanza al chiostro era sopraffatta da un curioso sentimento di dovere e d'espiazione, quell'intrigo di suore, spianti i momenti di tenerezza e di compunzione dell'adolescente per sacrificarla, circonfondono la figura di Gertrude di una tal luce benigna e pietosa, che, armonizzando coi vivaci riflessi di quell'impetuosità che la trasportava talora a cercar «tutta buona» le compagne, «ad implorar benevolenza, consigli, coraggio >, ne rabbellisce l'immagine inquieta e dolorosa. (1) Sp. prom., pp. 186, 188. (2) Prom. sp., loc. cit. (3) Ibid., pp. 136-7. Il psico'ogo e il moralista -- già l'abbiamo più volte osservato -- col suo abituale procedere amabilmente scherzoso e ironico s'insinuava troppo spesso nel racconto della triste storia, compiacendosi di digressioni riflessive, come se la materia narrata fosse buona occasione ai ragionamenti dell'autore. Sdoppiamento tra la fantasia e l'intelletto, tra la riflessione storica ed etica e la rappresentazione poetica, del quale son rimaste tracce nella redazione definitiva del romanzo, ma che nella prima, per manco di vigore fantastico, era troppo accentuato e grossolano. Erano osservazioni suggerite dalla conoscenza storica e dal giudizio morale de' tempi, come quella sulla coltura universale del secolo e sulla poverissima e storta istruzione che si riceveva ne' monasteri (*); altre, suggerite dall'acuto studio dell'anima giovanile e riflettenti l'inclinazione alla derisione dei superiori (^), la facilità del dissimulare (^), dell'abbandonarsi alle fantasticherie (^); altre argute e brillanti sulla stima che fanno gli uomini de' piaceri e delle ricchezze (^), e sull' invenzione delle formalità e gli effetti contrari che ne seguono (^); altre, infine, serie e gravi, sull'efficacia morale della religione e su i pregiudizi che la danneggiano C), sulle passioni (*), senza contare quelle che ho riferite o indicate nelle analisi precedenti, e alcune che, isveltite di pensiero e di stile, sono rimaste nel romanzo. * * * VII. Con quaie ardore paziente il Manzoni cercasse di conseguire con la riduzione dell'analisi e la condensazione dello stile una maggior coerenza poetica e una più pura rappresentazione artistica del suo personaggio si vede, altresì, dal racconto dell' inquieta vigilia, che precedette la solenne professione. (1) Sp. prom., pp. 179, 182, 183. (2) Acutamente, a proposito delle «superiore» del monastero, diceva che sono «sorta di persone per le quali la puerizia prova così facilmente l'ammirazione come lo scherno» (p. 180). (3) «Dissimulazione profonda che è data a quella età, e che forse non ritorna più in nessuna altra epoca della vita, e che appena appena -- aggiungeva con sorridente ironia -- potrà aver riconquistata un diplomatico di ottant'anni» (p. 186). (4) «Nei sogni caldi ed ardili della pubertà v'è una parte di stranio, di fantastico, d'individuale che non si confida, né s'indovina» (ivi). (5) Sp. proni., pp. 180-1. (6) Jbid., pp. 186-8. (7) Ibid., pp. 183, 184. (8) Jbid., p. 184. S'attardava egli^ nella minuta, a descrivere Gertrude tutta occup;ita nel persuader sé stessa d' esser «contenta della sua scelta >, nel raccogliere il pensiero sulle «immaginazioni» gradevoli e sulle «consolazioni celesti o mondane» che s'aspettava dalla vita del chiostro; tutta sollecita, nel tempo stesso, ad affrettar la vestizione «per esser chiusa una volta, per precludersi ogni strada al tornare addietro, per non sentirsi più nascere in cuore queir intollerabile: -- potrei forse ancora ?»; tutta intenta, durante il tempo del noviziato, a mostrare una «risoluzione sempre più spontanea e ferma, mentre «divorava nel suo cuore tutto ciò che avrebbe potuto far credere il contrario» (*), Ma qui il Manzoni aveva sforzata la situazione, esagerando, nel descrivere il contegno di Gertrude, un'impazienza, che in realtà era angoscioso sgomento, di entrare nel chiostro, così da darle tutta l'apparenza d'un desiderio sicuro e spontaneo. E, in fondo, il difetto di tutta la prima stesura del romanzo così neir analisi psicologica come nelle situazioni drammatiche, di scolpire cioè, le anime in modo troppo spiccato e tagliente, di costruire le scene e rappresentarne lo svolgimento con certa vibratezza di movimento e colore eccitante di sentimento e di fantasia, che confermano -- e ne porterò altre prove anche più convincenti -- come agi' influssi del romanticismo patetico e pittoresco non abbia potuto sottrarsi il Manzoni nella prima composizione del suo capolavoro. Come egli se ne liberasse -- non dico nell' ispirazione che rimase, per talune figure e situazioni, prettamente romantica -- ma neir artistica rappresentazione, con lo sforzo maraviglioso di riplasmare il suo mondo poetico nella sobria forma d' una classicità nitida, armoniosa e ricca d' umanità, risalta in modo perspicuo dal rifacimento del tratto, testé riferito; nel quale il poeta^ non contento di scorciare e limare, ha rivissuto addirittura quell' estrema situazione della sventurata Gertrude^ l'ha avvolta nell' aura di un più accorato mistero, ne ha risentita e più potentemente espressa quella nota dominante in tutte le sue dolorose vicende, che è l'insoddisfatta perplessità, sgomenta d'un'anima data in balia dell'altrui volontà. Ed ecco il poeta, con altra gagliardia d' ispirazione e con più contenuto, ma anche più profondo vigore fantastico ritrova quei nuovi tocchi, ripercotenti la desolata tristezza d' un' ardente natura ormai sopraffatta e alterata: «Lei medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese allora d' entrare più presto che fosse possibite, nel monastero -- Dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e (1) Ibid., p. 227. 342 - PARTE TERZA di ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto: lo ripetè, e fu monaca per sempre» (^). «Lo ripetè e fu monaca per sempre»: sintesi concettuale e fantastica, come sa far l'arte grande, che ne' rintocchi secchi del ritmo, nella funerea solennità di quel «sempre», che ti echeggia senza posa nell'animo, risuona come il calar pesante d'un coperchio sepolcrale, destando la commozion muta e pensosa dell'irreparabile. E una di quelle rare frasi dense, dirò così, di passione e di storia, come la dantesca «quel giorno più non vi leggemmo avante» e r altra, non meno insigne dello stesso Manzoni: «La sventurata rispose», che, lampeggiando al colmo d'una situazione concitata, ti lasciano intraveder gli abissi d' un' anima e la paurosa inesorabilità del suo destino. Gli è che il Manzoni attraverso i rifacimenti è pervenuto all' ultima forma del romanzo risalendo con nuova potenza fantastica da uno stato di soggettività commossa, da una concezione ancor dibattentesi tra il lirismo e il moralismo (due forme inferiori deirarte, anzi due forme pseudoartistiche che spesso nel romanticismo così de' capiscuola come degli adepti si sforzano d' andare insieme) ad una visione resa più serena, più profonda e perspicua mercè quell' oggettivismo artistico nella cui disciplina la poesia si fa contemplazione^ cioè da psicologica, umana, da romantica, classica. Confrontate, infatti, quel finale stupendo nella sua tranquillità pensosa, or ora osservato, con questo che si leggeva nella prima stesura: «Il sacrificio fu consumato, il dono fu posto sull'altare, ma era di frutti della terra; la mano che ve lo aveva posto non era monda; e lo sguardo del cielo non discese sovr'esso»; sforza lirico, che tutt'al più s'attaglia all'apologeta delle Osservazioni sulla morale cattolica, non al poeta de' Promessi sposi (*). Che codesta tendenza a correggere il facile romanticismo della prima stesura prevalesse con crescente vigore nell'elaborazione dell'episodio monzasco, appare evidente dai mutamenti e miglioramenti non solo di lingua e di tecnica formale, ma di disegno e di sviluppo (1) Prom. sp., cap. X, p. 156. (2) Lo stesso visconti in margine annotò: «troppo ascetismo» (Sp. prom-, p. 227, n. 12). psicologico e morale operato dal poeta nello studio della vita monastica di Gertrude. La minuta, dopo le osservazioni sulla virtù dì rassegnazione, di ravvedimento e di tranquilla contentezza che ispira la religione cristiana sinceramente invocata e profondamente sentita (anche qui il Manzoni nel romanzo ha riordinato e ripulito, or condensato e ora svolto, congiungendo ad una maggiore semplicità d'eloquio una più viva agilità di pensiero), accennava a donne che, chiuse contro lor voglia nel chiostro, vi fecero vita santa e contenta, a donne anche de' tempi di Gertrude; e faceva, in modo spiccio, allusione all' «esempio insigne» che ne oflFri la stessa Gertrude (la fonte storica, qui sottintesa, è sempre il buon Ripamonti); «ma -- soggiungeva -- più tardi e dopo aver [commessi] ben altri errori, anzi delitti, dopo sofferta ben altra forza che quella di cui abbiamo parlato» (*). Notizia storica, inopportunamente anticipata ed eterogeneamente mischiata alla visione poetica di quella vita dispettosa e trista, della quale, dopo il solenne preludio intonato con lucida armonia di sentimenti e di stile in lode della fede religiosa rasserenatrice delle anime travagliate, ii poeta descrive le prime ombre crepuscolari. Quell' accenno alla conversione della disgraziata disparve dal romanzo non meno che una consimile notizia, ma assai più particolareggiata e suffragata da citazioni storiche, che troviamo dopo il racconto degli errori e dei delitti di Gertrude (*); sulla quale ultima dovrò tornare fra poco per una questione più grave. Cosicché della vita d' espiazione di lei non è restato nel romanzo che un cenno verso la fine e lasciato cadere indirettamente ne' discorsi della mercantessa a Lucia. Da ciò, intanto, vien fatto d'osservare che il Manzoni nella prima stesura, tutto occupato nell' applicar fedelmente la sua teoria del romanzo storico^ oscillava tra la storia e il romanzo, tra le preoccupazioni etiche e le esigenze dell'arte, senza poter raggiungere per impulso di fantasia idealizzatrice l'unità poetica della rappresentazione. Soppresso quel passo, il Manzoni, per contro, sviluppò l'analisi con tale profondità di sguardo e scolpitezza di tratti che la dogliosa figura della giovine sacrificata s'aderge a' nostri occhi, per la prima volta, in tutta la pienezza della sua tragica umanità. La prima ste sura conteneva, si, l'idea primigenia del meraviglioso ritratto in quel luogo dove si diceva che la bellezza era per Gertrude «un (1) Sp. proìn., p. 228. (2) Ibid., pp. 324-6. rodimento continuo, un'occasione di regressi affannosi nel passato e di sguardi disperati nell'avvenire»; ma non era che uno scorcio, senza gradazioni e contrasti di luce, senza vigor di rilievi: un ihotivo patetico coordinato a quei sentimenti di sterile vanità e d'insoddisfatto orgoglio che, come vedremo, ella derivava dalla sua stessa bellezza. Il Manzoni riflette con tutta la forza del suo genio su queste che sono fra le più tormentate pagine del romanzo; l'ispirazione gli si rinnova nell' anima dilatandosi e nobilitandosi; il dominante motivo della bellezza non sparisce, ma si tempera nell'analisi con altri, secondo appunto la discreta e perciò più profonda e pietosa ispirazione del poeta; l'impressionismo psicologico cede all'oggettività drammatica; i particolari, l'aneddotico, il realistico si dileguano al soffio vigoroso di una poesia che dalla natura s' inalza allo spirito; taluni sparsi frammenti, caduti fuor di luogo nel prolisso racconto, si radunano, come a portar materia ed alimento per la nuova fuzione; ed ecco uscire da questo paziente e ardente lavorio di ricomposizione e di sviluppo, in vivo contrasto con la precedente celebrazione della religione cristiana, quella densa lucida e gagliarda dipintura, in cui la coscienza etica e la potenza fantastica del poeta cospirano al medesimo fine di esprimere tutto il ^ai/io* dell'infelice oppressa dagli uomini e incapace di fortezza, di rassegnazione, di carità: «L'infelice si dibatteva... sotto il giogo e così ne sentiva più forte il peso e le scosse. Un rammarico incessante della libertà perduta, l'abborimento dello stato presente, un vagar faticoso dietro a desideri che non sarebbero mai soddisfatti, tali erano le principali occupazioni dell'animo suo. Rimasticava quell'amaro passato, ricomponeva nella memoria tutte le circostanze per le quali si trovava 11; e disfaceva mille volte inutilmente col pensiero ciò che aveva fatto con l'opera; accusava sé di dappocaggine, altri di tirannia e di perfidia; e si rodeva. Idolatrava e insieme piangeva la sua bellezza, deplorava una gioventù destinata a struggersi in un lento martirio, e invidiava, in certi momenti, qualunque donna, in qualunque condizione, con qualunque coscienza, potesse liberamente godei'si nel mondo que' doni» (*). Questo ritratto delF anima, in perpetuo travaglio, campeggia nel quadro, disegnato con agilità nuova di tocchi, della vita di Gertrude nel chiostro, e da esso la luce irradia tutt' intorno, o tratteggi il poeta la crucciosa avversione della disgraziata per le monache «che (1) Proni, sp., cap. X, pp. 156-7. avevano tenuto di mano a tirarla là dentro» (*), o il dispetto e la rabbia che le suscita l'«aria di pietà e di contentezza» delle altre, innocenti (^), o metta in contrasto con le «consolazioni», vanamente desiate, della religione, quelle mondane degli ossequi che riceveva e della protezione che, per esser figlia d'un potente, si scapricciava ad ostentare; dalle quali, però, ritraeva così poco contento (3). .>r- . C.1''-'-- Ma perchè il senso tragico di quella rappresentazione dominasse, la mente del lettore, come aveva ispirato con nuova forza la coscienza del poeta, bisognava toglier via tutto ciò che nella prima stesura rimpiccioliva la figura morale di Gertrude e distraeva dalla jS visione totale ed organica del suo concitato e fosco dolore. Ecco perchè non troviamo più nel romanzo quella lunga pagina in cui il Manzoni ci presentava Gertrude tutta occupata e orgogliosa della sua bellezza, irridente agli «occhi sciarpellati della madre badessa» e al «mento incartocciato della madre celleraria>, o intesa ad «adornarsi come poteva» e a «ridurre l'abbigliamento monastico alle fogge secolaresche» o ad «accordarlo all'aria del suo volto >; né pili vi troviamo il particolare dello specchio, che Gertrude ingegnosamente s'era procurato (''). Tratti di volgaruccia fatuità e vanità che, per quanto dica il Manzoni che da quelle mondane compiacenze Gertrude ritraeva maggiore inquietitudine, perturbavano con intemperante realismo la poetica rappresentazione del carattere. Eppure qualcuno potrebbe osservare che la logica della convenienza psicologica avrebbe potuto far riflettere al Manzoni che il figurare Gertrude orgogliosa della sua bellezza e occupata in certe cure mondane della sua persona non solo s'accordava all'analisi del suo temperamento leggero, stravagante, appassionato, ma faceva (1) Ivi. Più prolissamente negli Sp. prom., (p. 229) e con un'intonazione scherzosa, ch'era fuori posto, ma che comprova l'eccessiva disposizione burlesca e umoristica del Manzoni nello stendere la prima volta il romanzo, cosi che non ne andarono immuni neppure le concezioni e le situazioni gravi. Diceva, per es., che Gertrude «si sfogava avventando beccate agli uccelli che avevano cantato per farla venire nella loro gabbia». (2) Queste compaiono per la prima volta ne' rifacimenti; ed è evocazione opportuna che giova allo sviluppo psicologico del carattere di Gertrude e aggiunge rilievo al contrasto tra quello che la religione avrebbe potuto su lei e il suo animo restìo ai conforti della fede. (3) Prom. sp., loc. cit. (4) Sp. proìn., pp. 229-30. Narrava il Manzoni che, «essendo gli specchi proibiti nei chiostri come i lumi nelle polveriere», Gertrude «aveva fatto porre dietro ad un quadretto, ch'ella teneva appeso nella sua camera, una lastra di latta levigatissima, e a quella si consultava segretamente». quasi presentire la fatalità del peccato e intender la disposizione -- ove una diabolica volontà l'avesse afferrata -- a più gravi traviamenti. Forse il Manzoni pensò anche a questo, ma tuttavia preferì di sopprimere quella pagina, poiché non meno della legge dell'armonia e della convenienza, non meno dell'esigenza dell'abbreviare, nel rifacimento dell'episodio monzasco ha influito sul suo vigile spirito un motivo, dirò così, di decoro morale, che nella sua mente faceva tutt'uno con la convenienza poetica; onde l'elevazione etica del personaggio (e non solo di Gertrude, ma dì tutti), dovuta alla disposizione più serena e pietosa con cui la coscienza del poeta rielaborò il suo mondo storico-romanzesco, si tradusse in forme d' arte più temperate e pensose. Vili. Questo criterio d' un maggior decoro morale, riflettentesi nella classica compostezza della nuova forma che assume il romanzo, ha modificato anche più efficacemente e profondamente la descrizione del colpevole amore di Gertrude e dei delitti cui la sospinse la folle passione. Trattando ora questo argomento, entreremo nel vivo di una anche troppo rumorosa questione letteraria, cominciata fin dalla prima apparizione de' Brani inediti e non ancora definitivamente risoluta. Descriveva il Manzoni nella prima stesura in modo particolareggiato, sebbene alquanto confuso, il quartiere dell'educande e di Gertrude, addetta alla loro sorveglianza, e la contigua «casa privata e signorile», da un abbaino della quale, sopra i tetti, Egidio, guardando nel < cortiletto del chiostro», veniva spesso ad occhieggiar le giovanette allieve. Venendo a parlare di quel «giovane scellerato», s'intratteneva a ritrarre lo spirito facinoroso e sanguinario del secolo, l'impunità dilagante de' delitti, il mal presunto senso d'onore che s'annetteva alle vendette private, la perversa indulgenza agli omicidi per quel «sentimento»- divenuto ormai «universale, che una certa misura di animosità, di crudeltà e dì delitto fosse una condizione necessaria ed inevitabile della società». Accortosi di essersi avviato «in una nuova digressione», s'affrettava poi il Manzoni a ritornare alla storia de' suoi personaggi; e, nella revisione del romanzo, avvedutosi d'aver fatto nel principio dell'opera una consimile descrizione della società secentesca (*), die' un gran (1) Cfr. Sp. prora., pp. 22-5; Prom. sp., cap. I, pp. 13-15. Del quadro nuovo, che leggiamo nel luogo dell'episodio di Gertrude, non conservò alcuna linea nel romanzo, frego a codesta dissertazioncella storica, che, oltre ad essere digressiva, era addirittura superflua. Tornato al racconto, schizzava un magro ritratto del padre di Egidio e ne sbozzava un altro, con qualche più vivo rilievo, di costui (ci servirà piti innanzi per ricostruire la figura psicologica del seduttore di Gertrude) e lo metteva quindi in azione di sfacciato curioso, dedito agli amoreggiamenti, che, dopo essere riuscito a civettare con una delle più adulte delle educande, quando costei lasciò il monastero, «allettato più che atterrito dall'empietà» del nuovo disegno, «si diede ad agguatare» la stessa Gertrude (*). Confrontando a questo punto l'ultimo testo definitivo, vi troviamo ridotte ai puri cenni necessari la descrizione de' luoghi e la figurazione del nuovo personaggio, segnata a tocchi svelti e concisi l'improntitudine con cui il giovane scellerato osò un giorno rivolgere il discorso a Gertrude, e, quindi, risonante come una battuta potente e improvvisa la grande frase: «La sventurata rispose» (-). La minuta narrava con tutt' altro spirito e stile la successione de' fatti e il cominciamento della tresca. «Un giorno» -- vi si leggeva -- la Signora passeggiava essa sola innanzi e indietro nel cortiletto del chiostro», senza alcun sospetto, «come il pettirosso sbadato saltella di ramo in ramo» e non sa neppure immaginare i «panioni» e il «cacciatore» nascosti, quand'ecco la colpì «come un romore di voce non articolata >; «macchinalmente» levò la faccia e sogguardò qua e là; «una chiamata misteriosa e cauta > la fece rivolgere a un punto: «guardò più fissamente» e «i cenni che vide non le lasciarono dubbio sull'intenzione di quella chiamata». Fermiamoci un po' e immaginiamo che, a questo punto, seguisse la nota frase: «La sventurata rispose». Ogni analisi ulteriore dell' agitazion di Gertrude sarebbe, non che superflua, contraddittoria; una situazione precisa ci si prospetterebbe dinanzi, proprio quella della corrispondenza immediata, a cui s' abbandona, come sospinta da una forza irresistibile, l'anima inquieta ed esacerbata di Gertrude nemmeno trasferendola nella dipintura storica delle prime pagine, dove anzi condensò la materia trattata nel luogo corrispondente del primo testo. Questo punto, per quanto secondario, andava rilevato, avendo il Manzoni operato quel taglio, non perchè intendesse rifondere alcun che della nuova analisi storica nella descrizione iniziale, ma perchè capì d'aver fatta una digressione vera e propria e del tutto soverchia. Ciò, piuttosto, prova un'altra cosa; come, cioè, l'autore nella prima redazione dell'opera, fosse tutto immerso nella storia del secolo che veniva dipingendo, e fosse dominato dall'interpretazione etica di quella società, e dall' impressicne che ne riceveva, come d'un secolo violento e sanguinario, al punto d'abbandonarsi a dissertarne di nuovo, sul medesimo tono, quand'era ancora a poco più d'un terzo dell'opera. (1) Sp. prora., pp. 237-9. (2) Prom. sp., cap. X, p. 158. nell'ultima redazione del romanzo. Invece la minuta la prospettava sotto ben altra luce. «Il sentimento eh' ella provò in quel punto fu un terrore schietto e forte: chinò tosto lo sguardo, fece un cipiglio severo e sprezzante, e corse come a rifuggirsi» sotto il portico attiguo a quella casa; quindi «tirando lunghesso il muro, rannicchiata e ristretta come se fosse inseguita», giunse a una scaletta, salì nelle sue stanze «e vi si chiuse, quasi per porsi in sicuro > (*). Come spiegare quest' atteggiamento dell'infelice, del quale non rimarrà neppur l'ombra nella rinnovata dipintura del romanzo? Certamente esso è il riflesso poetico d'una disposizione pietosa e simpatica del Manzoni verso la singolare creatura della sua fantasia; ma soprattutto è il segno evidente del modo com' egli, la prima volta, immaginò la genesi psicologica di quella sciagurata passione. Gertrude -- noi lo sappiamo -- non è una perversa di natura, ma piuttosto la vittima di una falsa educazione e d'una perfida violenza; quel suo primo impulso di terrore, quell'atteggiamento di sprezzante disapprovazione -- nonché accordare alle linee essenziali della figura psicologica -- riflettevano i suoi naturali sentimenti della vergogna e dell'orgoglio (unici forse in lei) che più le nocquero nella lotta co' suoi tiranni: terrore e disprezzo, a cui il Manzoni dava rilievo anche per la ragione, come apparirà meglio fra poco, che aveva ormai disegnato nella sua mente di rappresentare la colpa di Gertrude attraverso una lotta interiore, ch'ella non seppe volgere al fine della propria salvezza. Chiusa nella sua stanza, «fu assalita da una folla di pensieri»: aveva ella dato motivo «all'arditezza di lui?» No, si sentì innocente, e «se ne rallegrò». Ma mentre detestava ciò che aveva veduto, «se lo andava raffigurando e rimettendo nella immaginazione». Certo, lo faceva per venir al chiaro; se non che, intanto, a furia di pensarci, si andava «famigliarizzando con quella immagine, e diminuiva quel primo orrore e quella prima sorpresa». Sì, era la coscienza della sua innocenza che «le dava una certa sicurtà a tornare su quelle immagini»; ma intanto s'abbandonava in balia d'una «curiosità» pericolosa e «guardava senza rimorso e senza precauzione una colpa che non era la sua»: si levò di là «stanca di tanti pensieri». Noi già entriamo nel segreto intento dell'analizzatore acuto e pensoso, e prevediamo a che andrà a finire tutta codesta preparazione psicologica. Se Gertrude avesse coltivato con tutta la vigoria possibile del suo animo quelle prime affezioni d'or (1) Sp. prom., p. 239. IL ROMAKZO IN FORMAZIONE 349 rore e di disprezzo, sarebbe stata salva. È il tormentio degli opposti pensieri, sono le fluttuazioni e gli avvolgimenti della sua mente inquieta, a cui non splende un' alta e pura luce morale, che così in questo nuovo e più funesto cimento a cui la trascina il suo destino, come già nella lunga impari lotta col padre, la ridurranno in servitù di uno più forte e più iniquo di lei. Il poeta, mentre accresce l'ansia in noi per la sorte dell'infelice, ci fa già presentire il non lontano trionfo del male. Che fece poi Gertrude? Che doveva fare? Sottrarsi per sempre dallo sguardo insidioso del nuovo nemico; denunziare l'empia temerità ai superiori. Non fece nulla di ciò. Esitò alquanto tempo: la «curiosità» o -- soggiungeva il poeta con rapida intuizione -- «qualche cosa di peggio > la voleva indurre a ripassare il cortiletto per lanciar lassù uno sguardo... Ma . a qual fine? Oh, solo «per saper meglio come regolarsi!» rispondeva a sé stessa: sofisma di mente curiosa e fantastica ! Se ne ravvide e prese la via del dormitorio per giungere nella stanza dell'educande. Ivi, «o fosse caso o un resto di quell'esitazione, ella s'affacciò ad una finestra, che aveva dirimpetto appunto quei tetti, vi guardò e vide» fermo in agguato, come prima, il «temerario». Ora crescono i turbamenti, cui non varrà a colmare nemmeno la coscienza di riconoscersi innocente. Fuggì anche di lì, dicendo brevi parole all'educande «con voce commossa». Nel giardino del chiostro, ove scese a passeggiare, «stava peggio» di prima. Nuovi contrastanti pensieri e appassionate consulte! Avvertire i superiori? E se si fosse ingannata? prima di parlare doveva esser certa !.. Era sua colpa se quel monastero era piantato li vicino a quella casa? «Così non foss'egli stato piantato in nessun angolo della terra!» E in uno scatto d'insolita energia disse a sé stessa: «Vada come sa andare io non voglio pensarvi». Non pensarvi? con quella natura debole e contraddittoria avrebbe dovuto sfuggir per sempre all' «assedio dello scellerato Egidio», che «non rallentò». Invece il primo impulso d'orrore e sprezzo era fiaccato: ella accettò la lotta: e fu la sua rovina; ecco dal disapprovare le «istanze» di colui, alle dimostrazioni di «noncuranza», a quella più pericolosa di «tolleranza» era breve il passo: dopo, in un'anima fragile, ardente, non rassegnata alla sua sorte ineluttabile, poteva esserci ancor qualche esitazione e contrasto, ma ella sarebbe caduta nella colpa. «Finalmente dopo un doloroso combattimento si diede per vinta in cuor (1) ima., pp. 239-40. SUO, e, con quei mezzi che lo scellerato aveva saputo trovare e additarle, lo fece certo della sua infame vittoria» (^). Ognuno intende, ormai, la differenza profonda tra la rappresentazione di una resistenza che, se si fiacca all'ultimo, dura in un contrasto d'alternate passioni, e quel risponder pronto al primo appello di Egidio. Che cosa rispose Gertrude? Parole di cortesia, di simpatia, di consenso? Tanto è significativo l'atto, quanto è misterioso il senso, lo spirito, la portata di esso. Ma potevano esser parole di disapprovazione, come quelle che indoviniamo dagli accenni della minuta? No, se guardiamo il nesso logico e psicologico, in cui la minuta e l'ultima redazione, dopo il lungo divario ora osservato, si congiungono per identità di situazione, se non di stile. Di fatto quel che leggevasi dopo i segni d'assenso di Gertrude al suo tentatore: «cessato il combattimento, la sventurata provò per un istante una falsa gioia», s'è trasformato in queste parole, seguenti immediatamente alla famosa frase: «In que' primi momenti, provò una contentezza non schietta al certo, ma viva». Lo stesso avviamento d'anima che s' abbandona alle lusinghe d'emozioni nuove e liete; gli stessi effetti nel sentire e nell'agire di lei^ salvo lievi ritocchi di figurazione, che nel primo testo era, come al solito, analitica ed alquanto accesa. ( -- «Alla noia, alla svogliatezza, al rancore intimo, succedeva tutto ad un tratto nel suo animo un'occupazione, forte, gradita, continua, una vita potente si trasfondeva nel vuoto dei suoi affetti. Gertrude ne fu come inebbriata» -- ) ed è più sobria, ma non meno robusta nell' ultimo ( -- «Nel vóto uggioso dell' animo suo s' era venuto a infondere un' occupazione forte, continua e direi quasi una vita potente» -- ). Se non che la serie de' sentimenti e degli accidenti descritta nella minuta, non che esser sottintesa, non è punto concepibile: l'avvio alla passione peccaminosa è Io stesso; ma la preparazione è profondamente diversa. Non nego che la valutazione comparativa, che i critici vennero facendo tra le primitive pagine, analizzanti le interne vicende per cui passa Gertrude prima di rispondere al tentatore, e la frase: «La sventurata rispose», sia stata destra e acuta e, sotto un certo rispetto, utile altresì all'intendimento dell' arte manzoniana; ma mi sia lecito osservare che la questione, qualora miri a determinare la superiorità artistica ^dell' un passo sull'altro, non può reggersi se non in quanto si tratti di rifacimento stilistico, di procedimento più. profondo e più efficace nel figurare (1) Ibid., pp. 240-1. un medesimo stato d' animo, di lineazione, dirò così, più risentita di una data situazione, che, come l'avesse concepita il poeta nel primitivo disegno, tale fosse rimasta nel romanzo. Gli è invece che abbiamo due situazioni psicologiche diverse, due modi diversi d'immaginare come ebbe cominciamento la colpa d'amore dell'infelice reclusa. Nel romanzo Gertrude non sostiene combattimenti interni, non ha sentimenti d'orrore, dì disapprovazione, propositi -- per quanto caduchi -- di noncuranza, trapassi graduali alla tolleranza e da ultimo alla condiscendenza: ella all'appello insinuante risponde, senza esitazione, come attratta d'impeto in un cerchio magico. Fondamento e preparazione a questo abbandono immediato sono i precedenti psicologici, il disordine morale, o analizzati o drammatizzati nelle pagine consacrate al racconto dell'adolescenza di lei e della prima sua vita nel monastero. Quella frase è un passo de' piìi breviloquenti che siano nel romanzo: lapidario nella sua semplicità, contenuto, vibrato, conclusivo nella sua concinnità; se ne riceve l'impressione come d' un lampeggiamento tanto vasto e abbagliante quanto rapido e fugace. Non c'è che un epiteto «la sventurata»; ma non scolpisce, non colorisce un moto, un atto, un sentimento, un pensiero di lei, giacche è, piuttosto, l'eco riflessa della commiserazione grave del poeta. Frase nuda, quasi scheletrica; epigrammatica, senza colore, senz' ombra e luci, in cui aliti la pena dell'anima, ma che tuttavia conquide per la pienezza di realtà ond' è materiata, per il fulmineo avanzare verso la catastrofe, senza svolgimento o contrasto, di quel breve dramma della seduzione. Taluni critici hanno insistito anche troppo sul modo restrittivo con cui il Manzoni significò i primi passi di Gertrude nella colpa, suir eliminazione assoluta eh' ei venne facendo d'ogni elemento rappresentativo della passione amorosa, poiché hanno riguardato quel «rapido e asciutto»: «La sventurata rispose» come il residuo sintetico della più lunga storia interna descritta nella minuta. Che essa non significhi neppur in ombra i «principi» dell'amore quali almeno sono analizzati nella prima redazione, è un'impressione che viene spontanea se la si confronti con la descrizione primitiva: ma che rispetto a questa sia come il risultato di un processo di correzione e attenuazione, imposto al Manzoni dalla sua stessa teoria professata nella «Digressione sull'amore», io non convengo. Ecco appunto lo Zumbini spiegare il fatto del mutamento dall'una all'altra stesura pensando che da principio «con quegli accenni, rapidi e quasi fuggitivi, all' amore di Gertrude» dovè parere al Manzoni di «rimaner fedele ai suoi rigorosi concetti etici», ma che poi «dovè persuadersi» che fosse ancor troppo ciò che aveva scritto nella minuta; onde «nuove eliminazioni e nuove correzioni e sempre in omaggio a quegli stessi criteri etici per cui erano state fatte le prime» (^). 10 penso, al contrario, che il Manzoni ritenesse di aver poco o male applicati e interpretati, nella prima analisi della colpevole passione di Gertrude, i criteri etici esposti fin da quando gli si affacciò il problema se doveva descrivere il nascimento e i progressi del puro amore de' due promessi, perchè è difficilmente ammissibile che uno scrittore della logica e della dirittura del Manzoni, dopo aver espresso a chiare note una sua dottrina che è come la rivelazione de' suoi intenti e procedimenti artistici rispetto ad una speciale materia d'arte, se ne dilungasse nel fatto e poi, correggendosi, venisse a confessare a sé stesso di non averla fedelmente osservata. E sarebbe anche più grave il trascorso del poeta, secondo l'interpretazione data dai critici a quelle parole eh' egli esciva a dire in un punto della descrizione: «Il nostro manoscritto segue qui con lunghi particolari il progresso dei falli di Geltrude; noi saltiamo tutti questi particolari e diremo soltanto ciò che è necessario a fare intendere in che abisso ella fosse caduta e a motivare gli orribili eccessi d' un altro genere, ai quali la trascinò la sua caduta» (*). Protesta «tardiva» -- dice lo Zumbini -- «quando già aveva descritto i primi e i piìi potenti effetti dell'amore» e soggiunge che «i salti che il Manzoni disse di dover fare, qui non li fece» e che insomma «in quei rapidi tocchi, c'è quanto basta per farci assistere, non veramente alle «comunicazioni» dell'amore (oh, questo no !), ma certo ai «principi» e agli «aumenti» che, pure secondo il concetto manzoniano, andavano scartati» (^). Più. drittamente mostra di pensare il D' Ovidio lasciando intendere, di passata, che contraddizione non ci fosse tra la «digressione sull'amore» e l'analisi della prima stesura; nella quale ei non trova «nemmeno i «principi» della passione amorosa» {*). 11 fatto è che il Manzoni a buon diritto poteva asserire di aver saltati e di esser per saltare i «particolari» della sciagurata tresca (1) B. Zumbini, L'episodio della monaca di Monza nella prima minuta dei Promessi sposi, nella Misceli, di Scritti di storia di filologia e d'arte, per nozze Fedele-De Fabritiis, Napoli, Ricciardi, 1908, p. 269. (2) Sp. prom., p. 241. (3) Scritto cit., pp. 267-8. (4) Nuovi st. nianz. cit., p. 480. di Gertrude; che s'attenne, senza contraddirsi, ai canoni della sua dottrina nella rappresentazione artistica dell' amore, descrivendo, così nella minuta come nel romanzo, solo ciò eh' era necessario a intendere la rovinosa caduta di quella disgraziata; e che se un criterio morale, espressamente dichiarato, governò e contenne l'analisi de' primi combattimenti e della funesta dedizione nella prima stesura, è stato piuttosto un criterio estetico quello che suggerì al poeta di tagliarla via per sostituirvi la frase famosa. )4 E stata, non dico -- come valenti studiosi hanno asserito -- l'esigenza di ridurre e di coordinare, che per vero dire quelle appena quattro pagine non avrebbero nociuto alla proporzione e all'armonia dell' episodio (*), ma l'intuizione nuova che del carattere del suo personaggio e di quella situazione particolare ebbe il poeta, rimeditando il suo lavoro, e che dovè parergli più rispondente a quel procedimento di compostezza, di temperanza, di serenità artistica, con cui era venuto rinnovando e si preparava a rinnovare tutto l'episodio. La frase mirabile non sintetizza, come s'è sentito dire più volte nella discussione intorno ai Brani Inediti, l'analisi della prima redazione: il radicale mutamento di disegno, di condotta, di stile è dipeso dalla diversa concezione morale e dalla diversa attitudine psicologica ed artistica del poeta nel rimeditare quella situazione della creatura immortale della sua fantasia. Gertrude certamente non è la stessa nelle due redazioni e ad osservarne la lotta e i patimenti ch'ella sostiene prima di darsi per vinta al colpevole amore, può apparire, come parve allo Zumbini, «moralmente migliore» e «più drammatica» (*) nella prima che nella seconda. Se non che avviene subito di domandarci: è possibile che il Manzoni, il cui studio è stato finora, nella rielaborazione - dell'episodio, di presentar l'infelice in un aspetto più decorosamente morale e più altamente poetico, abbia inteso, in questo punto, ad oscurare anche quel po' di virtù e di nobiltà che, secondo il giudizio dell' insigne critico calabrese, splendeva ancora nella primitiva figura della sventurata -- non dovette piuttosto il Manzoni sentirsi sollecitato dalla cura contraria? E dove gli paresse non fosse luogo a pietà nell'analisi della minuta, cercasse di suscitarla col creare (1) È un'obiezione che può servire anche a que' critici i quali in questo come in altri mutamenti dell'episodio monzasco hanno scorto l'influsso di scrupoli morali e religiosi, e, perfino, di consigli altrui. Per me, al contrario, essa ha valore solo in quanto solleciti, lo studioso ad approfondire l'indagine delle ragioni artistiche de' mutamenti operati. (2) Scritto CU., p. 268. una situazione più delicata, più densa di mistero, più dolorosamente tragica ? E vero che in quella descrizione Gertrude ha un primo moto di sorpresa sdegnosa e di schietto orrore pel giovane temerario; ma ne' dibattiti de' suoi sentimenti e pensieri rivela una fantasiosa sensibilità, una sofìstica curiosità, un dispettoso orgoglio, che sono propriamente i caratteri, già da me analizzati, di quel suo temperamento quale il Manzoni con certa crudezza di linee e di toni aveva ritratto nella prima stesura. Quegli stessi combattimenti dell'anima agitata da opposte passioni, quel primo proposito, forse non molto sicuro, ma insistente, di ritrarre il pensiero da ciò eh' aveva veduto e sentito, di sfuggire alle insidie, danno l'impressione ch'ella può durar nella lotta e vincerla, purché secondi con vigore i primi buoni impulsi della coscienza. Per contro, in quel digradare dalla disapprovazione alla noncuranza sforzata, da questa alla tolleranza, e finalmente al consentimento, si manifesta tutta la contaddittoria e fragile natura di Gertrude e il gran vuoto ch'era nella sua coscienza morale. Poiché si tenga ben presente che -- o non ci sia riuscito r artista psicologo o non l'abbia voluto -- dall' analisi fatta non traspare che un' inquietitudine scomposta, non già palpiti e fremiti di una passione, che cresca e divampi, e piuttosto l'ondeggiar d'una volontà torbida e fiacca che il turbamento profondo d'una coscienza. E guardatela quando tira in campo il monastero e lo maledice, e quando cerca di persuadersi a guardare verso l'abbaino se colui sia ancora là in agguato, col pretesto di potersi, poi, regolar meglio, e ricalcitra, pel dubbio (ma poteva esservi più dubbio?) d'essersi ingannata, dal buon consiglio, che le si «presentava» pur «come un dovere >, di denunziar l'accaduto a chi l'avrebbe potuto proteggere e liberare da ogni fastidio. Chi non scorge in codesti suoi atteggiamenti un'ombra di volgare e sofistica debolezza? Io, dunque, non trovo nulla, nella rappresentazione della minuta, che raffiguri una migliore moralità del personaggio. E neppure un più vivo carattere drammatico. Tutto sta intendersi su ciò che sia e che valga esteticamente l'essenza del dramma. Se è dramma vero e profondo non il patetico fluttuar de' sentimenti leggeri e fiacchi, non l'aggirarsi dello spirito fra immaginazioni e impressioni confuse, che turbino la mente più che sconvolgere il cuore o la coscienza, ma il tumultuar tempestoso degli affetti e delle passioni in contrasto o il tra volgimento ed offuscamento di un'anima, cui trabalza dalla quiete all'affanno, dall'innocenza alla IL ROMANZO IX FORMAZIONE 355 colpa il malig-no istinto invincibile o il fato inesorabile, allora io non deduco dalla primitiva analisi manzoniana alcun senso di alta tragedia. E c'è del vero -- se si tolga qualcosa di sottilmente esagerato o di crudo -- nel giudizio che di recente ne ha dato lo Scarano, al quale è parso che essa «abbia la dote della perfetta regolarità» e che «il processo de' fatti psicologici segua troppo l'ordine logico». Giustamente e bellamente egli si chiede: «dove i pensieri dolci e il molto desìo che menarono costei al passo deUa colpa? ove le incertezze, le fluttuazioni, le trepide attese, i proponimenti fatti e disfatti, la prepotenza de' fantasmi lusinghieri, lo scoppio della passione?» (^). Non direi, però, che in Gertrude «abbiamo! sentimenti tipici, la logica de' sentimenti, non i sentimenti in atto», ne pretenderei di trovare rappresentata fin dal primo abbozzo «una lotta tra la ragione o il dovere e l'istinto prepotente della sua natura amorosa, nutrita d' immagini seduttrici» (*), perchè non si tratta tanto di schemi tipici o logici, quanto di scarso sviluppo d'analisi, e perchè, infine, ogni autore bisogna accettarlo e valutarlo per quello che è, ovverosia per quello che si è proposto di dire secondo la natura e i modi della sua tempra e della sua arte; ond'è vano far colpa al Manzoni di non aver figurata «la fiumana rapinosa della voluttà» quand'egli -- sia che affisi lo sguardo sull' amore puro di Lucia o sulla passione peccaminosa di Gertrude, sia che ne dia la rappresentazione per analisi o per sintesi -- non ne traccerà che le linee essenziali con vigorosa idealizzazione della realtà, e nelle lucide forme della sua arte sobria e decorosa non svelerà dell'una se non la delicata umanità e dell'altra il tragico afi'anno. Tornando al confronto della descrizione della prima stesura con la nuova rappresentazione rapida e concisa del romanzo, non solo possiamo dire che il Manzoni non ha inteso di raccogliere in codesta con vigore sintetico l'analisi primitiva, ma altresì che Gertrude ne è uscita moralmente migliore ed esteticamente più compiuta e luminosa. Il Manzoni ha risentito, con intuizione mirabile e tutta nuova, l'insorgere di un'umanità ardente e folle nel cuore e ne' sensi della misera, appena la toccasse il malefico fascino dell' amore e della colpa. È appunto per rendere con immediatezza artistica il prorom (1) Scritto CU., p. 465. (2) Ivi. pere della natura maldoma che ha posti l'un di fronte all'altra, con viva azione drammatica, senza alcun processo psicologico, la donna e il suo tentatore. Egli osò rivolgerle il discorso ed ella rispose; in questo breve giro di parole, dove non e' è che il fatto subitaneo, fulmineo, il poeta ha significato il rapimento irrefrenabile dell'anima inquieta e fantasiosa^ che, giovinetta, pochi anni innanzi condotta per breve tempo nel bel mezzo della splendida vita mondana, si sentiva tutta presa da «un'ebbrezza», da «un ardor tale di viver lieto» da giurare a sé stessa di soffrire tutti i patimenti pur di sfuggire al chiostro. É quella medesima «ebbrezza» che la esalta e conquide all' apparire d' un' immagine di quello splendido mondo. Chi è Egidio per la deserta anima di Gertrude -- É appunto una sembianza di ciò che più brillantemente aveva arriso alla sua fantasia di fanciulla, di ciò ch'ella aveva contemplato con gli occhi ebri di desiderio nel forzato addio ai beni del mondo. Il sorriso procace, lo sguardo carezzevole, la parola amica di quel profano, che d' improvviso appare tra le ombre fredde e fastidiose della vita claustrale, l'attraggono, l'inebbriano; né l'esser ormai monaca per sempre la perturba o la fa esitare, perché in lei è cresciuto, con r amara esperienza, l'orrore del chiostro, perchè il conforto della fede o il severo richiamo alla religione non hanno presa nella sua anima inaridita. «La sventurata rispose >: ecco una di quelle sintesi semplici e pur dense di spiritualità che segnano il rapido sopravvenire della catastrofe di un dramma lungo e intenso: di quel dramma che fu la fanciullezza di Gertrude, martoriata e trascinata all'infausto sacrifizio, e la vita vissuta poi entro le squallide mura del monastero, tra ii rovello, l'odio e la sregolata svagatezza d'effimeri tripudi. Nell'apparizione di Egidio risorge con la potente attrattiva della realtà concreta e della giovinezza audace il mondo tante volte vagheggiato: da questa attrazione magica alla colpa non sarà lungo il passo. Il Manzoni rimutando radicalmente la situazione psicologica e drammatica dell' innamoramento di Gertrude, ha sollevato questa immortale creatura della sua fantasia tra le figure più tragiche della letteratura antica e moderna; e v' è riuscito con una semplicità di mezzi, che è il segreto della grande arte classica. Gertrude porta in sé il germe della passione irresistibile: tocco, come da fugace alito primaverile, dallo sguardo pensosamente affettuoso d' un povero paggio, si schiude quasi a una prima tenera vita; avvampato dalle fiamme d' un allettamento più audace e gagliardo, scoppia con la virulenza de' fremiti latenti. Questo intese il Manzoni, spìngendo lo sguardo con rinvigorito acume in quell'anima, e al nuovo fantasma poetico die vita in quella grande e semplice frase. ' * * * IX. Nel seguito del racconto le differenze dalla prima all' ultima j^\ redazione si accentuano in modo che, pel disegno, la condotta della narrazione, il carattere de' personaggi, ci par di trovarci dinanzi a due forme d'arte, se non essenzialmente opposte nell' intima ispirazione romantica, certo spiccatamente diverse nella concezione delle 1 singole parti e ne' modi dell' analisi psicologica e della rappresen- J tazione. Fanno impressione i tagli profondi operati dal poeta nel processo d'elaborazione, l'eliminazione d'alcuni personaggi e d'alcune scene di grande rilievo, la riduzione a figura appena lineata di scorcio, e relegata sullo sfondo scenico, di queir Egidio, che nella prima costruzione del grandioso episodio campeggiava in tratti pieni e forti, nel bel mezzo della scena; onde non possiamo fare a meno di domandarci: ma perchè il Manzoni, che nel corso di tutto il romanzo più volte s' è mostrato consapevole e preoccupato di narrazioni e di meditazioni, che gli pareva troppo si dilungassero dalla trama sostanziale della sua «storia», ha speso tanto studio d'analisi e tanta energia di sceneggiamenti vivaci attorno non solo alla figura di Gertrude, ma a quella del suo tristo amante e delle due converse, a lei unite nella colpa e nel delitto? E perchè e per quali nuovi atteggiamenti di pensiero e ragioni d' arte ha così profondamente rimutato il primitivo disegno, che -- chi conosca la dirittura e la lucidità della sua mente -- doveva essere stato da lui ben meditato ne' motivi etici e religiosi, non effimeri o superficiali in una coscienza come la sua, e negli effetti dell'arte? A queste gravi domande che, quando si conobbero le pagine inedite nell'edizione sforzesca, hanno assillato l'intelletto critico di tanti valentuomini, cercherò di dare anch' io un' adeguata risposta. Per arrivare alla quale, devo intanto riprendere in esame la minuta e le successive elaborazioni. L' innammoramento di Gertrude e il suo mutato contegno erano scrutati e ritratti, nella prima stesura, con un'attitudine morale e psicologica, di cui non trbviamo che lievi tracce nel romanzo. Poco diceva il Manzoni del crescere della sciagurata passione di lei e del modo come giunse alla colpa; ma in queir atteggiarla intesa a con templare «l'avvenire come piano e delizioso», in queir accennare ai «momenti della giornata spesi» nella nuova occupazione «forte, gradita, continua», tutta piena di una potente vitalità affettiva, in quel figurarla raccolta a «pensare a quelli, ad aspettarli, a prepararli» cullandosi nell' illusione di un' «esistenza beata che non lascerebbe né cure, né desideri» in quel tratto, infine, ov'era detto che «r accecamento di Geltrude e le insidie di Egidio s' avanzavano di pari passo al punto che il muro divisorio non lo fu più che di nome» (*), in tutto ciò abbiamo qualcosa dì più del tipo o dello schema, qualche linea di psicologia femminile che, ripulita, affinata e alleggerita del superfluo e del prolisso, avrebbe potuto, con la consueta sobrietà manzoniana, caratterizzare il graduale sviluppo di quell'accecante amore. Ma fin da codesti primi tratti noi intravediamo il motivo sentimentale che s' é trasfigurato e attuato nella dipintura della passione di Gertrude e nelle scene di sangue e di terrore, in cui spiccano Egidio e le sue complici: motivo d'arte, la cui genesi alla fin fine si risolve nella disposizione etica del poeta durante il primo concepimento e disegno della fosca e truce materia. Quale fosse codesta disposizione di fronte al mondo ch'ei veniva creando sulle orme della storia e a specchio dell'eterna realtà umana, abbiamo già veduto ragionando delle sue idee morali nella prima parte di questo lavoro: l'esame particolareggiato della minuta viene via via confermando le nostre premesse. Un severo giudizio, ovverosia una dolorosa concezione pessimistica della storia e dell'uomo governa i truci episodi, che dovremo ora analizzare: giudizio non così occulto che non si riveli di tanto in tanto in aperti atteggiamenti fieramente pensosi o sentenziosi dell' autore (*), ma che anche più spiccatamente s' afferma nell' aver segnalato con uno studio ed un'eloquenza non consueta il risveglio de' peggiori istinti dì Gertrude e il pervertimento morale e intellettuale in lei operato da Egidio, Erano nella minuta certi tratti che infoscavano il ritratto della sciagurata: «Tutte le inclinazioni viziose, che vi erano come addormentate^ sì risvegliarono più forti e più adulte e a tutte queste s'aggiunse l'ipocrisia» (^): dì che nell'ultima redazione non é rimasta che una nota fugace e lieve laddove il poeta, a proposito del rallegrarsi delle suore pel nuovo contegno (1) Sp. prom., p. 242. (2) Ivi. (3) Ivi. regolare e manieroso di Gertrude, dice che erano lontane dal comprendere che «quella nuova virtù non era altro che ipocrisia aggiunta all' antiche magnagne» (*). Ma quella finzione non poteva durare ed ecco ripullulare i «soliti dispetti» e i «soliti capricci», «le imprecazioni e gli scherni contro la prigione claustrale e talvolta espressi in un linguaggio insolito in quel luogo, e anche in quella bocca»: ma ecco altresì seguire a quegli sfoghi i pentimenti e le «moine» e le «buone parole» per far dimenticare gli accessi di collera (^). Così leggiamo ora nel romanzo, e, affisando lo sguardo a traverso i fitti veli che il poeta avvolge attorno alla colpevole, inseguiamo sì col nostro trepido pensiero gli avanzamenti dell' empia tresca e gì' impronti effetti morali della contaminazione, ma quante ombre s'addensano su quelle poche righe! con quanta cura tenta il poeta di distrarci dalla riflessione del fallo e delle sue circostanze per occuparci tutto l'animo nella visione della misera peccatrice, aggirantesi dispettosa e triste nel piccolo mondo del monastero ! È evidente l'apprensione del magnanimo scrittore, che vuole salva la verità sacra della storia nel tempo stesso che aff'rena l'ingegno nella pittura di quell'animo, pervertito da un impuro amore: egli, dibattuto tra la brutta realtà e la morale, non trova altro modo di conciliarle che temprando l'una e l'altra all' intimo fuoco di quella pietà che gli arde nella sua pensosa coscienza cristiana. In quell'incessante vicenda di collere e di pentimenti, tracciati con agile mano senza particolari e con grande potenza sintetica di fantasia, la colpevole si ricompone ai nostri occhi in una figura d'alta tragedia, che vagola inquieta, convulsa, inseguita sempre dall'ombra del suo peccato. Nella minuta Gertrude aveva un'altra sembianza, e il poeta ne studiava l'anima con altro intento e arte diversa. «Quando all' 60*6110 naturale del fallo -- vi si leggeva -- si aggiunse la scuola viva e diretta dello scellerato giovane, ognuno può immaginarsi quali diventassero le idee di Geltrude. Tutto ciò che era dovere, pietà, morigeratezza era già da gran tempo associato nella sua mente alla violenza ed alla perfidia, ed aveva un lato odioso e sospetto: i ragionamenti che tendevano a mostrare che tutto ciò era una invenzione dell'astuzia, un' arte per godere a spese altrui, accolti dal cuore e presentati dall'intelletto, furono ricevuti in essi come amici savi e sinceri...». (1) Prom. sp., cap. X, p. 159. (2) Ivi. A scorgere la fallacia delle lusingatrici «teorie del vizio» Gertrude non aveva, come sarebbe stato necessario, né «una meditazione potente > né «un sentimento retto», onde «fu una docile e cieca discepola e ricevè e conobbe tutte» «le idee generali di perversità» che il suo seduttore le instillava. Intanto «aveva a poco a poco trasandate quelle cure di apparente regolarità che si era prescritte: la licenza a cui s' era abbandonata le rendeva più insopportabile ogni contegno; e così si rilasciò tanto che negli atti e nei discorsi divenne più libera e più irregolare di prima. Insieme a quelle cure cominciò senza avvedersene a trascurare anche le precauzioni, che aveva da prima messe in opera, per nascondere quello che tanto le importava di nascondere > (*). Notate: «inclinazioni viziose», «sentimento» non «retto», insofferenza d'ogni «contegno», sregolatezza crescente, abbandono d' ogni precauzione e quello scetticismo cinico che rende amaro e torvo l'animo di Gertrude, infastidito e sospettoso perfino della virtù altrui e più aizzato a odiare il dovere, la pietà, la morigeratezza dai diabolici insegnamenti di Egidio: è un'analisi cupa e spietata, che l'austera coscienza del moralista detta al poeta, imprimendo all'accento, all'epiteto, al giudizio un' appassionatezza amara e dogliosa: riflesso artistico di quella comprensione profonda e severa del male che informa tante pagine della Morale cattolica e le due tragedie e che non ha ancora trovate le forme benigne e serene della sorridente pietà, onde splendono rinnovati di spirito e d' arte i Promessi sposi. Dove in questi l'autore, frenando il giudizio morale, lascia nelr ombra i segreti motivi de' mutamenti d'umore e di contegno della signora, nella minuta li persegue e li svela con spirito inquisitorio e, mentre in essi ne risolve in un ritratto, perfetto per sapiente armonia d' ombre e di luci, l'occulta inquietitudine che ora s'ammanta d'apparenze benigne e tranquille, ora si sferra in isfoghi sinistri, ma poi, paurosa di scoprirsi nel suo vero essere, riprende la maschera dell' ostentata mitezza, nella minuta, invece, v' ha tutT;' altro processo psicologico, nel quale è scolpito con minore finezza, ma con eguale gagliardia, il digradar dell' anima, accecata dalla passione, sino alla sfrenatezza. Son due profili morali, colti e fissati con differente sguardo: non per diseguale vigore di penetrazione psicologica, ma per diversa disposizione morale. (1) Sp. prom., pp. 242-3. Indagare il pervertimento, in cui s'offusca e s' abietta colei che alla sua sventura non sapeva trovar lenimento e pace ne' divini conforti della religione; smascherare i funesti cavilli, che l'intelletto unicamente perverso offre a giustificazione della colpa; additare gli eccessi a cui trasporta una passione morbosa: con quest' animo d' analizzatore lucido e severo il Manzoni veniva preparando le scene tragiche, che, rifacendo il romanzo, soppresse. L'agitava una fiera moralità, un acuto orrore della tristizia umana, insieme col desiderio di destarlo in altrui: guardava, già nel primo disegno, dall'alto della dottrina e della fede cattolica, ma per ammonire con austero dolore che all' infuori di esse non e' è salvezza; ne' Promessi sposi, fermo in quella religione, eh' è per lui l'unica e vera fonte della moralità umana, ricontempla la creatura uscita dalla sua concezione morale di quel che sono e producono gì' istinti e le passioni, sottratti alla disciplina della sana volontà e della fede costante; quel caso, queir esempio di pervertimento, eh' egli aveva tratto dalla storia ad illustrazione di una verità morale e della corruttela di un secolo giudicato barbaro e delittuoso, gli riappare, dirò cosi, sostanziato dell' universale miseria della nostra natura, onde si fa e si svolge la storia umana; scorge nella tragedia morale di Gertrude il segno di una vasta tragedia in cui l'umanità si dibatte, tra gl'impeti delle passioni, i deliri dell'orgoglio intellettuale, le sopraffazioni dell' iniquità sui deboli e i pavidi; e allora dalle altezze di quella morale religiosa donde guarda il suo mondo, attinge una pietosa mestizia, una larga e più benigna capacità di comprensione del male. L'aneddoto, l'episodio, il bozzetto, la scena cupamente pittoresca si dissolvono nel chiaro e sereno lume della nuova fantasia, al fuoco purificatore di codesta più profonda e più pensosa coscienza de' tralignamenti umani; sopra e oltre il ciclo storico di quella società italiana del Seicento, entro cui s' aggirava la prima volta che si mise a costruire il suo mondo con passione di storico moralista^ il poeta inalza e dilata lo spirito per foggiare a specchio di queir età storica prescelti caratteri universali e rappresentazioni materiate di verità e d'umanità, che superano i confini, lo spirito, il costume d' un secolo. Perchè e a che fine conservare, in questa più tranquilla e più alta disposizione di spirito, l'analisi di quel pervertimento «a cui l'ignoranza e r irreflessione di quei tempi permetteva d' arrivare» (.*) il racconto dell' abbominevole associazione alla tresca delle due suore (]) Ivi. addette alla signora, la scena dell' uccisione della conversa, la descrizione dell' operazione fatta per togliere ogni traccia del delitto, la dipintura del freddo spavento che incombe sulle tre sciagurate dopo il misfatto, e delle loro consulte, il colloquio di Gertrude con Egidio, che vuole il sacrifizio di Lucia? Di tutto ciò non è rimasto nel romanzo quasi nulla, se si tolga quel fulmineo accenno all' orrenda verità circa la scomparsa della conversa: «e forse se ne sarebbe potuto saper di piti, se, invece di cercar lontano, si fosse scavato vicino» (*), e quella svelta e gagliarda rappresentazione de' terrori di Gertrude, assediata dalla larva dell'uccisa, che esamineremo fra poco, e infine, quell'eco vaga e fugace del truce delitto che risuona lontano da questo punto del racconto, là dove, detto che Egidio, richiesto d' aiuto dall'Innominato per rapire Lucia, pensa di valersi senz'altro della complicità di Gertrude, il Manzoni soggiunge «Noi ab])iamo riferito come la sciagurata signora desse una volta retta alle sue parole; e il lettore può aver inteso che quella volta non fu l'ultima, non fu che un primo passo in una strada d' abbominazione e di sangue» (^) Non mi pare che dai critici, che s' occuparono de' Brani inediti, sia stato rilevato convenientemente l'intimo nesso che la soppressione delle fosche scene sumentovate ha col rimutamento profondo a cui il Manzoni sottopose, come abbiam visto, la descrizione dell' innamoramento di Gertrude e il ritratto della sua anima pervertita. Sollevata la figura della colpevole dallo stato d'abiezione e di volgarità in cui l'aveva descritta nella prima stesura, circonfusa la passione di lei d'ombre e di pudico mistero, fatto silenzio sulle arti sottili, onde il tristo amante l'ammaestrava a sprezzare la virtù, il pudore e la sfrenava alla licenza, i romanzeschi episodi che dovevano servire a presentare in viva e manifesta azione l'animo accecato dalla passione e rotto ai misfatti, non potevano più sostenersi. È stata r intima revisione morale di quel!' anima, non so se più sventurata o più colpevole, è stata, cioè, la nuova energia idealizzatrice della realtà, onde il poeta ha ricomposta e riatteggiata tutta la materia del romanzo, attingendola da una concezione religiosa più indulgente e più serena e da un'interpretazione più libera e più vasta della particolare storia d'un secolo; è stato insomma un più vivido senso d' umanità, capace d'abbracciare, senza orrore fremente, anche il male e di comprenderlo e di coglierne con etica sobrietà (1) Prom. sp., cap. X, pp. 259-60. (2) Prorn. sp., cap. XX, p, 293. la sintesi tragica, che ha rinnovato, di conseguenza, la genesi poetica e la rappresentazione artistica di tutto l'episodio monzasco. Il Manzoni, quando veniva narrando i casi di Gertrude, era dominato da due sentimenti: da un profondo stupore e orrore, che gli faceva lo spettacolo del Seicento italiano, quale a lui s'era rivelato attraverso un' indagine incompiuta de' documenti e delle testimonianze, e da un'austerità etica che conferiva al giudizio la voce dell' ammonitore, alla realtà osservata e rappresentata il valore d'esempio solenne; che è a quanto dire storicismo e moralismo governavano la creazione artistica, non senza danno di quella eterna umanità che si esprime nella vera e grande poesia. A riprova di ciò esaminiamo gli ormai famosi episodi della prima stesura. Sentite il tono di chi vuol narrare una vera storia di corruzione sempre piìi abbominevole: «Non andò molto che il maestro ebbe a domandarle o ad imporle nuovi passi nella carriera ch'ella aveva intrapresa» (*). Le due suore dalla trascuranza d'ogni precauzione di Gertrude ebbero qualche sospetto: Gertrude, accortasene, «tutta atterrita comunicò la sua scoperta a colui eh' era il suo solo consigliere >; pur lui «atterrito» ma assai meno di lei, né così da non saper disegnar «freddamente» un riparo, «coltivò il terrore di quella poveretta, le fece tanta paura del male che nessun rimedio le paresse troppo doloroso: e finalmente propose di render partecipi del segreto e di associare alla colpa le due che la sospettavano». L'astuzia, il potente fascino dell'amore, le malsane «dottrine» ch'egli adoperò indussero la misera a trasfondere «prudentemente, a gradi a gradi nelle menti delle due suore il pervertimento ch'era necessario, per renderle sue complici, e consumò il proprio avvilimento nella loro colpa». Quale ne poteva essere la conseguenza morale -- Che, «venuta in questo fondo, la sventurata perdette con ogni dignità ogni ritegno, e, agguerrita contro ogni pudore^ si trovò disposta ad agguerrirsi ad ogni attentato» (j^). Così di colpa in colpa Gertrude s'avvia al delitto. Il meditato disegno, la chiara intenzione di trattarne in una compiuta rappresentazione rivolta ad alto significato morale ha una riprova nel fatto che, conforme al metodo usato nel preparare la narrazione di qualche grande avvenimento morale (corne, ad esempio, il colloquio di fra Cristoforo con don Rodrigo, il voto di Lucia, la conversione dell'Innominato), il Manzoni anche a questa, cui stava per accingersi, mandava innanzi (1) Sp. prom.i loc. cit. (2) Sp. prom., pp. 243-4. un'analisi psicologica viva ed acuta, per segnalare nel progressivo pervertimento della sciagurata i motiyi della prossima scena di sangue e della sua indiretta partecipazione. Codesta analisi, anche se è sommaria come comportavano l'ardua materia e la norma impostasi dal poeta nella dipintura dell'amore e delle passioni sensuali, rivela il movente ascetico del moralista nel tratteggiare le triste figure del quadro, come s'intende da quelle parole che hanno il tuono biblico e il furore austero della sacra oratoria: «L' albero della scienza aveva maturato un frutto amaro e schifoso, ma Geltrude aveva la passione nell' animo e il serpente al fianco; e lo colse > (*). Detto frettolosamente come una di quelle due suore avesse confidato il suo sospetto ad una terza e questa, incuriosita, non cessasse dallo spiare il vero, anche quando l'altra, divenuta complice della tresca, disdisse ogni cosa, e come un giorno la curiosa, villanamente aspreggiata dalla signora, minacciasse una denunzia ai superiori, il Manzoni descrive «l' orrenda consulta «delle «tre sciagurate > e del «loro infernale consigliero» sul «modo d' imporre silenzio alla suora» . Egli propose freddamente ed esse, dopo una vana resistenza, acconsentirono (^). Gertrude, piti che scellerata, era un'anima fragile e inquieta. Com'è che si determina al truce delitto? Nel romanzo fitte tenebre avvolgono la parte ch'ella avesse potuto avervi e il modo come fu consumato. La minuta discopriva i precedenti e lo svolgimento del fatto e preparava, così, ad intendere il terrore e l'angoscia di lei, che pur nell'ultima redazione sono descritti, dopo il misfatto. «Fece più resistenza delle altre, protestò più volte che era pronta a tutto soffrire piuttosto che dar mano ad una tanta scelleratezza; ma finalmente, vinta dalle istanze di Egidio e delle due, e nello stesso tempo dal suo terrore», mise come condizione di non prendervi parte diretta: «transazione» con cui «si sforzò di fingere a sé stessa che sarebbe men rea > ('). La suora confidente della designata alla morte tornò un giorno a riaccenderle i sospetti e la curiosità; non volendo, a studio, intrattenersi a dirle di più, le propose di venir la notte nella sua cella dove le avrebbe parlato più a lungo e forse fatto veder «qualche cosa». «La meschina cadde uel laccio». Macchinatore dell' inganno è sempre Egidio. E la notte, mentre (1) Ivi. Notevole l'impressione immediata che ne riceveva il Visconti, il quale annotava a questo luogo: «Qui l'ascetismo è bellezza: di pensiero, di stile {due parole illeggibili] alle intenzioni religiose dello scrittore» [ivi, n. 4). (2) Sp. prora., p. 245. (3) Ivi. quella stava nascosta e «rannicchiata» «tra il letticciuolo e la mura», la scellerata, «pig-liato da Egidio l'orribile coraggio che le abbisognava, entrò nella cella armata d'uno sgabello con la sua compagna» e alla «dubbia luce» che veniva per la porta aperta da una lume nella stanza vicina, le si avvicinò pianamente, «le si avventò, e prima che quella potesse né difendersi, né gettare un grido, né quasi avvedersi, con un colpo la lasciò senza vita». Consumato il delitto, le vediamo le due colpevoli affaccendarsi a farne sparire ogni vestigio, prima spaventate, poi rianimate dalla calma e dal freddo impero dell' istigatore, «che aveva acquistata un' orribile autorità sugli animi loro» e «che faceva loro sempre paura e dava loro sempre coraggio» (*). Gertrude nella sua stanza < stava nelle angoscie di chi sente l'orrore del delitto, e lo vuole. Sedeva, si alzava, andava ad origliare alla porta; intese il colpo, e fuggì ella pure a rannicchiarsi sull'angolo il più lontano della sua stanza, orribilmente agitata tra il terrore del misfatto, e il terrore che non fosse consumato». Entra l'omicida a chiamarla per aiutare a rimetter le cose in ordine. Gertrude si schermisce inorridita: «No, no per l'amor del cielo !» esclama. E l'altra beffardamente: «Che c'entra il cielo?». Gertrude supplica: «Lasciami, lasciami»; e l'altra rabbiosamente: «Chi ò stata quella ?»; ma Gertrude con angoscia: «Sì, è vero, ma tu sai eh' io sono una povera sciocca nelle faccende; non sono buona da nulla; lasciami stare per amor. . .». Traspare «in modo così orribile l'orrore del fatto» dagli «atti» e dal «vólto» di lei, che l'omicida torna in fretta presso Egidio, dicendo: «non vuol venire: é una dappoca», «con un moto convulso delle labbra^ che avrebbe voluto essere un sorriso di scherno». Egidio fa un motto di spregio; poi, con l'aiuto delle due donne si carica «del terribile peso, sale» per una scaletta al solaio e, giunto nella sua casa, «per bugigattoli e andirivieni» discende in una «cantina abbandonata» e in una «buca», già da lui scavata, depone «il testimonio del delitto», facendo sopra un «mucchio» di rottami, «un monte se avesse potuto» (*). A questo punto del racconto, l'anima del poeta ha uno scatto di passione morale, indizio costante del segreto suo intendimento, e commenta con enfasi tonante: «l'omicidio uscì per la porta che era stata aperta al sacrilegio». (1) Sp. prom., pp. 245-7, (2) Sp. prom., pp.- 248-9. Ora alla scena del sangue succede quella de' freddi spaventi e degl' inquieti dibattimenti sulla condotta da tenersi il giorno seguente nel monastero. Le donne sono rimaste sole: incombe su loro un silenzio tormentoso; si muovono e vanno a bussare «sommessamente» alla porta di Gertrude che vi sta «in agguato»; tirata da loro, questa viene «nella più orrenda stanza di quell'orrendo quartiere»; volge «in giro entrando un'occhiata sospettosa» e propone quindi alle triste compagne di tornar nella sua. Pronte vi s'avviano. Poiché -- dice il Manzoni, soffermandosi a scrutar dentro quell'anime pervertite, -- «ognuna delle tre sciagurate sentiva nella sua agitazione come il bisogno di far qualche cosa, di appigliarsi ad un partito, che avesse qualche cosa di opportuno; e nessuna sapeva pensare quello che fosse da farsi; quando una faceva una proposta, le altre vi si arrendevano^ come ad una risoluzione» (^). Il racconto, condotto fino a questo punto con aridità e regolarità di cronistoria e con sovrabbondanza di particolari realistici superflui, avvivato solo di tanto in fanto da qualche pennellata rubesta piuttosto che luminosa, attinge, per profondità di visione psicologica, le forme dell' arte grande in quel quadro delle tre colpevoli, sedute attorno al lume spento della stanza: «Stavano cosi tacite, guardandosi furtivamente di tratto in tratto: quando gli sguardi si incontravano ognuna abbassava gli occhi come se temesse un giudice e avesse ribrezzo d'un colpevole. Ma l'omicida, più agitata, e agitata in un modo diverso dalle altre, cercava ad ogni momento cominciare un discorso, voleva parlare del fatto e del da farsi, come di cosa comune, parlava sempre in plurale, come per tener afferrate le compagne nella colpa, per esser nulla più che una loro pari» (*). Concertarono finalmente d'annunziare, il giorno dopo, dalla finestra un' indisposizione della signora, per rimanere ad assisterla e cosi non farsi vedere, perchè «il delitto aveva loro appreso un'altra cosa: che il sangue si sarebbe rivelato nei loro atti, nel loro contegno, nel loro vólto» (^). Egidio intanto a «notte fitta» esce con «alcuni suoi scherani», li dispone «come a guardia» in un luogo appartato, «lasciando loro credere che andasse ad una delle sue solite avventure» e «per lunghi circuiti» si porta in un < campo disabitato», confinante con l'orto del monastero, «dal quale era diviso da un muro; con certi (1) Ivi. (2) Sp. protn., p. 250. (3) Ivi. suoi ferri fa in questo un «pertugio», tanto clie possa passarvi una persona: quindi uscito di là, «camminando non senza terrore, minacciato com'era da più d'un nemico >, raggiunge i suoi bravi e tra motteggi allusivi ad altre sue avventure, torna a casa. Ecco distesamente spiegato il mistero di quella «buca nel muro dell'orto» che, neir ultima redazione del romanzo, dà alle suore tutte la certezza della fuga della conversa, e suggerisce al poeta quella pensosa ironia: «chi sa quali congetture si sarebber fatte» (*)^ se non la si fosse scoperta. «E facile supporre -- seguitava il Manzoni nella minuta -- «che da quel giorno in poi il carattere di Geltrude (giacché di essa sola esige la nostra storia che ci occupiamo) fu sempre più stravolto. Combattuta continuamente tra il rimorso e la perversità, tra il terrore d' essere scoverta, e un certo bisogno di lasciare uno sfogo alle sue tante passioni, e tutte tumultuose, dominata più che mai da colui eh' ella riguardava come l'origine dei suoi più gravi^ più veri e più terribili mali, e nello stesso tempo come il suo solo soccorso, l'infelice era nel suo interno ben più conturbata e confusa che non apparisse nel suo discorso, per quanto poco ordinato egli fosse. > (*). Questo tratto riallaccia la minuta all' ultima redazione del romanzo, vuotata della materia tragica e pittoresca che ho or ora riassunta. Se esso ancora risente dello spìrito e della forma di quella materia, poiché approfondisce in un quadro, artisticamente non rifinito, ma di viva ispirazione, la misera vita di Gertrude e il contrasto tra lo sforzo della dissimulazione e l'angoscia paurosa che l'agitava; se, anzi, difficilmente avrebbe l'autore potuto conservarlo così, nel suo cupo colorito originario, una volta che erano svanite al sofiìo potente di una nuova concezione poetica le fosche e lugubri scene del delitto; tuttavia l'eco di quei terrori e di quell'angoscia tremola anche per entro la trama dell' episodio rinnovato. Ciò che di diverso é entrato a questo punto nello studio del carattere dì Gertrude è il ritratto del contegno guardingo e dissimulatore di lei rispetto alla scomparsa della povera conversa; il quale si contrappone e si sostituisce a quello delle tumultuose e paurose passioni, che leggiamo nella minuta; l'uno composto con tanta semplicità di mezzi quanto l'altro è carico di colore, concitato ne' toni e tumultuante di passionalità troppo forzatamente tragica. La qual differenza si spiega^ chi consideri la diversità de' contenuti, ma, (1) Prom. sp., cap. X, p. 159. (2) Sp. prom., p. 252. soprattutto, la corretta e sobria classicità, che il Manzoni si propose di raggiungere rifacendo d' ispirazione e di stile il grandioso episodio. «Ma quanto meno ne parlava, tanto più ci pensava» -- dice il poeta -- preludiando, con pacata armonia, a quel maraviglioso crescendo di passione, d' immagini e d'accenti, in cui rappresenta, con impeto lirico contenuto ma gagliardo, la paurosa lotta dell'animo di Gertrude con la larva dell'uccisa che l'opprime senza posa. La trasandata frase della minuta: «Una immagine la assediava perpetuamente» si svolge in una dipintura drammatica delle più armoniose, che siano nel romanzo, per corretta agilità di linee e perfetta fusione del motivo sentimentale con la rappresentazione di esso, non meno che per l'efficacia, ond' è espresso il pathos tragico nel premere sempre più minaccioso di quel fantasma dell' uccisa su r anima che invano si dibatte per liberarsene. Tu senti l'agghiacciante emozione di terrore in quel «Quante volte al giorno l'immagine di quella donna veniva a cacciarsi d' improvviso nella sua mente e si piantava lì e non voleva muoversi!»; la vanità dell'angoscioso sospiro a sottrarsi alla vista interiore dell'irremovibile e impassibile immagine del delitto in quel «Quante volte avrebbe desiderato vedersela dinanzi viva e reale, piuttosto che averla sempre fissa nel pensiero, piuttosto che dover trovarsi, giorno e notte, in compagnia di quella forma vana, terribile, impassibile !»; la crescente disperazione dell' anima di continuo percossa dalla stessa voce dell' uccisa, tanto più assillante quanto più irreale, in quel «Quante volte avrebbe voluto sentir davvero la voce di colei, qualunque cosa avesse potuto minacciare, piuttosto che aver sempre nell'intimo dell'orecchio mentale il susurro fantastico della stessa voce, e sentirne parole ripetute con una pertinacia, con un' insistenza infaticabile, che nessuna persona vivente non ebbe mai !» (*). Se noi riconduciamo il processo analitico di codesta rappresentazione alla sua unità estetica, che consiste nella visione lirica del rimorso, quei tre momenti -- l'irrompere improvviso del fantasma nella mente, il persistervi giorno e notte con immutabile impassibilità, il susurrìo pertinace di esso -- si sciolgono dall' ordine consecutivo generato dall' attitudine osservatrice del poeta e dalla natura stessa del mezzo artistico, che è la parola, per concretarsi neir integrale e totale figurazione del cruccioso e minaccioso fantasma, (1) Sp. prora., ivi; Prom. sp., cap. X, p. 160. dominante nei pensieri della colpevole, e per convergere, col concitato movimento lirico ascendente della triplice rappresentazione, in una sintesi ideale che al disopra dei limiti dello spazio e del tempo rispecchia tutto il carattere tragico di quel perpetuo travaglio. Come la nuova dipintura mira alla visione fantastica del rimorso, così la prima della minuta scaturiva da quella del delitto. Vi si leggeva infatti: «Tentava ella di rappresentarsi alla fantasia la sventurata suora, quale l'aveva veduta, infocata di collera e con la minaccia sul labbro, queir ultimo giorno. Ma l'immaginazione s' impallidiva sempre nella sua mente, invano ella cercava di raffigurarla con la testa alta, con l'occhio acceso, con una mano sul fianco; la vedeva indebolirsi, non poter reggere, abbandonarsi, cadere; se la sentiva pesare addosso» (*). Era tutt' un' altra concezione e, di conseguenza, tutt' un' altra situazione. Gertrude ricostruiva con la sua fantasia inquieta il delitto, da lei consentito, ma non consumato: il suo era piìi travaglio di sensi che d' anima; risentiva piuttosto il rinnovarsi del terrore, provato quando l'aveva percossa l'eco del colpo mortale, piuttosto che la passione del rimorso^ che germina dalla consapevolezza della colpa; perciò di tanto era plasticamente teatrale l'immaginazione di quel trapasso della suora dalla collera al pallore, all'abbattimento della morte, di quanto è, nella sua intensità lirica, intimamente psicologica la nuova fantasia del romanzo; in quella v' era lo sforzo mentale di figurarsela viva, anche se irata e minacciosa, per liberarsi dal terrore che le suscitava il ricordo del delitto e dall' incubo della tragica scena intraveduta; in questa palpita l'anelito della coscienza all' irrevocabile tempo che l'aveva vista e sentita quella fiera suora accusare e^minacciare_, ma con la sua viva voce -- giorni di cruccio e di paura, ma mille volte migliori della vita presente e avvenire, perpetuamente gravata d'una nuova e più abbominevole colpa. Smorzate le tinte della penosa fantasia, messa in più vivida luce r inquietudine di un troppo tardo pentimento, lasciata nell' ombra la sua parte di colpa con queir arte novella che pudica e pietosa sorvola sui particolari del delitto, il poeta ci presenta Gertrude più spiritualizzata nella sua peccaminosa umanità: da quel tetro travaglio, più profondo nella coscienza che manifesto negli atti esteriori, da quel non so che d'impreciso e dì misterioso ond'è avvolta, si proietta un' ombra di tragicità grave che accresce d' efficacia la rappresentazione artistica. La quale nella minuta aveva più colorito (1) Sp. prom., ivi. rilievo, più drammatica appariscenza, ma assai meno di poesia. Quelle memorie or lugubri ora crucciose che «si gettavano a traverso alle sue idee» e «le scompaginavano, e lasciavano nelle sue parole un indizio del disordine che regnava nella sua mente»; quella stravaganza e sregolatezza ch'era nel suo contegno e che sarebbe stato uno scandolo insopportabile in un secolo meno bestiale» (*) del suo; ciò che Lucia, Agnese e il padre guardiano osservano nel comportamento di lei, durante il colloquio di presentazione -- «s'alzava ella talora con impeto a mezzo il discorso come se temesse in quel momento d' esser tenuta, e passeggiava pel parlatorio, talvolta dava in risa smoderate, talvolta levando gli occhi^ senza che se nMntendesse una cagione, prorompeva in sospiri; talvolta, dopo una lunga e manifesta distrazione, si risentiva ed approvava con negligenza ragionamenti che la sua mente non aveva avvertito» -- (^); ciò che il Manzoni osservava, facendo il ritratto della signora, nei neri occhi di lei, cioè «un non so che di inquieto e di erratico, una espressione istantanea, che annunziava qualche cosa di più vivo, di più recondito, talvolta di opposto a quello che suonavano le parole che quegli sguardi accompagnavano» {^); quel sorriso, con cui la signora accompagnava le parole di complimento ai «buoni amici i padri cappuccini», «che ad altri avrebbe potuto parere di compiacenza, ad altri di scherno» {*); quel «non so che di sinistro e di feroce > nell' aspetto, quando diede sulla voce alla troppo sollecita Agnese, tenendo sopra di lei gli sguardi fissi «torvi e sospettosi, come se cercassero a raffigurare un nemicò» (^) e la sfuriata a cui s' abbandonava contro la violenza e l'ipocrisia de' genitori nel sacrificare i figli (*'), tutto ciò e altro ancora, che verremo notando, conferiva contorni precisi e rilevati e vivace colore alla pittura (1) Ivi. ' (2) Sp. prora.., p. 168. (3) Sp. prom., p. 169. (4) Ivi. (5) Sp. prom., pp. 170-1. (6) Valga come saggio della sua lunga sfuriata questo tratto: «Certo, lo sposo che i parenti destinano ad una figlia è sempre un uomo compito, e il monastero dove la vogliono rinchiudere è così allegro in così bella situazione! così tranquillo! è un paradiso! Poveretti! portano invidia alla loro figlia: vorrebbero anch'essi ritirarsi in quel porto di pace, ah! a far vita beata; ma purtroppo son legati nel mondo. Scusi il mio caldo, padre, ma ella sa meglio di me, almeno ella deve saper troppo bene, come vanno queste cose, la menzogna la più imperterrita, la più persistente, la più solenne è quella che sta sul labbro di colui che vuole sacrificare i suoi figli e far loro violenza. Questi sono i peccati, contro i quali si dovrebbe predicare: a costoro bisognerebbe minacciare l'inferno» (Sp. prom., p. 172). di quel carattere, fantastico di natura ed appassionato, sconvolto e sovreccitato dai funesti casi della vita. Ma v' era in questo sfarzo di una esteriorità eccessiva lo studio dell' osservatore curioso ed ansioso di scoprire tutta la singolare natura del personaggio; v'era altresì la preoccupazione del moralista a far toccare con mano i torbidi pervertimenti di pensiero e di parola che la forzata monacazione e le ciniche teorie d'Egidio avevano generato in quella sventurata. Quel sentenziare tra sarcastico e iracondo di Gertrude può avere forse qualcosa di shakesperiano (e più d'una traccia deil'arte shakesperiana c'è veramente nella prima concezione e figurazione di taluni personaggi manzoniani), ma insieme con altri atteggiamenti del carattere lascia scoperta con troppa viva rudezza il realismo e il moralismo della prima maniera. Abbiamo insomma la macchietta, il bozzetto; abbiamo la dimostrazione in atto di quello che l'analisi psicologica e la riflessione morale avevano, dirò così, diagnosticato nello studio di queir anima traviata, ma non abbiamo ancora il carattere tragico dell'ultima forma, così pieno di spiritualità dolorosa e misteriosa^ così puramente e nitidamente segnato nelle sue linee essenziali, così ricco, nella gentile finezza di disegno e di colori, d'un' umanità profonda e complessa, che lo solleva sopra i lìmiti storici d' un episodio secentesco, sopra il mondo della natura, cioè de' sensi e delle apparenze, sopra l'umile orizzonte della realtà caduca, e ne fa una creatura universale ed immortale. Quell'analisi d'ogni mutabile atteggiamento della psiche, quel rappresentarcela principalmente ne' gesti e nella colorita vivacità dell' espressione esteriore; quel soffermarsi sugli occulti motivi d' atti e parole, a cui ogni commento è superfluo (*), sono procedimenti d' arte romantica oscillante tra le forme del naturalismo minuto e superficiale e quelle del sentimentalismo or molleggiante ne' languori or sermoneggiante nella tesi e ne' precetti morali. Gli è che il Manzoni nel comporre e foggiare la prima volta il suo personaggio sullo sfondo storico dell' età che veniva rievocando, con la coscienza (1) Era inutile, dopo le amare parole della signora, soggiungere: «Sifpose a sedere, tutta turbata, ed ognuno si sarebbe avveduto che un pensiero che i discorsi di Agnese avevan fatto nascere, dominava allora la sua mente, e che gli afTari di Lucia non erano che un oggetto di considerazione secondaria» (ivi); giacché quelle parole erano così abbondanti e chiare da fare intendere anche troppo il rancore di Gertrude contro i suoi oppressori. Nell'ultima redazione il Manzoni, non che sopprimere la notazione superflua, ha ristretto il pensiero dell'oppressa in quei detti brevi e taglienti: «già lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de' loro figliuoli» ! (cap. IX, p. 130); ne' quali è come uno sfolgorio improvviso e fugace, ma potente della torva ambascia di quell'infelice. 372 PARTS TERZA agitata dai motivi morali della sua creazione, con l'apprensione di rivelare quanto di strano, d'abnorme, di dissennato s'affacciava al suo pensiero meditante, con la tendenza, non ancor mortificata da un sentimento più austero dell' arte, a secondare nell' espressione l'intima ispirazione romantica de' suoi fantasmi poetici, vedeva in Gertrude lo spirito, il costume del secolo, il prodotto d'una funesta realtà contingente, il simbolo d'un' aberrazione peculiare di casta, V esempio d' una verità morale da lui eloquentemente predicata nelle Osservazioni sulla Morale cattolica: partecipava insomma appassionatamente^ con la coscienza di storico e di moralista, all' intima vita del suo personaggio. È il naturale processo d' ogni creazione artistica nella sua primitiva genesi sentimentale. In un secondo ed ultimo momento, che suole esser quello della chiara e tranquilla contemplazione, rivide in Gertrude più che il costume, più che la parvente realtà, più che la singolare passionalità, il contenuto umano della sua sventura e delle sue colpe, il segno eterno dell' universale follia, il documento pietoso della perenne tragedia dell'uomo, mal difeso dalla giustizia terrena, trascinato al male dagl'istinti e dalle passioni. Visione più austera e profonda, onde il poeta trasse vigore per riplasmare la figura; minutezze d' analisi, complicanza di linee, esuberanze pittoriche, eccessività etiche o satiriche o romantiche disparvero o s'attenuarono in forme sobrie e delicate: nel misurato e nitido disegno, nel fine rilievo de' lineamenti più intimamente spirituali, nella sapiente armonia di ìndi e d'ombre che mitiga l'orrore di quella rovina morale, destandovi vibrazioni d' un' accorata e pensosa pietà, Gertrude ne esce trasformata in un'altra creatura, il cui tormento d'animo e di sensi ora s' intuisce dal lampeggiar d' un accento o d' un atto fugace, ora di riflesso si scorge in taluni improvvisi sprazzi di luce con che il psicologo illumina l'abisso di quello spirito, X. Vedete gli occhi della nuova Gertrude: il poeta, che con grande sforzo aveva cercato di cogliervi l'animo nel primitivo ritratto, ma non ne aveva ricevuto che un'impressione generica, confusa, superficiale, li scruta, li penetra, e ne ha la visione integrale e complessa in questa nuova dipintura meravigliosa: «In certi momenti un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea di un odio inveterato e complesso, un non so che di minaccioso e feroce; quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginato una svogliatezza orgogliosa e chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d' un pensiero nascosto, di una preoccupazione familiare all'animo e più forte su quello che gli oggetti circostanti» (*). Quest' analisi, rivolta più all' interno dello spirito che ai caratteri esteriori, riflette quel mirabile equilibrio della fantasia e della coscienza che il Manzoni raggiunse solo nelr ultima forma del romanzo e che è il segno immortale della grande arte classica. Altre particolarità del ritratto, per quanto sieno state attenuate e ingentilite (*), potrebbero togliersi via anche dalla redazione corretta, e la linea essenziale che segna il travaglio del mistero di quell'anima ne risalterebbe con più potente vigore. Io credo che il Manzoni, nel rielaborarlo, fosse sospinto dalla medesima cura, ma che . non abbia saputo rinunciare del tutto a quella tendenza analitica che, per essere un abito della sua mentalità, non poteva non lasciar traccia di sé anche nell'opera rifusa e rifinita. I «moti» delle labbra, «come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni di espressione e di mistero», hanno nell'analisi di quell'intimo affanno una significazione poetica, né spiacciono quello scomparire della «grandezza ben formata della persona» «in un certo abbandono del portamento» e quel comparire «sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute» e anche quel «qualcosa di studiato o di negletto» nel «vestire stesso della monaca»: elementi utili alla visione sintetica del complesso carattere di Gertrude. Quanto al resto, se il Manzoni avesse coraggiosamente ridotta ad una semplice linea fisica i particolari del viso e dell'abbigliamento, avrebbe dato un ritratto immortale. Quello che abbiamo, ad ogni modo, segna rispetto al primitivo un notevole progresso di spiritualizzazione della figura e di sobrietà artistica nel rappresentarla. Nel colloquio col padre guardiano e con le due fuggiasche, la medesima misura, nitidezza e compostezza e, in cambio, una maggior densità e finezza spirituale ha ricevuto la rappresentazione del (1) Prom. sp., cap. IX, p. 128. (2) La parte visibile della fronte bianca come «un candido avorio», «liscia ed elevata»; le «labbra regolarissime, dolcemente prominenti»; il «mento rilevato appena come quello d'una statua greca»; la «striscia di collo bianco e tornito» che «una gorgiera bianca, increspata, lasciava intravedere»; le «forme di alta e regolare proporzione», che il «portamento disinvolto e risoluto rivelava»; il «seno succinto con un certo garbo secolaresco» dovettero parere al Manzoni elementi d'un realismo troppo vivo, d'una plasticità troppo rilevata; e pur qui corresse, direi quasi mortificò la sua fantasia, come fece nel descrivere la bellezza di Gertrude adolescente. Se qualche spunto del ritratto fisico rimase, lo ritoccò per rivolgerlo ad un fine psicologico, come Dell'accennare alla «ben formata grandezza», o per suscitare un' impressione dolorosa, come nel dipingere «alterato e reso mancante da una lenta estenuazione» il «contorno delicato e grazioso» delle gote «pallidissime» (ivi). carattere: brevi e generose (') le parole d' acconsentimento alla richiesta del cappuccino, dette senza l'ambiguo sorriso della minuta; pronto l'interessamento pel «caso» di quella «giovane», un pò* più corretta quell'espressione di curiosità che la signora pur non sa trattenere, circa 1 «gravi pericoli» di Lucia accennati dal frate;(') più tenue il suo rossore e più composta l'espressione del volto che r accompagnava (3) nel ricredersi di quella curiosità; più temperata ne' movimenti, negli atti, nelle parole stesse (^) che le vengono sulle labbra alla dipintura, che il padre ha fatto di don Rodrigo; più contenuta nella collera e nel rancore (^) da cui è presa, come abbiam visto, quando Agnese inopportunamente s'intromette a narrar la storia della figliuola; meno diffidente uell' accogliere sotto la sua protezione Lucia (^), Una conseguenza di questa più nobile e più composta concezione del carattere di Gertrude si avverte altresì nel modo come si com (1) Prima diceva: «I servigi fatti agli amici hanno con sé il loro guiderdone; e del resto ad ogni evento io non dubiterei di far conto sul ricambio dei nostri buoni padri. 11 mondo è pieno di tristi e d'individiosi: e nessuno può assicurarsi che non venga un momento in cui possa aver bisogno d'una buona testimonianza e d'aiuto» (Sp. prom., p. 109). Vero è che anche nell'ultima redazione dice: «anch'io in un caso, in un bisogno, saprei far capitale dell'assistenza de' padri cappuccini»; e commenta con «un sorriso» dal quale traspare «un non so che d' ironico e d'amaro»: «alla fine non Siam noi fratelli e sorelle ?»; ma qui è così occulto il proposito di valersi della testimonianza e dell'assistenza de^li amici cappuccini nel caso che cadesse sotto sospetto od accusa pe' suoi segreti amori con Egidio, che non se ne ha che un'impressione vaga e indefinita; mentre nella minuta traluceva troppo evidentemente dalle sue molte e brusche parole, con disdoro non lieve del carattere di Gertrude; e l'ironia di quella domanda e di quel sorriso non ha la nota aspra di scherno, che il primo testo lasciava trapelare. (2) Sp. prom., p. 170; Prom. sp., cap. IX, p. 129. (3) Negli Sp. prom.: «Si fece tutta di porpora. Era verecondia* Chi avesse osservata una subitanea, ma viva espressione di scherno e di dispetto che accompagnò quel rossore avrebbe potuto dubitarne» (ìoi). E nei Prom. sp.: «arrossendo alquanto. Era verecondia* Chi avesse osservata una rapida espressione di dispetto che accompagnava quel rossore, avrebbe potuto dubitarne» (ivi). (4) Negli Sp. prom.: «? Ma voi -- disse la Signora, rivolta repentinamente a Lucia -- voi che dite di codesto Signore? A voi tocca a dirci se egli era un persecutore, e se aveva gli artigli sozzi» (p. 171). E ne' Prom. sp.: «Accostatevi, quella giovane -- disse la signora a Lucia, facendole cenno col dito -- . So che il padre guardiano è la bocca della verità; ma nessuno può esser meglio informato di voi, in quest'affare. Tocca a voi a dirci se questo cavaliere era un persecutore odioso» (ivi). (5) I Protri, sp., non accennano che ad «un atto altero e iracondo, che la fece quasi parer brutta» (p. 130). (6) Negli Sp. prom.: «Voglio sentirvi da sola a sola. Padre guardiano, se elja conoscesse per testimonianza degli occhi suoi i casi di questa giovane, certo eh' io non starei ora in dubbio: ma ella non li conosce che per relazione: e per me, piuttosto che servire alla violenza fatta ad una povera giovane...». E ne' Prom. sp.: «Avrò piacere di sentirvi da solo a solo. Non ch'io abbia bisogno d'altri schiarimenti, né d'altri motivi, per servire alle premure del padre guardiano...» pp. 130-1). porta con Lucia e le si aflfeziona da quando rimane a solo a solo con lei fino al giorno che, accecata dal prepotente volere di Egidio, la tradisce. Nel trattare de' mutamenti che subì il carattere di Lucia attraverso l'intensa elaborazione del romanzo, osservavo, a proposito dell'ultimo colloquio della poveretta con la signora (il colloquio del tradimento), come, per effetto di quella convenienza psicologica ed artistica che regola i mutui rapporti de' personaggi tra loro e, per riflesso, de' mutamenti recati nello svolgimento dell'azione generale e degli episodi particolari, di cui i personaggi stessi sono i fattori necessari, abbia il Manzoni variato l'analisi e gli atteggiamenti drammatici dell'una rispetto all'altra. Quella scena del tradimento attesta per le mutazioni operate -- come mi pare d' aver dimostrato -- il proposito del poeta^ di smorzare il troppo vivace colore che assumeva nella minufa la perfidia di Gertrude destando un senso di profonda ripugnanza per quell'ostentazione d'una falsa carità; comprova altresì con quanta cura e con quanto coraggio egli sia venuto epurando l'opera sua d'ogni elemento troppo patetico o troppo pittorescamente drammatico, e, quando non l'abbia potuto sopprimere per la sua intima ispirazione romantica (ad es. il ratto di Lucia e quell'orrenda notte nel castello dell'Innominato), ne abbia ingentilito lo spirito e il colore con classica compostezza. Ebbene: quella medesima legge di relatività psicologica de' personaggi in azione e l'intento d' idealizzare alquanto il carattere della signora hanno suggerito al Manzoni di mutare in rapidi riferimenti indiretti tutto il lungo dialogo vivace tra Lucia e la suora, quale aveva egli primamente esteso nella minuta. Non si dimentichi che il Manzoni aveva voluto notare con speciale rilievo come la stravaganza e la sregolatezza fossero diventate quasi una seconda natura nella sciagurata Gertrude, che una trista educazione e la consuetudine di sentimenti e d' idee con Egidio avevano pervertito (*); alla qual cosa nel romanzo rifatto egli non dà un così vivo risalto né un particolar posto nell'analisi psicologica; e solo qua e là ne tocca con vaghi e rapidi accenni e in (1) «Quella regola nei discorsi, quel contegno nei modi, ch'ella non poteva avere naturalmente, e per ispirazione dalla pace dell'animo, non aveva i mezzi per trovarlo nella esperienza e per comandarselo. La sua esperienza non era altro che del chiostro, di quel poco che aveva veduto nel tempo burrascoso passato nella casa paterna, e di ciò che aveva imparato dall'infame suo maestro; le sue idee erano un guazzabuglio composto di questi elementi....» (Sp. prom., pp. 252-3). 376 PARTE TKRZA modi più contenuti (*). Effetti, certamente, di quella più alta concezione del personaggio che abbiamo tanto spesso notato, ma, per contrapposto, le maniere e le parole, più che capricciose, sfrenate e imprudenti del colloquio con Lucia volevano essere, nell' intenzione prima dell' autore, un saggio, che deliberatamente ci metteva innanzi, di quella strana morbosità scandalosa, su cui s'era soffermato con la serietà dello storico che vuol documentare l'animo e i costumi di un secolo. Gertrude ne era, per l'autore degli Sposi promessi, uno de' documenti più singolari. Come non sentirsi attratto a presentarla in azione nell'abbandono, anche più smodato e più strano che non avesse potuto poco prima in presenza del padre guardiano, al disordine, in lei connaturale, de' pensieri e delle parole? Da queir interrogazioni curiose, insistenti, ardite, da queir impressioni e da quei giudizi non meno stravaganti riceveva risalto la scompigliata mente della pervertita, così come l'angoscia, il terrore, la debolezza del carattere, l'abietta schiavitù, in cui l'aveva ridotta il peccato, 'avevano avuto una rappresentazione diretta e colorita nell'analisi del suo pervertimento e, assai più, nella scena dell'uccisione della conversa, ne' dialoghi tenebrosi con le altre due suore, e -- come, vedremo -- nel colloquio con Egidio e ne' dibattiti con quelle sciagurate, in cui si ordisce il tradimento della povera Lucia. Il dialogo è lungo, (*) e non conviene che mi attardi a riferirne di troppo, ma è evidente che nel primitivo disegno del Manzoni doveva servire all' analisi e al ritratto de' caratteri e non solo della sciagurata reclusa, ma pur di Lucia e di don Rodrigo. Quell'aria quasi d'intimazione di dirle il «vero>, d'esser «sincera», di raccontarle «tutta la storia >, quel!' «affogare Lucia d'inchieste» per sapere minutamente e del fidanzato e del vagheggiatore, quelle parole di confessione pel «poveretto» don Rodrigo che «pativa» per Lucia e ne era oggetto di «tanto orrore» -- al qual sentimento si rimescolava il rancore contro i cattivi «tiranni» suoi, il riso senz'ombra di pudore, che le lampeggiava tra le labbra all'espresso timor di Lucia di quelle cose che offendono la santa ignoranza di (1) Ne tocca a proposito de' giochi e discorsi delle educande, ch'ella eccitava e rendeva più intemperanti (Prom. sp., cap. X, p. 158) e a proposito delle «imprecazioni» e degli «scherni» «espressi in un linguaggio insolito» nel tempo che -- possiamo arguirlo, anche se il guardingo Manzoni non lo dica -- la tresca con Egidio doveva essere di molto avanzata (ibicl., p. 159). (2) Sp. proni., pp. 254- ________________ (1) A. MANZONI, Osservazioni sulla morale cattolica, Parte edita, Parte inedita e «Pensieri religiosi» per cura di A. Cojazzi, Torino, 1910, pp. 162, 163. (2) Oss. s. mor. catt. (ed cit.), pp. 163-4. (3) Ibid., p. 161. (4) Ibid., p. 162. (5) Ibid., p. 383 e segg. (6) Ibid., pp. 384, 388, 387. (7) Ibid., pp. 165, 167, 169, 169-70, 170, 182. Cfr. anche p. 189. (8) Ibid., pp. 483, 484, 485, 487, 489, 479. (9) Ibid., p. 205. (10) Ibid., pp. 179, 176, 177, 187-8, 316, 389. (11) Ibid., pp. 155, 215, 205, 516. V. ciò che dice a pp. 449 e 155 delle guerre romane di conquista, del trattamento degli schiavi fuggitivi, delle condizioni d'indegnità civile, che gli Spartani facevano agl'Iloti. (12) A. MANZONI, Opere inedite e rare, pubblic. da R. BONOHI, Milano, Rechiedei, 1883-1891, vol. III., p. 194. (13) Ivi. (14) Le osservazioni a questi autori sono le più numerose della serie (in Opp. in. e r., II, pp. 253-339). (15) Opp. in e r., II, pp. 270, 272, 273 274. (16) Ibid., p. 269. (17) Ibid., pp. 291, 306, 309, 322. Ideava nel '21 una tragedia su Spartaco, per la quale veniva raccogliendo diligentemente il materiale storico, disegnando la trama drammatica e studiando attentamente lo spirito morale e sociale di quell'età che vide la prima grande insurrezione di schiavi (V. Opp. in. e r., II, pp. 275-88) (18) Ibid., p. 274. (19) Ibid., p. 289. V. anche pp. 291-2. (20) Ibid., p. 295. Sulla benevolenza verso tutti gii uomini, che solo la morale cattolica può comunicare, v. le cit. Oss. s. mor. catt., p. 203. (21) Gli SPOSI PROMESSI, per la prima volta pubblicati nella loro integrità di sull'antografo da GIUSEPPE LESCA, con quattro facsimili, Napoli, Perrella, 1916, pp. 508-9. Il Manzoni trae argomento pel suo parallelo da una statua colossale che, a tempo de' tumulti popolari descritti nel romanzo, raffigurava quel monarca e che « circa centosettant'anni » dopo (a tempo, dunque, della Repubblica cisalpina) venne « trasformata alla meglio in un Marco Bruto». (22) Opp. in. e r., II, pp. 292, 293, 294. (23) Nella vallata di S. Martino, dopo una faticosa giornata, spesa in visite, discorsi e benedizioni di villaggio in villaggio, Federigo, spossato dal lungo digiuno, si rifocilla, iu mezzo alla gente ammirata e compunta, con un tozzo di pane e un bicchier d'acqua (Sp. pr., pp. 466-8). (24) Sp. pr., p. 469. Anche nella II. P. della Mor. catt. biasima la « posterità », che « esalta i trionfi dell'uomo sopra l'uomo, le gioie nate dai dolori altrui» (ed. cit., p. 520). (25) V. le garbate osservaz. del D'OVIDIO in Nuovi studi manz., Hoepli, Milano, 1908, pp. 575. (26) Cfr. l'art, di F. CRISPOLTI, Le rivelaz. dei Br. ined. sul M. istoriografo, nel Momento del 30 nov. 1914 e riassunto da A. PELLIZZARI in Studi manz., Napoli, Perrella, 1914, vol. I. pp. 115-21. (27) V. contro l'erroneo concetto di «Religione nazionale». Opp. in. e r., II., pp. 468-9. (28) Sp. pr., pp. 469-70. Anche nelle Oss. s. mor. catt. esalta sugli scrittori del gentilesimo, de' quali pur «si parla come di uomini grandi,» gli Apostoli de' quali «si è parlato anche pur troppo... come di uomini da nulla» (pp. 477-8; v. di questa la n. 1). V., altresì, a pp. 214, 215 e segg., il severo giudizio su Traiano e Plinio per il loro contegno verso i Cristiani. Eppure il primo - osserva il Manzoni - era ed è «celebre per sapienza e mansuetudine,» e altrettanto il secondo «per coltura d'ingegno e dolcezza di carattere». (29) Oss. s. mor. catt., p. 214. (30) Nella Lett. sul Romanticismo a Cesare d'Azeglio del 22 sett. 1823. V. il passo riportato nel voi. delle Prose minori con note di A. BERTOLDI, Firenze, Sansoni, 1897, pp. 164-5. (31) Questo passo, che il Manzoni soppresse nell'ediz. definitiva delle Opere varie del 70, si legge nell'Epistolario, raccolto da G. SFORZA, Milano, Carrara, 1882-83, vol. I., p. 291. (32) Epist., I., pp. 291-2. Anche questi tratti il Manzoni omise nell'ediz. del '70, unicamente -- non v'ha dubbio -- per ragioni di temperanza polemica. (33) V. negli Sp. pr. pp. 417, 423, 496, 568, 613, di dove traspira la beffarda canzonatura di modi e detti, anche celebri, de' classici e delle loro teoriche letterarie. (34) Nella Lett. sul Rom. (ed. Bertoldi), pp. 150-1. (35) Indipendente anche dai Giansenisti, se, come avverte E. ROTA (L'enigma del '700 e il problema delle origini del nostro Risorgimento, in N. Riv. stor., a. II., fasc. IV., p. 390), è da studiare, fra le loro peculiari attitudini, «una singolare predilezione verso l'antichità classica». Importa, per contro, rilevare l'affinità de' giudizi manzoniani col pensiero di A. VERRI nelle Notti romane, ispirate, è vero, piuttosto da certa filosofia e moralità civile che dal Vangelo, ma intese, non meno degli scritti del Manzoni, alla celebrazione della civiltà del cristianesimo. V., per es., quella fine del VI colloquio della Notte terza: «volgendomi ora dietro a compendiare le sentenze da me udite dai romani stessi sopra i meriti loro, conchiude la mente mia ch'eglino furono grandi più che buoni, illustri più che felici, per instituto oppressori, per fortuna mirabili, per indole distruttori, generosi nelle malvagità, eroi nelle ingiustizie, magnanimi nelle atrocità. Per le quali funeste illusioni tanto ancora ne rimbomba la fama, che lo strepito suo fa timido il giudizio di molti, e sommerge la voce de' saggi. Io pertanto moderai quella eccelsa opinione ch'ebbi del popolo romano; talché, senza diminuirsi in me l'ammirazione per le sue incredibili imprese, giudicai però fosse un riposo del mondo che una gente, la quale tutto lo bramava e tutto sempre lo perturbò, fosse alfine vinta dal tempo». E si veda, altresì, della Notte sesta il colloq. VI., nel quale ai «trionfi» romani, «effetto di torrenti di sangue e di secoli di sofferenze disastrose», è opposto il trionfo riportato dalla Chiesa «col solo ministerio della sua divina favella». (36) Serm. sur le triomphe de la religion, in Oeuvres de MASSILLON, Paris, Renouard MDCCCX, vol. VI., pp. 221-2. V. anche le pp. 204-5 sull'oltretomba pagano, frutto di fallaci superstizioni, in confronto con le «espérances plus nobles et plus sublimes» promesse dalla religione cristiana. (37) Serm. pour le jour de Noël, in Oeuvres (ed. cit.), vol. I., pp. 341-3. Dell'abiettezza e dell'empietà -- come il facondo oratore sentenzia -- de' culti idolatri, v. nel medesimo vol. vivaci descrizioni a pp. 331-3. -- Roma stessa -- egli osserva -- vedeva sorgere tra le sue mura «les idoles diverses de tant de peuples souniis, qui devenoient plutót les monuments publics de sa folle et de son aveuglement que de ses victoires» (p. 333). V. anche pp. 349-50, 354-5. (38) Ibid., pp 347-50 (39) Semi, sur la divinité de Iésus-Christ, in Oeuvres (ed. cit.), vol. I., p. 387. (40) Serm. sur la vérité de la religion, in Oeuvres (ed. cit.), vol. II., p. 93. (41) Ibid., p. 89. (42) Ibid., p. 90. (43) Ibid., p. 100. (44) Serm. sur la fausseté de la gioire humaine, in Oeuvres, (ed. cit.) voi. VI., pp. 141-2, 146. (45) Serm. cit. sur la verité de la relig., pag. 113-17. (46) Serm. sur les afflictions, in Oeuvres (ed. cit.,) vol. I., pp. 153-4. (47) BOSSUET, Sermons pour le jour de la Pentecóte, in Oeuvres, Versailles, de l'imprimerie de I. A. Lebel, 1816, vol. XIV, pp. 128, 134. -- BOURDALOUE, Sur la paiax chrétienne, in Sermons pour le Caréme, Lyon, Anisson et Posuel, MDCCVIII, vol. I., pp. 351, 366. - NICOLE, Essais de morale, in Oeuvres, Paris, Desprez, MDCCC, vol. XI, passim. (48) Pensées (ed. Flammarion), pp. 75, 76, 78, 81, 84-5, 89-90, 91, 174. (49) Op. cit., pp. 282-3. V. anche la Prière, in append. ai Pensieri (ed. cit.) p. 324. Contro i Platonici, in particolare, Epitteto e i suoi seguaci si veda a pp. 278-79. (50) Oss. s. mor. catt. (ed cit.), p. 444. (51) Ibid., pp. 444-5. (52) Ibid., p. 446. (53) Ibid., p. 445, n. 1. (54) Ibid., pp. 446-55. (55) Ibid., pp. 456-9. (56) Ibid., p. 456. (57) I promessi sposi, in Opere, vol. I., Hoepli, Milano, 1905, p. 380. (58) Prom. sp., (ed. cit.) cap. VI, pp. 82, 83. (59) Ibid., p. 80. (60) Prom. sp., cap. VIII, p. 109. (61) Ibid., p. 120. (62) Prom. sp., cap. XXV, p. 370. (63) Ibid., pp. 397, 398. (64) Ibid., p. 377. (65) Prom. sp., cap. XXII, p. 322. (66) Ibid., p. 318. (67) Prom. sp., cap. VII, p. 89. (68) Prom. sp., cap. XXVI, p. 381. (69) Prom. sp., cap. VII, p. 90. (70) Prom. sp., cap. XXXV, p. 526. (71) Prom. sp., cap. XXXVI, p, 543. (72) Oss. s. mor. catt., p. 450. (73) Prom. sp., cap. XXXVIII, pp. 566, 569. (74) Prom. sp., cap. XXII, p. 318. (75) Oss. s. mor. catt., p. 461. (76) Ibid., pp. 462, 463. (77) Prom. sp., cap. IV, pp. 50, 51. (78) Prom. sp., cap. VI, pp, 78, 77. (79) Prom. sp., cap. VIII, pp. 120, 121. (80) Prom. sp., cap. XXXV, pp. 527, 529. (81) Oss. s. mor. catt., pp. 463, 464. (82) Prom. sp., cap. XI, p. 177. (83) Prom. sp., cap. XIV, p. 212. (84) Prom. sp., cap. XII p. 187, cap. XVI, p. 245. (85) Prom. sp., cap. XIV, p. 205. (86) Prom. sp., cap. XVI, p. 245. (87) Prom. sp., cap. XXVII, p. 407. (88) Prom. sp., cap. XIV, p. 206. (89) Ivi, p. 205. (90) Di fra Cristoforo abbiamo visto come talvolta risorgesse in lui l'uomo antico accanto al nuovo; di Federigo dice lo stesso Manzoni die risentiva di certi «errori del suo tempo» (Prom. sp., cap. XXII, p. 323). (91) Prom. sp., cap. XXIV, p. 359. (92) Prom. sp., cap. XI, p. 177. (93) Oss. s. mor. catt., p. 466. (94) Prom. sp., cap. V, p. 70. (95) Prom. sp., cap. XVIII, p. 272-3. (96) Ivi. (97) «Ne ho visti qui -- esclama padre Cristoforo, additando a Renzo la «dolorosa scena all'interno» nel lazzaretto -- degli offesi che perdonavano; degli offensori che gemevano di non potersi umiliare davanti all'offeso . . . . . » (Prom. sp., cap. XXXV, p. 526). (98) Prom. sp., cap. XXV. p. 375. (99) Oss. s. mor. catt., p. 299. (100) Ibid., pp. 307, 308. (101) Ibid., pp. 540, 541. (102) Prom. sp., cap. I, p. 18. (103) Prom. sp., cap. XXIII, pp. 337, 339. (104) Oss. s. mor. catt., loc. cit. (105) Prom. sp., cap. XXIV, p. 349. (106) Prom. sp., cap. XXXVII p. 543. (107) Oss. s. mor. catt., p. 299. (108) Prom. sp., cap. VIII, p. 110. (109) Prom. sp., cap. XXV, pp. 364, 372.3. (110) Prom. sp., cap. XIII, p. 196. (111) Oss. s. mor. catt., loc. cit. (112) Prom. sp., cap. XXXVI, pp. 538,541 (113) Oss. s. mor. catt., loc. cit. (114) Ibid., p. 469. (115) Certamente allude al Bossuet, al Bourdaloue, al Massillon, al Nicole, al Pascal là dove, ragionando di quelli che non giovarono alle «idee religiose» col sostenere e lodare «tutto», dice; «Da lungo tempo la letteratura originale è in un sol luogo: là bisogna cercare i grandi argomenti e i grandi modelli, le grandi bellezze e i grandi difetti, e spesso si trovano in un sol uomo e in un sol libro» (Ibid., pp. 472, 473). (116) Ibid., pp. 468, 469, 473. (117) Prom. sp., cap. I, p. 17. (118) «Chi cerca trova. Una le paga tutte», dice la gente (Prom sp., cap. IV, p. 53). (119) Prom. sp., cap. XIII, pp. 195, 196, 197. (120) Prom. sp., cap. XXXII, pp. 472-3. (121) Disc. stor. sopra alcuni punti della storia longob. in Italia, in Opere varie, Milano, Rechiedei, 1870, cap. II, p. 170. (122) V. A. GALLETTI, Saggi e Studi; Manzoni, Shakespeare e Bossuet, Bologna, Zanichelli, 1915, pp. 34-7. (123) Questi concetti si trovano sparsi in una lunga nota, che è un vero excursus politico-religioso interessantissimo, al cap. II del cit. Disc. stor. sopra alcuni punti della st. longob. in Italia (pp. 166-9). La medesima idea -- essere, cioè, il cattolicesimo adatto a tutti i governi -- è espressa, in opposizione al Montesquieu, ne' Pensieri, in Opp. in. o r.. cit., vol. II, p. 468. (124) Oss. s. mor. catt., pp. 503. (125) Ivi. (126) Ibid., p. 502. (127) Ibid., pp. 503-4. (128) Serm. Du pardon des offenses, in Oeuvres (ed. cit.). p. 158. (129) Prom. sp., cap. I, p. 16. (130) Prom. sp., cap. XXXV, p. 526. (131) V. del Cinque maggio la str. 18a: Il Dio che atterra e suscita,Cfr. anche il Proclama di Rimini, st. 4*, Il Conte di Carmagnola, A. II, coro, str. 15a Torna in pianto dell'empio il gioir: Ben talor nel superbo viaggio Non l'abbatte l'eterna vendetta; Ma lo segna; ma veglia ed aspetta; Ma lo coglie all'estremo sospir. (132) Serm. pour le jour de la Pentecôte, in Oeuvres (ed. cit.), vol. VII, p. 264. (133) Essais de Morale, (ed. cit), vol. XI, p. 127. (134) Oss. s. mor. catt., pp. 505-6. V. simili riflessioni in Opp. in. o r. cit., voi. III, p. 334. (135) Ibid., pp. 519-21. (136) Ibid., pp. 522-3. (137) Notevoli le riflessioni del Manzoni sulle dottrine politico-religiose correnti in Francia durante il suo soggiorno a Parigi tra il '19 e il '20. Nella lett. al can. Tosi del 7 apr. 1820 (Carteggio, a cura di G. Sforza e G. Gallavresi, nell'edizione hoepliana delle Opere, Milano, 1912, p. 481 e segg.), giudicando l'opera dell'ab. Lamennais, difende lo spirito evangelico e la verità unica della religione cattolica, si duole delle aberrazioni altrui in materia religiosa, del discredito in cui il sentimento religioso era caduto, dell'uso che lo stesso clero faceva della religione come di un'arma d'assolutismo politico, della confusione, insomma, irta d'odî, di contese, d'asprezze, della politica con la religione. Le stesse deplorazioni si trovano nella lett. del 1° dic. 1819 (Cart. cit., p. 453). (138) Oss. s. mor. catt., pp. 517, 518. (139) Opp. in. o r. cit., vol. III, p. 335. (140) Lett. sul Romanticismo cit., p. 165. (141) Ivi. (142) Ils fasoient consister leur gioire à dépeupler la terre de leurs semblables . . . .; on auroit dit qu'ils tenoient leur être de différents createurs irréconciliables, toujours occupés à se detruire, et qui ne les avoient placés ici-bas que pour venger leur quarelle, et terminer leur différent par l'extinction universelle de l'un des deux partis» (Serm. pour le jour de Noël, in Oeuvres, ed cit., vol. I, p. 359). (143) Cfr. nel cit. Serm. le pp. 360-2 con passi, pur cit., della Mor. catt. (pp. 509, 521, 522). (144) Le idee morali del Manzoni e le Oss. s. mor. catt.; nel Rinnovamento, vol. V, p. 27. (145) Op. cit., pp. 14, 24. Sulle passioni, come fonte di «tutte le dottrine false» e di «tutti gli abusi delle vere» e sullo sforzo di volere conciliar quelle con «l'autorità della dottrina che le condanna» v. Oss. s. mor. catt., pp. 253-4. (146) Serm. sur l'immutabilité de la loi de Dieu, in Oeuvres (ed. cit.), vol. V, pp. 76-7. (147) Ibid., pp. 80, 81. (148) Prom. sp., cap. I, p. 17. (149) Prom. sp., cap. XI, p. 162; cap. XVIII, pp. 264-5; cap. XX, p. 290. (150) Prom. sp., cap. II, p. 24; cap. XI, pp. 163, 166; cap. XVIII, p. 272. (151) Prom. sp., cap. XVIII, pp. 272-5; cap. XIX. pp. 277-83. (152) Prom. sp., cap. XXV, p. 369. (153) Prom. sp., cap. XXVII, pp. 397-8. (154) Cfr. F. CRISPOLTI, L'origrine intima dei «Promessi sposi», Discorso proemiale all'ediz. torinese del romanzo (1913, Libr. editr. Internazionale) specialmente a pp. XIII-XV. (155) Oss. s. mor. catt., p. 472. (156) Ibid., p. 527. «È raro -- rileva il Manzoni -- che due persone di contrario parere si fermino nella questione, cerchino pazientemente d'illuminarsi a vicenda, non sostituiscano le passioni agli argomenti; e che sarà quando le dispute saranno trattate da molti che non vi portano altro che le passioni, senza un solo argomento?». (157) Ibid., pp. 504-5. (158) Disc. stor. sopra alcuni punti d. st. long. cit., cap. V, p. 257. (159) Opp. in. o r., voi. III, p. 398. (160) Ibid., p. 402. (161) Ibid., p. 396. (162) Ibid., pp. 400-1. Notando negli Sposi promessi che gli esempi di frugalità e d'astinenza valsero a procurar gloria al romano Fabrizio, ma non varrebbero a Federigo Borromeo, conchiude con estrema amarezza: "La più parte degli uomini, parlo degli uomini cólti, non consente [ad] ammirare le virtù frugali ed astinenti che in coloro i quali eccitano con virtù feroci un'altra ammirazione di terrore: non considera quelle come virtù, che quando siano unite ad un profondo sentimento d'orgoglio e di disprezzo per qualche parte del genere umano" (p. 469). Le osservazioni del Manzoni sull'orgoglio pagano collimano col pensiero del Massillon, che fa una spietata analisi della società romana in un suo celebre sermone. "Oui, -- egli dice -- mes Frères, je dis que l'orgueil avoit été la première source des troubles qui déchiroient le coeur des hommes. Quelles guerres, quelles fureurs, cette funeste passion n'avoit elle pas allumées sur la terre"? (163) Opp. in. r., vol. III, pp. 196, 197-8. Similmente il Massillon: "La vie de la plus part des hommes est une vie toujours occupée et toujours inutile; une vie toujours laborieuse et toujours vuide: leurs passions forment tous leurs mouvements. Ce sont là les grands ressorts qui agitent les hommes; qui les font courir ça et là, comme des insensés; qui ne les laissent pas un moment tranquilles ecc." (Serm. sur l'emploi du temps, in Oeuvres, ed. cit., vol. V, p. 104) (164) App. al cap. III della Mor. catt. (ed. cit.), p. 386. (165) Prom. sp., cap. XXXVIII, p. 573. (166) Ibid., p. 574. (167) Oss. s. mor. catt., p. 338. (168) Ibid., pp. 340-6. (169) Ibid., pp. 341-2. Sull'orgoglio v. anche le pp. 349-50, 355. (170) Ibid., pp. 342-3. (171) Ibid., pp, 320-1. (172) Ibid., p. 325. (173) Ibid., p. 182. V. anche p. 189. (174) Loc. cit. alla p. 23. Anche il Massillon, nell'inculcare la pratica del Vangelo in tutti tempi, rammenta quella comune obiezione "qu' il faut prendre les hommes tels qu' ils sont". (Serm. cit. sur l'immutabilité de la loi de Dieu, p. 56). (175) Ibid., pp. 306-7. (176) Ivi. (177) Ibid., p. 200. V. anche p. 202. (178) Ibid., p. 486. (179) Ibid., p. 203. (180) Ibid., p. 248. Cfr. G. NEGRI, Commenti critici, estetici e biblici sui Prom. sp., Scuola tip. salesiana, Milano, 1903, P. I, pp. 71-85. (181) App. cit. al cap. III della Mar. catt., p. 386. (182) Ivi e passim. (183) Ibid., pp. 189, 214. (184) Opp. in. o r., vol. III, pp. 403-4. (185) Prom. sp. cap. XXXIV, pp. 508-9. (186) Ibid., p. 510. (187) Prom. sp., cap. XXXII, p. 472. V. anche pp. 457-8. (188) Prom. sp., cap. XXXV, pp. 519-20. (189) Prom. sp., cap. XXXIV, p. 502. (190) Prom. sp., cap. XVII, pp. 257-8. (191) Prom. sp., cap. XXIV, p. 352. (192) Prom. sp., cap. XXVIII, p. 430. (193) Prom. sp., cap. XXXV, p. 526. (194) Ibid., p. 522. (195) App. cit. al cap. III della Mor. catt., pp. 380, 381. (196) Prom. sp., cap. XXVI, p. 381. (197) Prom. sp., cap. XVII, p. 253: "pensando al buon frate, sentiva più vivamente la vergogna delle proprie scappate, della turpe intemperanza....." (198) Prom. sp., cap. XXVI, p. 382. (199) Prom. sp., cap. XXXVI, p. 530. (200) Oss. s. mor. catt., p. 173. (201) Prom. sp., cap. XXI, pp. 313, 314. (202) Prom. sp., cap. XXXV, p. 520. (203) Prom. sp., cap. XXIV, p. 352. (204) Oss. s. mor. catt., p. 299. (205) Prom. sp., loc. cit. (206) Oss. s. mor. catt., p. 178. (207) Prom. sp., cap. XXXVIII, p. 573. V. anche il VII de' Pensieri religiosi in Opp. in. o r., vol. II, p. 472. (208) Prom. sp., cap. XXIV, p. 359. (209) Prom. sp., cap. XXI, p. 305. (210) Prom. sp., cap. XXIII, p. 330. (211) Prom. sp., cap. XXVII, p. 396. (212) Prom. sp., cap. XXXVI, p. 543. (213) Prom. sp., cap. VIII, pp. 120, 121. (214) Prom. sp., cap. X, p. 161. (215) Pensées (ed. cit.), pp. 97-8. (216) Ibid., p. 259. V. anche p. 264. (217) Prom. sp., cap. XXIII, pp. 329-30. (218) V. Serm. cit. Sur les afflictions, p. 171 e segg. (219) «Des infortunés, qui naissent et qui vivent dans la misère et dans l'accablement, passent dans le silence et dans l'obloui presque de leurs peines, leurs jours malheureux: la plus petite lueur de soulagement et de repos, leur redonne la sérénité et l'allegresse: les plus légères douceurs, dont on console leurs peines, les leur font oublier: un moment de plaisir les dédommage d'une année entière de souffrances» (ibid., p. 167). (220) V. Serm. sur le malheur des grands qui abbandonnent Dieu, in Oeuvres (ed. cit.), vol. VI, pp. 83-4. (221) V., ad es., il Serm. ora cit., pp. 78, 81, tutto il Serm. sur les tentations des Grands, tutto quello Sur les écueils de la piété des grands e, in parte, quello Sur l'humanité des grands envers les peuples, in Oeuvres (ed. cit.), vol. VI. (222) Il cinque maggio, str. 16a. (223) Il Natale, str. 11a. (224) Adelchi, a. V, sc. 8a. (225) Ivi. (226) La Passione, str. 12a. (227) Prom. sp., cap. VI, p. 76. (228) Prom. sp., cap. XXII, p. 318. (229) V. Postille al ROLLIN, in Opp. in. o r., vol. II, p. 291. V. anche a p. 311 la postilla 3a. (230) «De quelque superbe distinclion que se flattent les hommes, ils ont tous une même origine; et cette origine est petite. Leurs années se poussent successivement comme des flots: ils ne cessent de s'écouler; tant qu'enfin, apres avoir fait un peu plus de bruit et traversé un peu plus de pays les uns que les autres, il vont tous ensemble se confondre dans un abîme où l'on ne recònnaìt plus ni princes ni rois, ni toutes ces autres qualités superbes qui distinguent les hommes; de méme que ces fleuves tant vantés demeurent sans nom et sans gloire, mélés dans l'océan avec les rivières les plus inconnues» (Oraisons funèbres, ed. Flammarion, p. 47). V. anche pp. 52, 58, 60, 61, 75, 131. (231) Ibid., p. 53. (232) Prom. sp., cap. VI, p. 76. (233) Ibid., p. 77. (234) Prom. sp., cap. XXI, p. 312. (235) Oss. s. mor. catt., pp. 497, 492; 441, 442. (236) Ibid., p. 443. (237) Opp. in. r., voL. III, p. 396. (238) Ibid., p. 397. (239) Ibid., pp. 309-10. (240) Oss. s. mor. catt., pp. 497, 498. (241) Serm. cit. sur les tentations des Grands. pp. 34, 35. (242) Oss. s. mor. catt., pp. 303-4. (243) Ibid., p. 375. (244) Prom. sp., cap. XXVI, pp. 378, 379. (245) Ivi. (246) Prom. sp., cap. XXV, p. 375. (247) Ibid., p. 376 e cap. XXVI, p. 377. (248) Prom. sp., cap. XXXIII, pp. 491-3. (249) Prom. sp., cap. XXXVIII, pp. 560-1. (250) Prom. sp., cap. V, p. 62. (251) Prom. sp., cap. VI, p. 75-78. (252) Sp. prom., pp. 122-5. (253) V. L. FASSÒ, Padre Cristoforo balordo, in Giorn. st. d. lett. ital., LI, 257-78. (254) Prom. sp., cap. XXIII, p. 328. (255) Ivi. (256) Ibid., p. 330. EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "La genesi e la formazione dei Promessi sposi", di Natale Busetto, editore N. Zanichelli, Bologna, 1821 ( Vedi ) |
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